Nel contesto del libero scambio, i governi devono affrontare un compito complesso: come garantire il vantaggio comparato e sostenere l’ingresso di nuovi produttori nel mercato internazionale. In assenza di commercio libero, i costi per sussidiare un nuovo entrante diventano estremamente elevati, poiché il sussidio deve essere sufficientemente grande da superare le barriere commerciali straniere e allo stesso tempo stimolare il produttore domestico. In questo scenario, gli accordi internazionali come quelli stabiliti dall’OMC e dagli Accordi di Libero Commercio (FTAs) giocano un ruolo cruciale, stabilendo regole precise su quali azioni un paese può intraprendere per creare vantaggi comparati. Un esempio di queste regolazioni è il codice sui sussidi, che limita il tipo di aiuti statali che i governi possono concedere alle imprese locali.
Gomory e Baumol, nel loro lavoro, sottolineano che i paesi possono creare un vantaggio comparato in settori con costi di produzione decrescenti, come nel caso di auto, aerei e semiconduttori. Tuttavia, tali vantaggi possono variare ampiamente a seconda delle politiche adottate da ciascun paese. L'esempio della produzione dell'acciaio giapponese, nonostante il paese abbia un alto costo del lavoro e risorse energetiche limitate, è significativo. In teoria, la Cina, con i suoi bassi costi del lavoro e abbondanza di carbone, sarebbe il produttore più efficiente, ma nella realtà è il Giappone a dominare il mercato. Sebbene questo esempio non sia più completamente valido, vista la crescente potenza industriale della Cina nel settore dell’acciaio, esso illustra come la creazione di vantaggi comparati non dipenda solo dalle risorse naturali ma anche dalle politiche industriali e tecnologiche.
Quando si analizzano le politiche governative, è essenziale comprendere che l'efficienza di un’industria creata in un determinato paese non è necessariamente la stessa di un’industria che sarebbe potuta nascere in un altro paese con caratteristiche differenti, come nel caso di un paese con minori costi di produzione o risorse energetiche più abbondanti. Tuttavia, ci sono settori dove le ipotesi classiche di vantaggio comparato rimangono valide. Un elemento chiave è determinare se l'industria è soggetta a costi costanti o crescenti, come accade per il grano, o a costi decrescenti, come nel caso delle automobili o dei semiconduttori.
Un aspetto che merita particolare attenzione riguarda il cosiddetto teorema dell’uguaglianza dei prezzi dei fattori, che postula che il commercio internazionale porterà ad un livellamento dei ritorni sui fattori di produzione, come il lavoro non qualificato, tra i paesi. Secondo questo principio, i paesi a elevato salario come gli Stati Uniti vedrebbero una riduzione dei salari per i lavoratori non qualificati, mentre quelli con abbondanza di manodopera vedrebbero un aumento dei salari. Tuttavia, questa previsione non si applica in modo semplice nei settori caratterizzati da costi di produzione decrescenti, dove le economie di scala e l’innovazione tecnologica possono mantenere separati i livelli salariali tra paesi.
Ricardo e gli altri economisti classici basavano le loro teorie sul commercio di beni, senza considerare l’integrazione dei fattori di produzione come lavoro, capitale e tecnologia, che oggi sono scambiati liberamente tra i paesi. Questo cambiamento implica che l’uguaglianza tra i fattori avvenga più rapidamente rispetto al commercio di beni tradizionali. In un mondo sempre più globalizzato, il commercio internazionale non avviene solo tra piccole imprese e agricoltori, ma tra colossi globali che acquistano componenti e materiali in tutto il mondo e li vendono a livello globale. Queste catene di approvvigionamento globali sono state possibili grazie alla liberalizzazione del commercio e ai cambiamenti tecnologici, ed esse sono alla base della rapida espansione del commercio internazionale dal 1970, ben oltre la crescita economica globale.
Gli Stati Uniti, ad esempio, traggono beneficio quando i loro partner commerciali riducono le barriere al commercio, poiché ciò aumenta le esportazioni, stimolando così la produzione e l'occupazione. Inoltre, la riduzione delle barriere al commercio interno favorisce i consumatori, che beneficiano di minori costi, e costringe i produttori a migliorare l'efficienza grazie alla concorrenza internazionale. Tuttavia, la liberalizzazione degli importi ha anche effetti significativi sul mercato del lavoro e sulla produzione domestica, che devono essere presi in considerazione nella formulazione delle politiche economiche.
Le politiche multilaterali di liberalizzazione, che prevedono la riduzione delle barriere commerciali da parte di tutti i paesi in modo parallelo, sono le più favorevoli per promuovere il commercio basato sul vantaggio comparato. Tuttavia, vi è sempre il rischio che i paesi abusi del sistema attraverso politiche "beggar-thy-neighbor", ovvero politiche che cercano di ottenere un vantaggio a spese degli altri, indebolendo il commercio globale.
L'importanza di comprendere questi meccanismi risiede nel fatto che le politiche commerciali non agiscono mai in modo isolato. Esse sono strettamente legate alla struttura delle industrie globali, ai flussi di capitale e al movimento dei fattori di produzione. Un commercio davvero libero non solo promuove l'efficienza e l'innovazione, ma porta con sé sfide per i lavoratori e le economie nazionali che devono adattarsi a nuove realtà competitive. Queste dinamiche devono essere comprese e gestite con attenzione per evitare che i vantaggi del commercio globale si traducano in disuguaglianze crescenti e inefficienze a livello locale.
Qual è l'impatto del protezionismo e dei dazi sulle economie globali e il commercio internazionale?
Dal 2009 al 2017, l'aumento dei dazi doganali e l'introduzione di misure protezionistiche hanno avuto un impatto significativo sul commercio internazionale. Nonostante i tentativi di liberalizzazione commerciale, la realtà di un crescente protezionismo resta una preoccupazione centrale. Il periodo di applicazione di queste misure è cruciale per determinare l'intensità del loro effetto distorsivo: più lunga è la durata, maggiore è l'impatto negativo sul commercio globale. Si stima che il valore complessivo delle importazioni influenzate da tali misure sia aumentato fino a 864 miliardi di dollari. Un dato preoccupante emerge dal fatto che il 42% delle misure protezionistiche sono rimaste in vigore per più di un anno, il 12% per più di due anni e il 9% per oltre tre anni. Nonostante una lieve diminuzione delle nuove barriere al commercio nel 2017, il rischio di un’escalation protezionistica rimane un pericolo tangibile.
La recente fallita rinnovazione da parte dei ministri delle finanze del G20, nel marzo 2017, del loro impegno storico verso il commercio libero e la lotta contro tutte le forme di protezionismo, ha sollevato ulteriori preoccupazioni. Se le pressioni anti-globalizzazione e il sentimento protezionista continuano a crescere, potremmo assistere a una spirale di politiche economiche dannose a livello globale, che rischiano di minare i progressi fatti nei decenni di liberalizzazione commerciale. Sebbene in alcuni casi le misure protezionistiche possano sembrare politicamente vantaggiose a breve termine, i loro effetti negativi a medio e lungo termine sono considerabili.
Immaginando scenari estremi, come l'uscita dei membri dell'OMC dagli attuali impegni tariffari o l'introduzione di dazi al massimo livello consentito dalla normativa internazionale, l’impatto potrebbe essere devastante. Le stime suggeriscono che un simile aumento del protezionismo potrebbe ridurre il benessere globale dello 0,3%, pari a circa 211 miliardi di dollari in meno, e determinare una diminuzione del commercio globale pari al 2,1% o oltre 606 miliardi di dollari entro il 2020. L’effetto sarebbe particolarmente negativo nelle regioni che beneficiano di tariffe preferenziali significative, come l’Asia orientale e il Pacifico, e l’America Latina e i Caraibi, che insieme rappresentano circa i tre quarti della perdita complessiva di benessere.
Queste problematiche emergono chiaramente anche in scenari meno drastici, come quello in cui i membri dell'OMC aumentano i dazi fino ai limiti massimi consentiti dalla legge. Questo potrebbe portare a perdite globali di benessere dello 0,8%, ovvero circa 634 miliardi di dollari, con una riduzione del consumo delle famiglie pari allo 0,9% (445 miliardi di dollari). Le distorsioni al flusso commerciale sarebbero particolarmente significative, con un calo del 9% o oltre 2,6 trilioni di dollari nei tre anni successivi.
Tuttavia, non si può ignorare il fatto che il commercio e l'integrazione globale abbiano sollevato milioni di persone dalla povertà e abbiano contribuito a ridurre le disuguaglianze globali. Tra il 1988 e il 2013, la quota del commercio mondiale sul PIL globale è cresciuta dal 30% al 50%, mentre il reddito medio è aumentato del 24%, con il numero di persone sotto la soglia di povertà che è sceso dal 35% al 10,7%. Nonostante questo quadro positivo, all’interno di alcuni Paesi, il commercio ha contribuito ad accrescere le disuguaglianze, ma questo è un problema che non trova soluzione nel ritorno al protezionismo, bensì nell’introduzione di reti di sicurezza più forti e programmi sociali e lavorativi più efficaci.
Studi recenti evidenziano i benefici diretti del commercio internazionale per i settori più poveri. Ad esempio, l'accordo di libero scambio tra gli Stati Uniti e il Vietnam del 2001 ha contribuito a ridurre la povertà in Vietnam, aumentando i premi salariali nei settori esportatori e stimolando la crescita dell'occupazione nell’industria manifatturiera. Inoltre, il commercio ha migliorato la parità di genere in molte economie in via di sviluppo: nel settore delle esportazioni del Vietnam e della Cambogia, ad esempio, un’alta percentuale dei lavoratori sono donne.
Anche la crescita delle esportazioni ha avuto un impatto positivo sulla distribuzione del reddito, riducendo la disparità salariale in alcuni Paesi, come il Brasile, dove gli effetti del commercio sono stati livellatori. In altri Paesi, come il Messico, il commercio ha avuto effetti disuguali, aumentando la disparità salariale, in particolare per le fasce più povere della popolazione. È importante considerare che i benefici e i costi delle politiche commerciali vanno analizzati caso per caso, tenendo conto delle specificità di ciascun Paese.
Infine, la crescente globalizzazione e l'espansione dei mercati globali hanno dimostrato che la protezione economica non è la risposta adeguata per affrontare le sfide della disuguaglianza. Il miglioramento delle politiche sociali e l'integrazione dei mercati rimangono le chiavi per la crescita economica sostenibile e l'inclusione sociale. L'abbandono degli accordi commerciali esistenti, come quello dell’America Latina, comporterebbe effetti devastanti sul benessere globale e porterebbe a una riduzione del benessere delle famiglie, in particolare nei Paesi in via di sviluppo che dipendono dal commercio internazionale.
Quali sono le conseguenze del protezionismo sulle economie locali e globali?
Il protezionismo, in un'epoca di crescente liberalizzazione commerciale, sta assumendo forme sempre più complesse e difficili da quantificare, ma i suoi effetti sono ormai evidenti. Negli ultimi decenni, molte nazioni industriali hanno adottato barriere non tariffarie (NTB) come risposta alla crescente pressione derivante dalla globalizzazione e dalla competizione internazionale. Sebbene le tariffe siano notevolmente diminuite, le NTB hanno preso piede come principale strumento di protezione commerciale, rendendo il panorama economico globale sempre più disomogeneo e complesso.
Dal 1947 al 1974, il commercio globale ha vissuto una liberalizzazione progressiva che ha portato a una crescita senza precedenti della prosperità mondiale. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni '70, una serie di crisi economiche — tra cui crisi valutarie, crisi del petrolio, recessione globale e alti tassi di disoccupazione — ha cambiato l'ambiente economico. In questo contesto, le richieste di protezione da parte dei settori industriali dei paesi sviluppati sono aumentate drasticamente, con una particolare attenzione ai settori tessile, calzaturiero, automobilistico ed elettronico di consumo.
Le barriere non tariffarie, come le quote bilaterali e le restrizioni volontarie all'esportazione, sono spesso più dannose delle tariffe dirette. Non solo queste barriere al commercio sollevano i prezzi per i consumatori, ma mantenendo in vita industrie inefficienti, contribuiscono a una allocazione inefficiente delle risorse, riducendo la concorrenza e facendo lievitare i costi sia per i paesi che le impongono che per l'economia globale. Inoltre, queste misure non trattano i Paesi esportatori in modo equo, penalizzando spesso quelli con minore potere negoziale e riducendo le opportunità di crescita per i Paesi in via di sviluppo.
Il caso delle esportazioni di tessuti e abbigliamento fornisce un esempio lampante di come le NTB possano danneggiare le economie emergenti. Per molti paesi in via di sviluppo, il settore tessile è stato visto come una via di sviluppo accessibile, grazie alla sua natura relativamente semplice e intensiva in lavoro. Tuttavia, con l'introduzione di restrizioni sempre più severe, come quelle previste dal Multifibre Arrangement (MFA), l'accesso ai mercati globali è diventato sempre più difficile. Tali misure non solo ostacolano la crescita economica dei Paesi meno sviluppati, ma spesso hanno effetti deleteri anche sugli stessi Paesi industrializzati, che vedono ridurre la competitività dei loro prodotti in un mercato globale sempre più protetto.
Nonostante la proliferazione delle misure protezionistiche, alcune economie, come quella della Corea del Sud e di Hong Kong, sono riuscite in parte a superare questi ostacoli, continuando ad espandere le loro esportazioni di manufatti. Tuttavia, l'aumento delle restrizioni in tutto il mondo ha reso sempre più difficile per i nuovi esportatori accedere ai mercati tradizionali, con ripercussioni significative anche per le economie più forti.
Nel lungo periodo, le politiche protezionistiche non fanno che creare un circolo vizioso, dove le misure adottate per proteggere l'occupazione e le industrie nazionali finiscono per danneggiare i consumatori e ostacolare l'innovazione. I paesi che ricorrono alle NTB si trovano spesso a dover pagare un prezzo elevato, sia in termini economici che di reputazione, poiché queste misure contravvengono ai principi di nondiscriminazione e trasparenza che regolano il commercio internazionale. La mancanza di parità nel trattamento degli esportatori e il ricorso a misure amministrative non trasparenti, come nel caso delle videocassette in Francia, peggiorano ulteriormente la situazione.
La situazione attuale, con l'adozione di nuove restrizioni che penalizzano in particolare i Paesi in via di sviluppo, richiede una riflessione più profonda sul futuro del commercio globale. Sebbene i Paesi industrializzati continuino ad avere il predominio sui mercati globali, è essenziale che il sistema commerciale internazionale si evolva in modo da garantire pari opportunità a tutte le nazioni, rispettando i principi di equità e giustizia.
È fondamentale riconoscere che il protezionismo non solo crea inefficienze e distorsioni nel mercato, ma rischia anche di danneggiare irreparabilmente i settori che dovrebbero essere protetti. La competitività globale, oggi come in futuro, dipende dalla capacità di integrare le economie in un sistema commerciale aperto e equo, dove la concorrenza sana e la cooperazione tra le nazioni siano il fondamento del progresso economico mondiale.
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