Nel cuore della narrativa dominante nella società capitalista contemporanea, troviamo la "Storia della Sicurezza". Si tratta di una storia vecchia come il mondo, che giustifica l'esistenza di gerarchie sociali e disuguaglianze profonde, adattata però alle necessità e alle realtà economiche e morali del capitalismo globale del XXI secolo. Questo racconto, che affonda le radici nelle epoche antiche e medievali, è stato continuamente rielaborato nei secoli, trovando nuova linfa in ogni fase storica di disuguaglianza, diventando ancora più centrale con l'avvento del capitalismo globale.

La Storia della Sicurezza si distingue per il suo enorme potere emotivo, capace di toccare corde profonde nell'inconscio umano. Essa si fonda sulla paura e sul bisogno di sopravvivenza, rispondendo a quella sensazione di vulnerabilità che ogni individuo può avvertire di fronte all'incertezza del mondo che lo circonda. Essa legittima l'autorità di coloro che detengono il potere, coloro che occupano la parte superiore della piramide sociale, promettendo "sicurezza" ai meno privilegiati in cambio della loro fedeltà. Un esempio concreto di questa dinamica è dato dalla retorica che incita alla paura nei confronti degli immigrati e degli altri gruppi considerati "nemici" della stabilità sociale.

Il "nemico" è spesso rappresentato come una minaccia per la sicurezza individuale e collettiva. Così facendo, le élite al potere si presentano come gli unici in grado di proteggere la società dal caos. La narrazione di una minaccia esterna o interna, un "nemico" da abbattere, è cruciale per cementare l'unità tra le diverse classi sociali, in quanto la paura di un pericolo comune unisce anche i gruppi più diversi, dal ceto medio ai lavoratori della classe operaia. È questa "storia della protezione" che giustifica, spesso in modo ambiguo e pericoloso, l'uso della forza e la limitazione di diritti fondamentali in nome della sicurezza.

Nella storia della propaganda, l’esempio più celebre di tale narrazione è quello descritto da George Orwell nel suo romanzo distopico 1984. In questo scenario, il "Grande Fratello" utilizza la paura di due nemici immaginari – Eurasia ed Estasia – per mantenere il controllo sociale. La paura, amplificata dalla propaganda, diventa un legame che unisce tutti sotto il potere del regime, il quale diventa percepito come l'unico in grado di proteggere la popolazione da questi "nemici". Il "nemico" diventa così una costruzione strategica per legittimare il potere.

Il principio della "protezione" attraverso la paura non è limitato ai regimi totalitari, ma è una costante anche nei sistemi capitalistici. La paura viene alimentata dai media, dalle politiche governative e dai leader politici, che la utilizzano per giustificare il controllo sociale e la difesa degli interessi delle élite. Il terrore verso l'altro, spesso ingigantito o perfino creato ad hoc, viene trasformato in un motore di unità sociale, dove la classe superiore si presenta come il baluardo contro il pericolo che minaccia la stabilità del "popolo".

Nella politica statunitense, ad esempio, la paura del comunismo durante la Guerra Fredda ha svolto una funzione simile a quella che oggi ha la paura del terrorismo o dell'immigrazione incontrollata. Noam Chomsky ha sottolineato come, senza il "nemico sovietico", gli Stati Uniti avrebbero dovuto inventarlo per mantenere il consenso popolare. La retorica anti-comunista, così come quella anti-terrorista successiva, è stata una strategia per legittimare le politiche imperialiste e il controllo sociale, minando qualsiasi forma di dissenso.

Questa "storia della sicurezza" è essenziale anche per comprendere come la disuguaglianza sociale si perpetua in una società capitalista. Mentre la narrazione meritoristica promuove l'idea che il successo dipenda dal duro lavoro e dall'intelligenza, la Storia della Sicurezza offre una giustificazione alternativa, basata sulla protezione dalle minacce e sul rafforzamento della gerarchia sociale. La classe dominante continua a vendere l'illusione di un mondo sicuro, in cui la protezione dai "nemici" esterni ed interni giustifica l'esistenza di disuguaglianze e di un ordine sociale stratificato.

Non si tratta solo di una strategia di persuasione per ottenere il consenso della massa, ma anche di un modo per distrarre le classi inferiori dalle loro vere difficoltà economiche e sociali. La paura del "nemico" diventa il mezzo per tenere sotto controllo il disagio e la frustrazione crescente di chi si sente escluso dal sogno americano. Con l'incertezza economica che colpisce molti lavoratori, tra cui quelli della classe operaia bianca negli Stati Uniti, la Storia della Sicurezza trova terreno fertile per prosperare, mentre il sogno di un futuro migliore si sgretola davanti agli occhi di molti.

L’uso della paura come strumento di controllo sociale è un fenomeno che non riguarda solo la politica internazionale, ma ha profonde implicazioni anche per la politica interna e per la psicologia collettiva di una nazione. La narrazione della sicurezza, infatti, diventa un elemento fondamentale per il consolidamento del potere e per la giustificazione delle disuguaglianze economiche e sociali. La paura, come emerso dalla storia dei totalitarismi e della Guerra Fredda, è lo strumento ideale per mantenere una certa coesione tra le classi sociali, mentre il sistema economico capitalista continua a prosperare sfruttando le disuguaglianze e le fratture esistenti nella società.

Come si costruisce una società in cui tutti sono nemici?

Il mito della sicurezza negli Stati Uniti si fonda su una narrazione potente: quella del nemico onnipresente. In un contesto in cui il capitalismo americano si fonde con un militarismo aggressivo, l'individuo viene educato a percepire costantemente minacce, tanto all’estero quanto nel proprio quartiere. Ogni cittadino è un potenziale eroe nella guerra domestica, incaricato moralmente di difendere la propria famiglia con le armi. È così che il racconto della sicurezza si trasforma in una giustificazione esistenziale per un’America armata, dentro e fuori dai suoi confini.

Questo racconto prospera su due elementi centrali del capitalismo americano: l’individualismo radicale e l’atomizzazione sociale. A differenza del modello europeo, dove forme di solidarietà collettiva e protezione sociale mantengono un certo equilibrio, negli Stati Uniti domina la logica del “nuota o affoga da solo”. Il valore morale supremo è il perseguimento dell’interesse personale, teorizzato come virtù da Ayn Rand, che celebra l’egoismo come fondamento dell’etica. In questa prospettiva, preoccuparsi degli altri equivale a commettere un'ingiustizia verso se stessi.

L’American Dream si fonda su questo principio: la possibilità per ognuno di organizzare la propria vita come un atto di puro egoismo morale. Ma ciò che a prima vista può sembrare libertà personale si rivela un dispositivo ideologico efficace per impedire qualsiasi forma di solidarietà tra chi sta “in basso”. La competizione generalizzata, giustificata come libertà individuale, distrugge la fiducia reciproca. Se ogni individuo vede nell’altro un ostacolo alla propria ascesa, la coesione sociale diventa impossibile.

Il risultato è una società profondamente atomizzata, in cui ogni individuo è spinto a diffidare degli altri e a vedere in ogni vicino un potenziale nemico. In questa guerra di tutti contro tutti, la possibilità di ribellione collettiva contro le élite si dissolve. Le classi dominanti non devono temere la solidarietà di chi sta sotto, perché la frammentazione sociale garantisce che nessuna alleanza significativa possa minacciare lo status quo.

Il sociologo Émile Durkheim già descriveva questa frammentazione come una condizione di suicidio sociale: isolamento, depressione e perdita di senso. Ma nella versione americana, questa stessa condizione è mascherata come libertà. Il cittadino isolato, depresso, armato, ma “libero”, diventa il soggetto ideale del capitalismo autoritario. Vive nella solitudine, nella paura, nella sfiducia, e trova conforto solo nell’autorità forte capace di “garantire l’ordine”.

Ed è proprio qui che si apre la porta all’autoritarismo. Più il piano inferiore della società vive nel caos e nel sospetto reciproco, più diventa disposto a cedere potere a chi promette protezione. La paura genera obbedienza. Una guerra permanente tra “i giù” è il miglior modo per evitare una guerra tra “giù” e “su”. Il fascino della figura autoritaria nasce non dal desiderio di oppressione, ma dal bisogno disperato di ordine. Questo è il cuore del neo-fascismo contemporaneo: una forma di dominio che si legittima non con la forza bruta, ma con la promessa di sicurezza in un mondo vissuto come giungla.

La stampa libera è il primo bersaglio di questa nuova autorità. Quando nel 2018 il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti sequestrò di nascosto le comunicazioni personali della giornalista Ali Watkins del New York Times, molti americani compresero che qualcosa era cambiato. Non si trattava più solo di attacchi verbali contro i media, ma di azioni concrete e sistemiche per intimidire e controllare l'informazione. La demonizzazione della stampa – definita “fake news”, “nemico del popolo” – si era trasformata in politica istituzionale. E ogni gesto di intimidazione mediatica diventa un tassello in più nella costruzione di uno Stato autoritario, dove la verità è monopolio del potere.

Il capitalismo autoritario americano, così come delineato in questa traiettoria, non nasce per caso. È il risultato di un progetto ideologico preciso: disgregare la società, trasformare la libertà in solitudine armata, e offrire come unica salvezza l’obbedienza cieca all’ordine superiore. Questo processo non è lineare, ma si manifesta in momenti critici, quando la paura supera la speranza, e il cittadino isolato preferisce la sottomissione all’incertezza della libertà condivisa.

Va compreso che ogni meccanismo di disgregazione sociale – dall’ideologia dell’egoismo morale, alla militarizzazione della vita civile, alla delegittimazione della stampa – non sono effetti collaterali, ma strumenti fondamentali per impedire la nascita di qualsiasi solidarietà capace di sfidare il potere. La paura dell’altro, l’indifferenza verso l’altro, e infine l’odio per l’altro sono le tre tappe del percorso verso una società dove l’autorità diventa l’unico legame rimasto.

È possibile costruire una nazione su una bugia emotiva?

Nel cuore della narrazione fascista hitleriana si cela una trasformazione radicale della coscienza collettiva: un mutamento che pretende di sostituire il pensiero critico con la fede cieca, la razionalità con l’istinto tribale, la diversità con la purezza etnica. Hitler non propone semplicemente un nuovo ordine politico, bensì una reinvenzione totale della realtà, in cui ogni valore condiviso viene sistematicamente rovesciato. La nazione non è più un insieme di cittadini legati da un patto civile, ma un’entità sacra definita dal sangue. Il popolo non è più libero di scegliere, ma chiamato ad obbedire a un destino divino incarnato in un leader assoluto.

Nel suo disprezzo per il socialismo e la democrazia, Hitler costruisce una visione del mondo in cui tutto ciò che non è ariano è pericoloso, corruttore, impuro. Il socialismo è visto non come una risposta politica ai bisogni delle masse, ma come una cospirazione ebraica travestita da ideologia liberatoria. La religione viene derisa come oppio dei popoli, ma al contempo Hitler rivendica una missione assegnata al suo popolo dal Creatore, un disegno superiore che legittima ogni brutalità. La morale, invece, è liquidata come segno di debolezza: la vera virtù è l’obbedienza cieca alla forza.

L’economia fascista, lungi dall’essere una negazione del capitalismo, diventa il suo strumento riplasmato. Le imprese private non vengono soppresse, ma subordinate all’obiettivo razziale e nazionale. Il capitalismo sopravvive, ma non in quanto promotore della libertà economica, bensì come ingranaggio della macchina bellica e ideologica. Hitler non propone una rivoluzione dei rapporti economici, ma una riconfigurazione dei poteri in cui l’élite economica si piega alla volontà del Führer, e in cambio ottiene stabilità e prosperità entro i confini del “nuovo ordine ariano”.

Fondamentale in questa costruzione è l’idea di “sicurezza”: non una sicurezza sociale o materiale, bensì esistenziale, identitaria. Il nemico diventa l’altro—ebreo, socialista, cosmopolita—che abita le città decadenti, simbolo della contaminazione e della decadenza. La sicurezza non è più difesa dai diritti, ma imposta dalla purezza. L’obiettivo non è la convivenza, ma l’eliminazione. Da qui nasce la figura del leader assoluto: non un rappresentante, ma un incarnazione della nazione stessa. Il Führer è l’unico in grado di percepire la verità profonda, non accessibile al popolo se non attraverso la devozione. La democrazia è dunque rigettata come innaturale, come invenzione ebraica volta a distruggere la leadership ariana e a frammentare l’unità organica della nazione.

Questa visione si fonda su una concezione profondamente sessuata delle masse: Hitler le paragona a una donna che desidera essere dominata da un uomo forte, piuttosto che avere libertà di scelta. In questo paradigma, la forza non è solo necessaria, è desiderata. Le masse, insicure e ansiose, bramano un’autorità che imponga ordine, anche a costo della verità. La menzogna, se utile al fine superiore, diventa verità. In questa logica perversa, il fatto cede il passo alla fede, e la fede si trasforma in dogma politico. Non importa se la realtà contraddice il discorso del leader: ciò che conta è la percezione collettiva, plasmata dalla ripetizione, dalla paura e dalla promessa di redenzione.

Il processo verso il fascismo non è improvviso, ma scandito da fasi precise: la demonizzazione del nemico interno, la glorificazione del leader, la fusione tra Stato e razza, l’abolizione della dialettica politica. Ogni passo è giustificato in nome della sopravvivenza del popolo, della sicurezza della razza, della grandezza della patria. La guerra non è evitata, ma desiderata. La pace è solo una maschera retorica dietro cui si cela l’intenzione esplicita di distruzione.

Importante comprendere che questa costruzione non nasce nel vuoto: essa sfrutta un terreno fertile di ansie sociali, di umiliazioni storiche, di crisi economiche. Il fascismo hitleriano si nutre del senso di perdita e lo trasforma in odio. Non è un’ideologia coerente, ma una narrativa emotiva totalizzante. È questa la sua forza e il suo pericolo: la capacità di riscrivere la realtà attraverso l’emozione collettiva.

La lezione più inquietante è che, una volta che la fede politica diventa religiosa, la verità diventa irrilevante. E quando la verità non conta più, non c’è spazio per la libertà individuale. L’adesione al leader, anche davanti all’evidenza della sconfitta, persiste. La fede, trasformata in idolatria politica, diventa l’ultima trincea del totalitarismo.

La crisi della sinistra americana: dove sta andando il progresso?

Nel panorama politico degli Stati Uniti, le opinioni pubbliche si sono orientate sempre più verso posizioni progressiste su temi cruciali come l'economia, i diritti dei lavoratori, l'istruzione, la sanità e il cambiamento climatico. Tuttavia, nonostante questo crescente consenso popolare su molte delle problematiche sociali ed economiche, la sinistra americana si trova a fronteggiare una crisi di identità e di organizzazione che ne mina l'efficacia e la capacità di influenzare concretamente il sistema politico ed economico. Le statistiche parlano chiaro: una larga fetta della popolazione, circa il 76%, ritiene che le persone più ricche degli Stati Uniti dovrebbero pagare tasse più alte. L'idea di un salario minimo federale di 12 o 15 dollari all'ora è sostenuta da una maggioranza, così come la necessità di estendere Medicare per garantire una copertura sanitaria universale.

Il sostegno alle unioni sindacali è forte, e la maggioranza degli americani ritiene che i lavoratori debbano poter usufruire di congedi parentali e medici retribuiti. La stessa attenzione per la sanità è visibile anche nella convinzione che sia responsabilità del governo federale assicurare una copertura sanitaria universale. Eppure, nonostante queste evidenti inclinazioni verso politiche sociali e giuste, la sinistra americana ha faticato a capitalizzare questi sentimenti popolari in un movimento coeso e potente, capace di contrastare l'egemonia della destra, che continua a dominare l'agenda politica.

Il motivo principale di questa difficoltà è legato a un problema profondo: la sinistra, che un tempo era focalizzata sulla critica al capitalismo e sulla lotta di classe, oggi sembra aver perso la sua capacità di affrontare il sistema economico come causa delle disuguaglianze sociali. La tradizione della sinistra, che ha messo in discussione il sistema capitalista come fonte delle ingiustizie, è stata progressivamente sostituita da movimenti focalizzati su questioni identitarie, come la razza, il genere e l'orientamento sessuale, che pur importanti, non affrontano il cuore del problema economico e sociale.

Fino agli anni '80, la sinistra americana era ben radicata in una critica al capitalismo e ai suoi effetti sulla classe lavoratrice, sul militarismo e sul razzismo. Con l'emergere del New Deal e dei movimenti degli anni '60, la sinistra non solo ha combattuto per i diritti civili, ma ha anche messo in discussione il sistema economico, collegando il razzismo e il militarismo all'ineguaglianza economica. La lotta per la giustizia sociale, la parità di diritti e l'accesso alle risorse essenziali era intrinsecamente legata alla necessità di superare il capitalismo stesso.

Con la fine della Guerra Fredda e l'affermazione della globalizzazione neoliberista, la sinistra ha perso la sua visione critica nei confronti del sistema economico dominante. Movimenti come #MeToo, Black Lives Matter, e altre lotte per i diritti civili sono stati importanti, ma troppo spesso si sono concentrati su cambiamenti superficiali e non strutturali, come la rappresentanza di minoranze nei vertici delle aziende o nel governo, senza interrogarsi mai davvero su come cambiare il sistema che perpetua le disuguaglianze.

Questa trasformazione della sinistra ha portato ad una crescente frustrazione tra le classi lavoratrici, che pur essendo la base naturale di qualsiasi movimento progressista, sono sempre più disilluse dalle politiche che non affrontano le cause strutturali delle loro difficoltà economiche. La stessa questione della disuguaglianza economica, pur essendo ancora al centro di molte discussioni, viene ora vista solo come una questione di equità nella distribuzione delle risorse, piuttosto che come il risultato di un sistema che premia il capitale a scapito del lavoro.

Ciò che manca oggi, in molte delle proposte avanzate dalla sinistra, è una visione coerente di come trasformare radicalmente la società. Senza una chiara proposta per modificare il sistema economico globale e locale, il rischio è che la sinistra diventi un movimento che si limita a combattere gli effetti delle ingiustizie, piuttosto che le cause stesse. È fondamentale che il movimento progressista torni a fare una critica radicale al capitalismo e alle sue disfunzioni, non solo concentrandosi su questioni identitarie, ma anche proponendo soluzioni strutturali come la nazionalizzazione di settori strategici, il rafforzamento dei diritti del lavoro, e una redistribuzione delle risorse che non si limiti a migliorare le condizioni di vita dei più poveri, ma che riveda l'intero sistema di produzione e distribuzione della ricchezza.

È essenziale che la sinistra si riappropri di una visione coerente di trasformazione sociale, che non rinunci alla lotta contro le disuguaglianze economiche, ma che includa anche la necessità di un nuovo modello di sviluppo che metta al centro le persone, non i profitti. Solo così potrà riaffermare il suo ruolo nel guidare il cambiamento sociale e politico, senza cadere nella trappola di una lotta per diritti individuali che non modifica le strutture di potere e di sfruttamento.