Nel corso degli ultimi decenni, la questione del cambiamento climatico ha acquisito una crescente rilevanza nel dibattito pubblico globale. Le isole della Baia di Chesapeake, e in particolare Tangier Island, si sono ritrovate al centro di un paradosso geograficamente e politicamente intricato. Da un lato, queste isole rappresentano un microcosmo di tradizioni storiche, legate alla pesca e alla vita marittima, dall'altro sono la cartina tornasole di una crisi ambientale imminente, in cui l'innalzamento del livello del mare minaccia di inghiottirle. La storia di Tangier Island, tuttavia, è divenuta una lente attraverso cui osservare non solo la crescente minaccia climatica, ma anche come la politica degli Stati Uniti e la retorica dei suoi leader abbiano influenzato la narrazione e la percezione di queste crisi locali.

Nel maggio del 2016, mentre gli Stati Uniti si preparavano alle elezioni presidenziali, il mio partner di ricerca Eli Keene ed io ci recammo a Tangier Island per un progetto intitolato "America’s Eroding Edges". Lo scopo era di documentare le sfide di adattamento delle comunità costiere americane agli impatti del cambiamento climatico. Durante il nostro soggiorno, Tangier Island appariva come un luogo sospeso tra passato e futuro: la comunità insulare, dai forti legami familiari e culturali, affrontava la pericolosa realtà dell'erosione del suo territorio. La visibilità di Donald Trump sull'isola era, tuttavia, inequivocabile: adesivi con il suo slogan "Make America Great Again" adornavano ogni golf cart, e una bandiera di Trump sventolava alta sulla piccola isola.

Nel nostro incontro con i residenti, la discussione politica era inevitabile. Molti esprimevano il loro sostegno a Trump, facendo anche battute sul suo famoso muro e sul modo in cui avrebbe protetto l'America. Ma ciò che ci sorprese fu la visione del cambiamento climatico che prevaleva tra i residenti. L’isola, che aveva già visto il suo territorio eroso dal mare per decenni, negava, tuttavia, il ruolo dell'uomo in questo processo. I residenti di Tangier, con la loro fede incrollabile nei valori conservatori, non percepivano il cambiamento climatico come una minaccia causata dall'attività umana, ma piuttosto come un fenomeno naturale. Questo scetticismo si scontrava con la realtà di un’isola che, con il suo isolamento geografico, veniva lentamente inghiottita dalle acque del Chesapeake Bay.

Dopo l'elezione di Trump, la visibilità di Tangier Island nelle narrazioni mediatiche è cambiata radicalmente. Da un simbolo di un passato americano che si estingueva, è diventata un emblema della polarizzazione politica sul cambiamento climatico. I media, una volta focalizzati sulle sfide ambientali dell'isola, hanno iniziato a enfatizzare la contraddizione tra la sua comunità conservatrice e il rifiuto delle evidenze scientifiche riguardo al riscaldamento globale. La decisione di Trump di ritirare gli Stati Uniti dall'Accordo di Parigi nel 2017 ha amplificato questa divisione, spingendo le narrazioni mediali a un confronto sempre più marcato tra scienza e politica, tra la negazione del cambiamento climatico e la crescente evidenza dei suoi effetti.

Questa trasformazione nella narrazione mediatica ha avuto un impatto profondo sulla percezione di Tangier Island e, più in generale, sulle isole vulnerabili degli Stati Uniti. Durante l'amministrazione Obama, la narrazione dominante era quella di una comunità innocente, minacciata dalle forze incontrollabili della natura. Tuttavia, con l'avvento di Trump, la narrazione ha subito un'inversione: Tangier è diventata il simbolo di una lotta ideologica contro il "mainstream" scientifico e la visione progressista del cambiamento climatico. La visibilità mediatica dell'isola è stata dunque plasmata dalla polarizzazione politica, che ha ridefinito il modo in cui i media trattano le questioni ambientali, non solo in termini di urgenza, ma anche di legittimità.

Le implicazioni di questa evoluzione vanno oltre la semplice analisi delle politiche climatiche. Tangier Island diventa il riflesso di una più ampia divisione politica negli Stati Uniti, una nazione che si trova a dover fare i conti con l'erosione del suo territorio, ma che è profondamente divisa su come rispondere a questa minaccia. Se da un lato esistono comunità come quella di Tangier che negano l’esistenza di un cambiamento climatico antropogenico, dall'altro emergono storie di resilienza e adattamento, con popolazioni che si stanno preparando per l'inevitabile.

Le politiche ambientali statunitensi, quindi, non riguardano solo il futuro delle comunità costiere, ma anche il modo in cui i cittadini si relazionano con la scienza e l’evidenza. Il caso di Tangier Island ci insegna che la lotta contro il cambiamento climatico non è solo una questione di politiche governative, ma anche di come la cultura politica e la narrativa mediatica plasmino la percezione della crisi ambientale. La visibilità di luoghi come Tangier Island non è solo una questione geografica, ma è intimamente legata al conflitto ideologico che attraversa la società americana.

Qual è la vera geografia della menzogna e della politica estera di Trump?

La presidenza di Donald Trump si distingue per numerosi aspetti, sia in ambito domestico che internazionale. Il suo approccio alla politica estera ha segnato una rottura con le amministrazioni precedenti, abbandonando formula consolidate e norme istituzionali. Trump, sia come candidato che come presidente, ha denigrato e poi abbandonato gli impegni storici degli Stati Uniti, favorendo un principio di sovranità che si allinea al suo slogan di campagna: "Rendere di nuovo grande l'America" con il mantra "mettere l'America al primo posto" (Trump, 2017).

Nel suo impegno a fomentare un populismo che non si limita alla politica sull'immigrazione, ma che include l'ostilità verso gli immigrati musulmani e latini, Trump ha creato una visione che lega le politiche interne e internazionali, materializzandosi nell'idea di un muro che separa gli Stati Uniti da un mondo che, un tempo, si presumeva di guidare. Sotto la sua guida, la politica estera americana ha preso una piega isolazionista, caratterizzata dal ritiro dagli accordi multilaterali che gli Stati Uniti stessi avevano contribuito a costruire, dal suo affetto per i dittatori, dall'accoglienza riservata agli avversari, e da una serie di dichiarazioni dispregiative nei confronti dei Paesi poveri, tra cui i famigerati commenti su Haiti, El Salvador e le nazioni africane, definiti "paesi di merda" (Dawsey, 2018).

In tale contesto, la geopolitica della presidenza Trump ha suscitato feroci critiche da vari settori della comunità internazionale e delle politiche estere, sia negli Stati Uniti che a livello globale. La sua visione del mondo è stata ampiamente descritta come una geopolitica dell'eccezione, un approccio che non solo ha alterato le tradizionali dinamiche diplomatiche, ma ha anche messo in discussione i principi fondamentali di cooperazione internazionale. La retorica di Trump ha gettato una luce inquietante sulla condizione delle alleanze storiche e sulla fiducia tra le nazioni, favorendo una visione di un mondo diviso, anziché unito dalla ricerca di soluzioni comuni.

Questa politica estera si è poi riflessa nel suo comportamento verso alleati e nemici. I tradizionali alleati degli Stati Uniti sono stati messi in discussione, mentre le relazioni con regimi autoritari, come quelli di Vladimir Putin in Russia e Kim Jong-un in Corea del Nord, sono state ampiamente esaltate. Trump ha dimostrato un'inquietante affinità per i leader che condividono una visione autocratica del potere, e la sua gestione delle relazioni internazionali ha esacerbato le divisioni globali. I suoi attacchi verbali ai media, il disprezzo per la verità e la propensione a diffondere notizie false hanno contribuito a una cultura di sfiducia, che ha avuto ripercussioni non solo sulle istituzioni politiche americane, ma sull'intero scenario geopolitico.

Le politiche di Trump, quindi, non sono semplicemente il riflesso di una presidenza isolazionista, ma rappresentano un cambiamento significativo nella percezione della geopolitica, che si allontana dalla ricerca della cooperazione internazionale verso un mondo dove la sovranità nazionale e il primato degli Stati Uniti sono visti come gli obiettivi primari. L'amministrazione Trump ha, quindi, rivelato una nuova era di incertezze e conflitti, dove la verità è manipolata, le alleanze sono ridisegnate e l'interesse nazionale è posto al di sopra di ogni altro valore.

La sfida, in questo contesto, è comprendere che, al di là delle sue dichiarazioni e azioni, la politica estera di Trump ha dato forma a un nuovo paradigma geopolitico. L'isolamento e l'intolleranza nei confronti degli altri Paesi sono diventati i tratti distintivi del suo mandato, e ciò ha avuto ripercussioni su scala globale, alterando la percezione degli Stati Uniti come leader del mondo libero e democratico. La continua distorsione della verità, combinata con una visione di sovranità aggressiva, ha creato un vuoto di fiducia che potrebbe avere conseguenze durature, non solo per l'America, ma per l'intero sistema internazionale.