Senofonte ci offre nei suoi scritti una visione acuta della politica e della natura umana, concentrandosi su figure che incarnano le ambizioni, i difetti e le contraddizioni dei futuri leader. In particolare, il ritratto di Glaucone, accostato a quello di Pericle, mette in luce la differenza tra il desiderio di potere e la capacità di esercitarlo con competenza e virtù. Glaucone è estremamente ambizioso ma privo di conoscenze adeguate, mosso da aspirazioni personali più che dal bene della città. Socrate interviene per moderarlo, non come un semplice correttore di follie giovanili, ma come guida che mostra la distanza tra ambizione cieca e comprensione reale di cosa significhi governare. Il giovane desidera la gloria e i benefici del comando, immaginando il potere come un mezzo per accrescere la propria ricchezza e fama, senza rendersi conto dell’ampiezza delle responsabilità che comporta.

Questo confronto con Pericle è significativo. Pericle non possiede una padronanza completa del governo, ma il suo desiderio di virtù e il suo impegno per il bene collettivo lo rendono nobile. Egli cerca di stimolare negli Ateniesi la passione per la virtù, la fama e la felicità, promuovendo l’armonia e la collaborazione tra i cittadini. La nobiltà, quindi, non risiede semplicemente nella competenza acquisita o nella conoscenza teorica, ma nell’intenzione e nella capacità di rivolgere la propria aspirazione al bene comune.

Glaucone, invece, rappresenta la mediocrità e il pericolo dell’ambizione senza guida. Non conosce le risorse della città, ignora come amministrarle e non è capace di valutare le proprie capacità rispetto a ciò che il ruolo richiede. Senofonte, attraverso Socrate, mette in evidenza che molti, forse la maggior parte, coltivano opinioni silenziose che possono compromettere la decenza e la legalità, illudendosi che il desiderio di comando equivalga alla capacità di governare. La sua esposizione suggerisce che la distinzione tra nobiltà e ignobiltà nel governo non sia mai netta, ma spesso labile, e dipenda tanto dall’intenzione quanto dalla competenza.

Importante è comprendere che la lezione di Senofonte non si limita alla critica dei singoli: invita a riflettere sulla natura del potere e sulle qualità necessarie per esercitarlo responsabilmente. La nobiltà nel governo richiede una consapevolezza della complessità della città, una comprensione delle risorse e dei vincoli, e un impegno costante a tradurre la propria ambizione in azioni virtuose. Senofonte ci avverte che senza questa combinazione, l’aspirazione al comando rischia di trasformarsi in pericolo, non solo per chi governa, ma per l’intera comunità. Inoltre, sottolinea la necessità di un controllo morale e intellettuale sui giovani ambiziosi, affinché il potere non diventi strumento di vanità o arricchimento personale.

Come la Demagogia Plasma le Repubbliche: Il Caso Trump alla Luce di Aristotele

La candidatura di Donald Trump nel 2016 rappresenta un esempio emblematico di demagogia moderna, una fenomenologia che Aristotele aveva già tentato di analizzare nei suoi scritti politici. Secondo il filosofo, la demagogia emerge quando un leader popolare sfrutta le tensioni tra le classi sociali per accumulare potere, presentandosi come il portavoce dei meno privilegiati contro un’élite consolidata. Trump ha adottato esattamente questa strategia: ha cercato di convincere gruppi sociali marginalizzati—disoccupati, lavoratori sottopagati, minoranze etniche—che soltanto lui fosse capace di comprendere e risolvere i loro problemi. In ciò si evidenzia l’ironia aristotelica: la retorica demagogica è potente proprio perché gioca sulla percezione di attenzione esclusiva verso il popolo, senza modificare realmente le strutture istituzionali a beneficio della collettività.

La distinzione aristotelica tra leader popolare virtuoso e demagogo è cruciale per comprendere le differenze tra Pericle e Trump. Pericle, pur essendo una figura di rilievo e ricca di influenza, usò il suo potere per rendere più accessibili le istituzioni democratiche agli strati sociali più poveri, ad esempio mediante la retribuzione per la partecipazione alle giurie. La sua demagogia, se così vogliamo chiamarla, era orientata a rafforzare la partecipazione popolare e il funzionamento della democrazia. Trump, al contrario, ha promesso risultati immediati—come un muro lungo il confine o accordi commerciali più vantaggiosi—catturando il consenso popolare senza proporre un reale adattamento delle istituzioni statali per garantire equità. Il suo approccio si configura come una visione personalistica della democrazia: il leader che agisce direttamente, ignorando o aggirando i processi legali e costituzionali.

Aristotele evidenzia che nei regimi democratici estremi la legge cessa di essere sovrana e ciò avviene quando decreti o promesse dei leader sostituiscono la regolarità del diritto. L’elezione di Trump e il suo discorso politico incarnano proprio questo rischio: la centralità del leader sopra le istituzioni, con la promessa che il cambiamento dipenda da un’unica persona piuttosto che da procedure condivise. Questo fenomeno rivela un aspetto fondamentale della democrazia contemporanea: la tensione tra aspirazioni popolari e stabilità istituzionale.

Comprendere la demagogia non significa demonizzare un singolo politico, ma riconoscere un modello ricorrente nella storia politica: l’uso del malcontento sociale come strumento di ascesa al potere. Per Aristotele, la prevenzione di questo rischio passa attraverso il rafforzamento della classe media e il consolidamento di istituzioni resilienti. La classe media funge da stabilizzatore perché, essendo numerosa e moderata, riduce l’attrattiva dei leader che promettono cambiamenti drastici senza solide basi costituzionali. È quindi essenziale comprendere che la demagogia prospera dove esistono disuguaglianze profonde, insicurezza economica e sfiducia verso le regole della politica.

In aggiunta, è importante notare come l’analisi aristotelica offra strumenti per interpretare non solo eventi politici passati, ma anche le dinamiche contemporanee dei media, della comunicazione diretta tra leader e cittadini, e della retorica della personalizzazione politica. La demagogia moderna non si limita ai discorsi pubblici, ma si manifesta attraverso strategie mediatiche che amplificano le emozioni e minimizzano l’attenzione alla complessità istituzionale. Comprendere questi meccanismi è fondamentale per chiunque voglia analizzare la salute di una repubblica e la resilienza dei suoi valori democratici.

Che cosa distingue il sovrano virtuoso dal piccolo uomo?

Confucio poneva il centro della propria riflessione politica non nella legge, ma nella virtù. Per lui, il buon governo nasceva dal carattere morale del sovrano, dalla sua capacità di riconoscere e promuovere ministri competenti e virtuosi, più che dalla promulgazione di norme e decreti. Le leggi, infatti, producono inevitabilmente l’astuzia: chi è privo di rettitudine interiore troverà sempre un modo di piegarle al proprio vantaggio, come l’uomo che manipola il codice fiscale o sfrutta le regole della bancarotta. La legge, per Confucio, è un sintomo di decadenza morale; la virtù, al contrario, è la sua cura.

La virtù del sovrano — il suo 德 () — non è semplice moralità, ma una forza carismatica, un magnetismo etico capace di trasformare i cuori di coloro che vi sono esposti. “Chi governa mediante la Virtù,” dice Confucio, “è come la Stella Polare: resta immobile, e tutte le altre stelle le rendono omaggio.” Questa immagine non descrive il potere coercitivo, ma quello imitativo: il sovrano virtuoso non impone, ma ispira. È ciò che René Girard avrebbe definito una mimesi buona: l’imitazione che eleva, invece di corrompere.

Il del sovrano agisce come il vento sull’erba: il vento del giusto fa piegare dolcemente la società verso la bontà, mentre quello del vizio la fa tremare e contorcersi. In questo senso, il comportamento del governante determina l’anima della comunità. Quando un principe indulge nel lusso e nell’avidità, inocula la stessa brama nei suoi sudditi; quando esibisce ira, disprezzo e vendetta, diffonde un contagio morale che degrada l’intero corpo politico. Così come il funzionario di cui parlava Confucio — che, desiderando oggetti di lusso, faceva dei ladri senza rendersene conto — anche il leader che governa per sé stesso crea una società di piccoli uomini (xiaoren), dominati dall’interesse e dalla rivalità.

Il vero junzi, il “gentiluomo”, si distingue dal piccolo uomo proprio per il movente che lo guida. “Il gentiluomo comprende ciò che è giusto; il piccolo uomo comprende ciò che è utile.” Il primo è mosso da un impulso interiore, dalla gioia dell’eccellenza morale, mentre il secondo cerca la ricompensa esterna — denaro, potere, fama. Nella prospettiva confuciana, il governante ideale serve lo Stato non per accrescere se stesso, ma per esercitare pienamente la propria virtù, come un musicista che suona per amore dell’armonia, non per il plauso.

Un tale sovrano non ha bisogno di leggi minuziose né di forze repressive: la sua sola presenza ordina e pacifica, poiché la virtù irradia una disciplina spontanea. Ma quando al potere giunge il piccolo uomo — l’uomo che confonde il bene con il profitto — allora la società intera si corrompe. Egli non può governare attraverso il , poiché non ne possiede l’essenza; deve quindi ricorrere alla paura, alla coercizione, alla divisione. Dove manca la virtù, subentra la forza. E la forza, per Confucio, è il segno estremo del fallimento politico e morale.

È questa la tragedia dei tempi in cui la politica si riduce a spettacolo e la leadership a commercio di emozioni. Gli uomini si piegano al vento del carisma volgare, scambiando la potenza dell’ego per la forza del . Ma il carisma autentico — quello che trasforma, non quello che seduce — è inseparabile dalla rettitudine. Solo il sovrano virtuoso può generare armonia senza imporla, perché governa, come la Stella Polare, dalla quiete del proprio centro morale.

Il lettore deve comprendere che Confucio non proponeva una semplice etica