Negli Stati Uniti, l’educazione nelle discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche (STEM) è considerata un investimento cruciale per il futuro economico e sociale del paese. Questo consenso politico e sociale, sostenuto da governi di diversi orientamenti, da fondazioni private e da singoli cittadini, si traduce in un aumento costante degli iscritti a corsi di laurea STEM e in un impegno significativo verso la formazione in queste aree. La ragione principale dietro questo massiccio investimento è la convinzione che una maggiore disponibilità di lavoratori STEM porterà a un incremento dell’innovazione, della crescita economica e della competitività internazionale degli Stati Uniti.

Le motivazioni che sostengono questo orientamento sono molteplici. In primo luogo, il cosiddetto “problema della scarsità” evidenzia la presunta insufficienza di laureati STEM per soddisfare la domanda delle imprese, le quali lamentano di non riuscire a coprire tempestivamente le loro posizioni aperte, arrivando perfino a sollecitare l’ingresso di lavoratori stranieri qualificati per colmare il vuoto. In secondo luogo, la necessità di mantenere la leadership globale in innovazione e sicurezza nazionale alimenta il desiderio di aumentare il numero di professionisti STEM, con l’aspettativa che ciò si traduca in benefici diffusi per la società. La terza giustificazione ruota attorno alla questione della diversità: l’attuale composizione demografica dei lavoratori STEM è prevalentemente maschile, bianca o asiatica, e questo squilibrio è visto come un ostacolo sia per la giustizia sociale che per lo sviluppo economico, poiché esclude gruppi etnici e di genere che potrebbero apportare contributi rilevanti. Infine, vi è un motivo ambientale e sociale: la crisi climatica, le pandemie e l’inquinamento plastico impongono un urgente bisogno di innovazione tecnologica, che si affida largamente al capitale umano formato in ambito STEM.

Tuttavia, queste premesse non si traducono automaticamente in un’effettiva occupazione nel settore. Sorprendentemente, una percentuale significativa di laureati STEM non trova collocazione in professioni direttamente collegate ai loro studi. Secondo dati del censimento statunitense, soltanto una minoranza, circa il 28%, lavora in ambiti STEM. Ancora più interessante è il fenomeno dell’abbandono precoce: molti giovani laureati tentano una carriera nel settore ma vi rinunciano dopo pochi anni, mentre una parte considerevole opta sin dall’inizio per carriere diverse o per ulteriori studi in ambiti non STEM. Questo disallineamento tra formazione e occupazione pone seri interrogativi sull’efficacia e sull’obiettivo dell’educazione STEM come investimento per il mercato del lavoro e per la società.

Il dato più rilevante, che emerge con forza, è la disconnessione tra la promessa dell’educazione STEM e la realtà del mercato del lavoro e delle condizioni lavorative. Le ragioni di questo fenomeno sono molteplici e complesse. Innanzitutto, le condizioni di lavoro in molti ambiti STEM sono spesso precarie, caratterizzate da insicurezza contrattuale, stress elevato, e mancanza di opportunità di carriera sostenibili nel lungo periodo. Le strategie manageriali adottate da alcune aziende possono contribuire a un clima lavorativo sfavorevole, che induce molti laureati a cercare alternative professionali più stabili o gratificanti. Inoltre, il mercato del lavoro STEM non è immune da problemi strutturali legati alla diversità e all’inclusione: la sottorappresentazione di donne e minoranze non solo penalizza questi gruppi, ma riduce anche la qualità e l’efficacia dell’intero sistema lavorativo.

Un’altra dimensione da considerare è la corrispondenza tra le competenze sviluppate nei corsi di laurea e quelle effettivamente richieste dai datori di lavoro. Spesso, la formazione accademica non prepara adeguatamente i laureati alle sfide pratiche e ai bisogni concreti delle imprese, che richiedono abilità specifiche e aggiornamenti continui. Il cosiddetto “treadmill delle competenze” implica un continuo adattamento che può risultare oneroso e demotivante per i lavoratori STEM, favorendo la fuga da questo ambito.

Infine, il tema della finalità dell’educazione STEM è cruciale. Se da un lato è evidente la necessità di sviluppare soluzioni tecnologiche per le grandi sfide globali, dall’altro emerge una disconnessione tra la formazione, l’occupazione e l’effettiva capacità di influenzare positivamente tali problemi. È essenziale ripensare non solo il modo in cui si formano i giovani nelle discipline STEM, ma anche il modo in cui il lavoro e le carriere in questi ambiti vengono strutturati e valorizzati.

L’attenzione alla qualità del lavoro, alla sostenibilità delle carriere, all’inclusione e alla reale corrispondenza tra formazione e mercato appare dunque fondamentale per trasformare l’educazione STEM in un investimento davvero efficace. La consapevolezza di queste dinamiche permette di evitare un’illusione collettiva che, nonostante gli ingenti sforzi e risorse investite, rischia di produrre un elevato spreco di talenti e di risorse umane preziose.

Importante è riconoscere che il successo dell’educazione STEM non si misura solo nella quantità di laureati o nel loro inserimento formale nel mercato del lavoro, ma nella qualità delle opportunità offerte e nella capacità di questi lavoratori di contribuire in modo significativo alle sfide del nostro tempo. Comprendere questo aspetto aiuta a evitare una visione riduttiva e a promuovere strategie più articolate e umane, che valorizzino le competenze e le aspirazioni individuali senza trascurare l’impatto sociale e ambientale.

Perché l'insicurezza del lavoro sta diventando la norma: l'evoluzione del mercato del lavoro e la fine della lealtà verso l'azienda

Negli anni ‘80, le pratiche occupazionali erano orientate verso l’obiettivo di garantire stabilità e lealtà tra i lavoratori. Tuttavia, a partire dagli anni '90, le imprese hanno iniziato a concentrarsi sulla riduzione dei costi e sull’ottimizzazione delle performance a breve termine. Il cambiamento più significativo si è manifestato nel fatto che oltre il 66% delle aziende ha ridotto le garanzie di sicurezza del lavoro, un aspetto che si stava progressivamente erodendo fino a scomparire quasi completamente. Entro la metà degli anni ‘90, solo il 3% delle aziende dichiarava di offrire ancora una qualche forma di sicurezza occupazionale.

Il mutamento nelle azioni dei datori di lavoro è stato altrettanto evidente. Durante il periodo di recessione economica degli anni '80, molte aziende licenziarono lavoratori per affrontare la crisi. Tuttavia, la vera novità si manifestò nel fatto che i licenziamenti continuarono anche durante i periodi di espansione economica. Tra il 1993 e il 1995, durante il primo mandato di Bill Clinton, l’economia americana registrava una crescita, ma la percentuale di licenziamenti rimase invariata rispetto al periodo della contrazione degli anni ‘80. Un dato significativo rivelò che circa il 15% dei lavoratori venne licenziato non per scarsa performance, ma semplicemente perché i dirigenti ritennero che eliminare quelle posizioni fosse più vantaggioso per l’azienda.

Le aziende iniziarono a ristrutturarsi, riducendo il numero di livelli gerarchici intermedi, un fenomeno che divenne noto come “appianamento” delle strutture aziendali. L’obiettivo era semplificare la gestione, responsabilizzare i lavoratori di livello inferiore e introdurre sistemi informatici che riducessero la necessità di controlli managerialistici. Tra il 2006 e il 2007, i laureati americani si sentivano meno sicuri e meno leali verso le loro aziende, convinti che la situazione sarebbe peggiorata nei prossimi decenni.

Anche le piccole imprese, e non solo le grandi corporation, si adattarono a questa tendenza. Le aziende, infatti, iniziarono a guardare ai lavoratori come a costi da ridurre piuttosto che come risorse da valorizzare. Un esempio emblematico fu quello di General Electric, che sotto la pressione degli investitori attivisti ha deciso di tagliare due miliardi di dollari di spese, licenziando un numero significativo di dipendenti per raggiungere questo obiettivo.

In tale contesto, la pratica del licenziamento non è mai priva di conseguenze negative. I lavoratori licenziati, come sottolineato da alcune ricerche, si trovano ad affrontare seri problemi psicologici e sanitari, con un rischio maggiore di morte prematura rispetto a coloro che mantengono il posto di lavoro. Ma le difficoltà non si limitano a chi viene licenziato: i lavoratori rimasti devono affrontare carichi di lavoro più pesanti, poiché i compiti lasciati vacanti dai colleghi licenziati vengono assegnati a loro. Questo aumenta anche la loro ansia, poiché nessuno può prevedere chi sarà il prossimo a perdere il lavoro.

Non si tratta solo di licenziamenti diretti. Un altro strumento utilizzato dalle aziende è l’outsourcing, che consente di trasferire il lavoro a un’altra impresa, talvolta in un altro paese, come India, Cina o alcune nazioni dell’Europa dell’Est. Questo fenomeno, descritto da alcuni studiosi come "Nikefication", rappresenta un modello in cui le aziende si concentrano solo sulle loro competenze principali, esternalizzando la produzione e altre funzioni periferiche. Nike, ad esempio, si occupa di progettare abbigliamento sportivo, ma non produce fisicamente i suoi articoli, delegando la produzione a fabbriche in paesi dove il costo del lavoro è notevolmente inferiore.

Il fenomeno della Nikefication ha avuto ripercussioni anche sui lavoratori con una formazione più qualificata, come quelli STEM. Le aziende hanno ridotto le opportunità di carriera interna, spesso preferendo esternalizzare o assumere personale esterno per colmare le posizioni dirigenziali o tecniche, riducendo così le prospettive di promozione per i dipendenti interni. Questo ha contribuito a un ulteriore accorciamento delle cosiddette "scale di carriera", che prima garantivano progressioni orizzontali o verticali all’interno delle aziende. La conseguenza diretta è una riduzione della lealtà tra i lavoratori, che cominciano a concentrarsi maggiormente sul proprio futuro professionale, piuttosto che su un possibile sviluppo all’interno dell’azienda.

L’aumento dell’incertezza lavorativa ha anche modificato il modo in cui i dipendenti si relazionano alle loro aziende. L’insoddisfazione verso la sicurezza del posto di lavoro, unita alla riduzione delle opportunità di avanzamento, ha portato i lavoratori a non considerare più le loro aziende come entità da cui poter trarre un valore duraturo. La mentalità aziendale è cambiata, e i dipendenti si sono visti sempre più come individui responsabili per la propria carriera, pronti a cercare altrove migliori opportunità.

In questo scenario, è fondamentale comprendere che la perdita della lealtà verso l’azienda non è un fenomeno puramente soggettivo, ma il risultato di pratiche aziendali concrete che, con il tempo, hanno eroso il concetto stesso di sicurezza del lavoro. La razionalizzazione delle risorse umane, i tagli ai costi e l’esternalizzazione sono solo alcune delle cause di un cambiamento che ha avuto ripercussioni sulla stabilità emotiva e psicologica dei lavoratori, creando una spirale di incertezze e insicurezze.

Il Significato del Lavoro nelle Imprese Tecnologiche: Una Riflessione Sulle Contraddizioni e il Dilemma Etico

Il significato che i lavoratori attribuiscono al loro lavoro può rivelarsi una questione complessa e sfaccettata, soprattutto quando si parla di aziende tecnologiche. Secondo un sondaggio condotto da Payscale, molte persone impiegate in alcune delle principali aziende tech come Facebook, Google, e SpaceX rispondono positivamente alla domanda se il loro lavoro contribuisce a migliorare il mondo. Facebook, ad esempio, ha registrato il 78% dei dipendenti che concordano su questa affermazione, mentre Google il 72%. Tuttavia, non è tutto così semplice come sembra. Questi numeri, purtroppo, nascondono un livello di stress morale che non sempre emerge in modo evidente.

Le problematiche morali e l’alienazione che alcuni lavoratori sperimentano in queste aziende non sono da sottovalutare. In particolare, i dipendenti di Google e Facebook si sono trovati di fronte a dilemmi etici che vanno oltre la semplice natura del loro lavoro. Ad esempio, molti impiegati di Google, un tempo ispirati dal motto "Don’t Be Evil", hanno cominciato a dubitare delle scelte dell'azienda, soprattutto quando i suoi progetti hanno cominciato a orientarsi verso collaborazioni con governi repressivi e a sviluppare tecnologie destinate a scopi militari. La protesta dei dipendenti contro progetti come il Project Maven, che mirava a collaborare con il Pentagono per sviluppare intelligenza artificiale, e il Project Dragonfly, il piano di Google per lanciare un motore di ricerca censurato in Cina, è emersa come una reazione a queste scelte. Questo tipo di dissonanza tra le aspirazioni iniziali di un'azienda e le sue azioni concrete ha creato un senso di alienazione tra i lavoratori, molti dei quali hanno deciso di lasciare l'azienda.

Un altro esempio significativo è quello di Wendy Liu, una ex stagista di Google, che ha deciso di abbandonare il settore tecnologico e di scrivere un manifesto politico chiamato "Abolish Silicon Valley". Liu, come altri, ha espresso la convinzione che la tecnologia debba essere riconquistata a beneficio pubblico, piuttosto che alimentare profitti privati. La sua decisione di uscire dal settore e l'intento di riformare la tecnologia per scopi più etici mette in luce come il settore tech sia pervaso da un conflitto tra l'ideale di progresso e la realtà delle sue implicazioni.

Inoltre, c’è una dimensione più sottile di stress morale che spesso non emerge nei sondaggi. I dipendenti di aziende come Facebook, nonostante rispondano favorevolmente alla domanda sulla moralità del loro lavoro, non sono immuni dalla consapevolezza delle problematiche legate al loro modello di business. La monetizzazione dei dati degli utenti attraverso la pubblicità mirata, infatti, è una delle principali fonti di conflitto etico per chi lavora in queste aziende. Facebook e YouTube, per esempio, sono costantemente impegnati a raccogliere enormi quantità di dati sugli utenti per ottimizzare la pubblicità. Il modello che favorisce l’engagement degli utenti – cercando di stimolare una connessione continua e profonda con la piattaforma – ha la tendenza a premiare contenuti che suscitano emozioni forti, tra cui controversie, disinformazione e contenuti estremisti. Questo tipo di "engagement tossico" va contro gli ideali di un internet sano e consapevole, ma allo stesso tempo rappresenta un business model che sembra rendere più redditizia la piattaforma.

Le lamentele di molti dipendenti, alcuni dei quali hanno chiesto l’abbandono di certe pratiche o addirittura la rimozione di Google come sponsor a eventi come il Pride di San Francisco, mostrano che anche chi è impiegato nelle aziende più avanzate tecnologicamente è consapevole della responsabilità morale del proprio lavoro. Le questioni legate alla privacy degli utenti, alla gestione dei dati e all’uso delle tecnologie per fini controversi sono diventate temi di dibattito anche all’interno delle stesse aziende.

In questo contesto, è essenziale che i lavoratori delle aziende tecnologiche riflettano sulle implicazioni morali del loro lavoro e sulle scelte che queste aziende fanno riguardo alla gestione dei dati, all’impatto sociale delle loro tecnologie, e ai principi etici che guidano il loro operato. La sfida non è solo fare il lavoro, ma comprendere che il lavoro ha ripercussioni morali che vanno ben oltre il prodotto finale o il profitto.

Un altro aspetto cruciale riguarda l'approccio delle aziende nei confronti delle scelte politiche e sociali. Molte di queste aziende sono ormai così grandi e potenti che le loro decisioni influenzano le dinamiche globali, inclusi i diritti umani e le libertà civili. Le scelte che compiono, come la collaborazione con governi autoritari o la creazione di tecnologie con applicazioni militari, hanno un impatto che si estende oltre le mura aziendali. La crescente preoccupazione tra i dipendenti per queste scelte dovrebbe portare a una riflessione più profonda su come le aziende tech possano allineare i loro obiettivi economici con valori morali condivisi.

In questo scenario, è fondamentale che i lavoratori abbiano la possibilità di esprimere il proprio dissenso, e che le aziende abbiano una struttura che permetta la discussione e il cambiamento. Senza una continua attenzione alle implicazioni etiche del lavoro, le aziende rischiano di perdere la loro credibilità e di minare la fiducia dei propri dipendenti.