L'accordo nucleare con l'Iran del 2015 è stato uno dei traguardi più significativi della cooperazione transatlantica nel nuovo millennio. Tuttavia, l'elezione di Donald Trump ha segnato un fallimento nella realizzazione di una missione iniziata da Barack Obama per ristabilire buone relazioni con l'Iran. Trump ha scelto di ritirarsi dall'accordo, facendo tornare la visione degli Stati Uniti sull'Iran come una minaccia alla sicurezza nazionale. Questa sezione esamina le ragioni e le motivazioni dietro il rifiuto di Trump dell'accordo nucleare con l'Iran.

Per comprendere appieno la portata dei legami tra gli Stati Uniti e l'Iran, è fondamentale fare un passo indietro e analizzare gli eventi che hanno caratterizzato le loro relazioni. Nel 1953, le agenzie di intelligence statunitensi e britanniche hanno organizzato un colpo di stato che ha portato alla rimozione del primo ministro Mohammed Mossadeq, a favore del shah Mohammad Reza Pahlavi, un alleato degli Stati Uniti nel contesto della Guerra Fredda. Quattro anni dopo, è stato firmato un accordo di cooperazione nucleare civile con il governo dello Shah, segnando l'inizio del programma nucleare iraniano. Tuttavia, nel 1979, una rivoluzione guidata da nazionalisti, sinistrorsi e islamisti ha rovesciato il regime dello Shah, distruggendo il programma nucleare sostenuto dagli Stati Uniti. Le relazioni diplomatiche tra i due paesi furono interrotte nel 1980.

Il nuovo millennio ha visto aumentare le domande sull'eventuale sviluppo da parte dell'Iran di un programma nucleare militare, dando luogo a sanzioni economiche gravose per il governo iraniano. Tuttavia, un cambiamento significativo si è verificato con l'elezione di Hassan Rouhani, che ha mostrato apertura a negoziati per accelerare la ripresa economica dell'Iran. Questo ha portato all'accordo del 2015 con gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, la Cina, la Russia e la Germania, in cui l'Iran si impegnava a limitare le sue attività nucleari in cambio dell'alleggerimento delle sanzioni economiche.

L'accordo nucleare con l'Iran, formalmente denominato Piano d'Azione Comprensivo congiunto (JCPoA), stabiliva che l'Iran avrebbe limitato le sue attività nucleari, permettendo agli ispettori internazionali di monitorare la situazione, per garantire che il paese non sviluppasse armi nucleari per almeno 15 anni. In cambio, l'Iran avrebbe ottenuto il sollevamento delle sanzioni economiche.

L'elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti e il suo atteggiamento ostile nei confronti dell'accordo nucleare con l'Iran hanno portato a una serie di conflitti nelle relazioni transatlantiche. Trump ha spesso descritto l'accordo come un fallimento, additandolo come "il peggior accordo mai negoziato dagli Stati Uniti". Il 8 maggio 2018, Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo, alimentando le tensioni che avevano contraddistinto i rapporti tra i due paesi fin dalla rivoluzione del 1979. La sua decisione di non seguire le orme di Obama si basa su tre principali motivazioni.

Il primo motivo è il "peso della storia". La rimozione del sovrano filo-americano Mohammad Reza Pahlavi nel 1979 segnò un punto di svolta, con la perdita da parte degli Stati Uniti di un importante alleato in Medio Oriente e l'instaurazione di un regime anti-americano. Il secondo motivo è il "peso della politica". Il Partito Repubblicano ha sempre nutrito una forte ostilità verso l'Iran, come dimostrato dalla retorica di George W. Bush, che ha definito l'Iran parte di un "asse del male", insieme a Iraq e Corea del Nord. La terza motivazione riguarda la "psicologia del presidente". Trump ha dimostrato una volontà di smantellare l'eredità di Barack Obama, ignorando molti dei suoi successi, incluso l'accordo con l'Iran.

Inoltre, la posizione di Trump sull'Iran è stata influenzata da membri della sua amministrazione, come il Segretario di Stato Mike Pompeo e l'ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton. Quest'ultimo, noto per le sue posizioni favorevoli alla guerra, ha spesso sostenuto l'idea di un cambio di regime in Iran. La nomina di Bolton è stata vista come una dichiarazione di guerra all'Iran, ma con il suo licenziamento nel 2019, le relazioni tra i due paesi potrebbero subire un allentamento.

La politica dell'amministrazione Trump verso l'Iran si basa su tre pilastri, che incarnano la sua strategia di "massima pressione". Il primo pilastro è la delegittimazione dell'Iran, con l'intento di dipingerlo come un "regime malvagio" che minaccia la stabilità del Medio Oriente. L'amministrazione Trump ha descritto l'Iran come una "dittatura" e uno "stato canaglia" impegnato a destabilizzare la regione, sostenendo anche gruppi terroristici e il regime di Assad in Siria. Il secondo pilastro è la pressione economica, attraverso il rafforzamento delle sanzioni e il boicottaggio delle sue relazioni commerciali. Infine, il terzo pilastro è l'isolamento diplomatico, con l'intento di evitare qualsiasi accordo multilateralismo che coinvolga l'Iran.

Il ritiro di Trump dall'accordo nucleare con l'Iran e la sua politica di massima pressione hanno aumentato il rischio di escalation militare nella regione. La sfida è che la strategia di isolare l'Iran potrebbe, invece, rafforzare la determinazione del paese a perseguire i suoi obiettivi nucleari, alimentando una nuova corsa agli armamenti nel Medio Oriente. Inoltre, la decisione di abbandonare l'accordo potrebbe minare la credibilità degli Stati Uniti come negoziatore e compromettere ulteriormente le relazioni con gli alleati europei, che hanno continuato a sostenere l'accordo.

Qual è la strategia di Trump verso l'Iran e la Cina?

La politica estera dell'amministrazione Trump si è caratterizzata per un approccio netto e deciso, volto a rispondere alle sfide globali attraverso una combinazione di isolamento, pressione economica e un rinnovato senso di suprematia degli Stati Uniti. Due degli attori principali nei suoi progetti geopolitici sono stati l'Iran e la Cina, due potenze che, secondo Trump, rappresentano minacce dirette agli interessi americani. Le strategie adottate verso questi paesi sono state fortemente influenzate dalla visione di un'America che si difende da un mondo sempre più ostile e competitivo.

Uno dei pilastri fondamentali della politica di Trump nei confronti dell'Iran è stata la strategia del contenimento. Questa visione si è tradotta in un esplicito supporto a paesi alleati come l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e Israele, che condividono l'obiettivo di limitare l'influenza iraniana nel Golfo Persico. Trump ha spinto per una coalizione anti-Iran, facendo leva su alleanze storiche, ma anche sul contrasto con una sfera geopolitica che includeva un blocco pro-Iran, in parte supportato dalla Russia. Questo approccio ha portato a una serie di azioni dirette, tra cui il ritiro unilaterale dagli accordi sul nucleare del 2015 e l'introduzione di pesanti sanzioni economiche, tese a strangolare l'economia iraniana e a minare la sua capacità di sviluppare tecnologie nucleari e balistiche.

Le sanzioni economiche, uno degli strumenti principali della politica di Trump, hanno avuto un impatto devastante sull'economia iraniana. Il messaggio di Trump, chiaro e diretto, era che l'America non avrebbe più tollerato le azioni dell'Iran nel rafforzare il proprio potere economico e militare, sostenendo attività che minacciavano la sicurezza globale. La posizione degli Stati Uniti, pertanto, non solo cercava di isolare l'Iran, ma mirava anche a dissuadere qualsiasi paese, in particolare quelli europei, dall'intraprendere affari con Teheran, come sottolineato dalle dichiarazioni di Trump sul rifiuto di fare affari con aziende che intrattengano rapporti con i Guardiani della Rivoluzione. La politica delle sanzioni, dunque, diventa una dichiarazione di intenti, una lotta per riportare l'Iran sotto controllo e per preservare la supremazia americana sul piano economico e geopolitico.

Oltre alle sanzioni, la posizione unilaterale di Trump ha avuto una forte impronta sulla sua politica estera. Il presidente americano ha abbandonato accordi multilaterali, come l'accordo sul nucleare con l'Iran, e ha scelto una strada di durezza unilaterale, sostenendo che solo l’America fosse in grado di garantire la propria sicurezza globale senza il supporto delle istituzioni internazionali. In questo contesto, la figura di Trump come "l’uomo d’affari" che negozia con durezza e in solitaria è stata vista come il cardine della sua politica, ma questa visione ha anche portato a sfide inaspettate, come la creazione da parte dell'Unione Europea di un meccanismo per aggirare le sanzioni americane e continuare il commercio umanitario con l'Iran, nonostante le pressioni di Washington.

La politica verso la Cina, un altro degli aspetti più rilevanti della gestione di Trump, è stata improntata a un conflitto crescente che ha visto il paese asiatico classificato come una minaccia diretta agli interessi strategici degli Stati Uniti. La crescente potenza economica e militare della Cina, in particolare nella regione del Mar Cinese Meridionale e attraverso la sua aggressiva politica commerciale, è stata vista da Trump come un segno di una sfida sistemica alla leadership globale degli Stati Uniti. La retorica di Trump, acuta e decisamente critica, ha inquadrato la Cina come una potenza ostile che cercava di sostituire gli Stati Uniti come la principale superpotenza mondiale. Le politiche commerciali cinesi, le violazioni dei diritti umani e le ambizioni geopolitiche sono diventate oggetto di critiche aspre da parte dell’amministrazione Trump, la quale ha dato vita a una serie di dazi e sanzioni economiche contro Pechino, con l'intento di proteggere l’economia americana e di limitare l’ascesa della Cina come rivale economico e militare.

La questione delle isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale è stata uno dei temi centrali, in quanto la Cina ha proceduto alla militarizzazione di queste strutture, violando le normative internazionali. La crescente influenza cinese in Asia e la sua capacità di sfidare le normative internazionali attraverso manovre economiche e militari sono stati visti come segnali di un'accelerazione nel processo di sostituzione dell'ordine mondiale dominato dagli Stati Uniti con un nuovo sistema multipolare.

Trump ha cercato di rispondere con un'inasprita retorica e una politica di deterrenza economica, convinto che la Cina non fosse solo un rivale commerciale, ma anche un nemico geopolitico da contrastare in ogni ambito. La "guerra commerciale" che ne è seguita ha avuto un impatto globale, non solo sugli Stati Uniti e sulla Cina, ma anche su economie alleate e sull'ordine economico globale. Gli Stati Uniti, secondo Trump, dovevano "fare un buon affare" e garantire che le politiche commerciali fossero eque, anche a costo di danneggiare il sistema multilaterale.

È importante notare che, nonostante la retorica di Trump, la sua politica estera è stata caratterizzata da un certo isolamento. Gli alleati europei si sono spesso trovati in disaccordo con le sue decisioni, soprattutto sul tema delle sanzioni contro l'Iran e la Cina. La posizione di Trump ha messo in luce una difficoltà intrinseca nel gestire alleanze tradizionali in un mondo sempre più interconnesso, dove il ritiro da accordi globali e l’imposizione di sanzioni unilaterali possono avere conseguenze imprevedibili e creare nuovi equilibri di potere tra le nazioni.

La politica estera di Trump: caos e incoerenza o un nuovo ordine globale?

L'amministrazione Trump ha mostrato una totale mancanza di un pattern coerente in politica estera. Il suo approccio appare impulsivo, improvvisato, privo di un chiaro scopo o valore, poiché le decisioni sembrano essere erratiche, mal ponderate e mal concepite. Nel corso dei due anni di governo, le azioni di Trump hanno confermato ciò che molti critici avevano da tempo accusato: un comportamento bellicoso, avventato, caotico e irascibile. Nonostante un ordine mondiale in fase di erosione e l’emergere di crescenti inimicizie, molti critici non nutrono alcuna simpatia nei confronti del presidente, con l'eccezione dei suoi ammiratori più fedeli. Trump sembra essere in contrasto con la politica estera tradizionale. Le sue azioni sono imprevedibili, a volte cerca di ritirarsi dal mondo, altre volte appare abbastanza determinato a dominarlo e a sfruttare la forza degli Stati Uniti. Pertanto, è difficile separare il carattere difettoso di Trump dalle politiche stesse. La sua piccolezza emerge nel suo disinteresse per qualsiasi teoria o idea sofisticata, preoccupandosi invece eccessivamente di questioni banali. Come uomo d'affari, il suo approccio alla politica estera sembra essere puramente orientato al “business”, evidenziato dal suo continuo tentativo di imporre la sua volontà sui membri della sua amministrazione. Circondandosi di lealisti, spesso troppo deboli per opporsi a lui, la sua visione nebulosa aggiunge ulteriore confusione e imprevedibilità alla politica estera. In questo senso, si potrebbe argomentare che il caos auto-inflitto e l'incoerenza di Trump lo rendono parte di una tendenza globale. Secondo molti critici, Trump è visto principalmente come un nazionalista e un populista. Egli promuove il centralismo statale e il nazionalismo, attraverso i quali plasma le relazioni internazionali. La sua crociata contro il globalismo è chiaramente incarnata dal suo appello "America First" e dall'accento sulla sovranità americana. Queste concezioni ideali, che si fondano su interessi economici e di sicurezza ristretti, disprezzano le istituzioni internazionali e trascurano gli alleati e i partner degli Stati Uniti. La retorica conflittuale di Trump non corrisponde alle sue politiche. Abbracciando il termine controverso “nazionalismo” e forse inconsapevole del suo significato carico di bigotteria, Trump sembra confondersi tra essere un nazionalista e un patriota. Le sue narrazioni populiste, come "Make America Great Again", ruotano attorno a una politica estera vuota, priva di un serio set di valori, principi e convinzioni.

L’impatto della personalità di Trump sulla politica estera della sua amministrazione

Per comprendere meglio l’impatto della personalità di Trump sulla sua politica estera, due libri di successo offrono una descrizione sintetica ma approfondita del presidente repubblicano alla Casa Bianca. Il libro di Bob Woodward, Fear: Trump in the White House, scritto dopo centinaia di ore di interviste con membri dell'amministrazione Trump, ha suscitato scalpore quando è stato pubblicato nel settembre 2018. Woodward cerca di ritrarre il comportamento di Trump attraverso le lenti di coloro che lo circondano. Le testimonianze del personale della Casa Bianca sono, per dir poco, controverse. Il capo di stato maggiore della Casa Bianca, John F. Kelly, definiva Trump un “idiota” e “squilibrato”, mentre il segretario alla difesa James Mattis affermava che Trump avesse una comprensione "da un bambino di quinta o sesta elementare" (Woodward 2018). Nel suo libro, l’autore argomenta che Trump sia indegno di ricoprire la carica di presidente, un'opinione condivisa da molti funzionari della Casa Bianca. Un'altra testimonianza che contribuisce a dipingere un quadro dell'ufficio presidenziale di Trump è quella di Michael Wolff in Fire and Fury: Inside the Trump White House. Wolff descrive un presidente irrazionale, incompetente e narcisista. Uno degli episodi riportati riguarda un consigliere economico alla Casa Bianca, che descrive Trump come “meno una persona che una collezione di tratti terribili, o forse di terrificanti tweet” (Wolff 2018). Questo potrebbe consolidare l'idea che la personalità di Trump stia effettivamente plasmando la sua politica estera, la quale appare come un riflesso della sua stessa natura.

Il narcisismo di Trump si manifesta nel modo in cui affronta le mansioni presidenziali. In effetti, un narcisista è una persona “estremamente egocentrica, con un senso esagerato di autostima, caratterizzata da un’ammirazione eccessiva o un'infatuazione per sé stessa” (Lancer 2018). In altre parole, il narcisismo si nutre della gratificazione derivante dalla vanità o dall’egotismo. Le caratteristiche del narcisismo possono espandersi includendo auto-lode e arroganza. In Fire and Fury, Wolff dipinge un presidente narcisista che porta avanti obiettivi di politica estera attraverso una linea telefonica personale, senza consultarsi con il suo staff o ricevere alcuna guida. Trump ha la reputazione di essere testardo e di sopravvalutare se stesso e le proprie capacità, tanto che Wolff conclude che “quasi il 100% delle persone che lo circondano credono che Trump non sia idoneo per l’incarico” (Wolff 2018). Questo stile narcisistico e autoreferenziale si riflette non solo nel modo in cui Trump attua la sua politica estera, ma anche nella maniera in cui la comunica. Un esempio lampante è un video pubblicato dal Washington Post il 27 ottobre 2019, in cui Trump annuncia la morte del leader dell’ISIS, Abu Bakr al-Baghdadi. In quel discorso, Trump riesce a deviare l’attenzione dal fatto rilevante dell’uccisione di un leader di spicco per promuovere ripetutamente il suo libro imminente, lamentandosi di non ricevere alcun riconoscimento per l’operato dell’esercito: “Non ricevo alcun credito per questo, ma va bene, non lo faccio mai, ma eccoci qui” (Trump 2019). Un articolo pubblicato da Axios Journal intitolato “Tutto ciò che Trump dice di conoscere ‘più di chiunque altro’” evidenzia una serie di ambiti nei quali Trump afferma di essere esperto: finanza elettorale, auditel televisivi, ISIS, social media, cause legali, politici, sistema dei visti, commercio, energia rinnovabile, tasse, debito, droni, tecnologia e infrastrutture (Britzky 2019). In breve, la vanità e l’arroganza di Trump non si limitano a come attua la sua agenda di politica estera, ma si riflettono anche nel modo in cui la presenta, rafforzando la convinzione che il suo narcisismo stia influenzando profondamente il suo approccio.

Anti-intellettualismo e populismo

Le principali caratteristiche di Trump sono l'anti-intellettualismo, la meschinità e il populismo. Questo è ammesso anche da un membro del suo staff della campagna elettorale del 2016, che ha rivelato che “Trump non legge e forse non è in grado di leggere, quindi trova difficile fare discorsi coerenti, e presto degenera in ripetizioni stonate o insulti viscerali; Twitter è il suo mezzo di espressione preferito perché si adatta agli impulsi spasmodici che lo guidano” (Wolff 2018). Questo suggerisce che il narcisismo e l’irrazionalità di Trump non sono che una goccia nell’oceano rispetto alla sua carenza di educazione. Le decisioni di Trump, come l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sul Clima, possono essere lette come manifestazioni del suo anti-intellettualismo e del suo populismo. Nonostante i numerosi studi scientifici che dimostrano l’esistenza e la gravità del riscaldamento globale, Trump ha deciso di ignorarli, privilegiando la retorica populista che sottovaluta e sminuisce la scienza per favorire il consenso di una base elettorale poco informata.

La politica estera di Trump: tra populismo, contraddizioni e orientamento aziendale

La politica estera di Donald Trump è un argomento complesso, caratterizzato da contraddizioni, approcci imprevedibili e una visione orientata al profitto. Fin dal suo insediamento alla Casa Bianca, Trump ha promesso di mettere “l’America al primo posto”, ma il suo comportamento e le sue azioni spesso hanno messo in luce un approccio più vicino al populismo che alla diplomazia tradizionale. La sua retorica, priva di eleganza e di raffinatezza, ha spesso solleticato le orecchie di un pubblico che preferisce la verità semplificata, piuttosto che una comprensione approfondita e scientifica dei problemi globali.

Un esempio emblematico di questa attitudine è la sua posizione sul cambiamento climatico. Nel 2013, Trump definì il riscaldamento globale come una “bufala costosa”, attribuendolo a una manovra cinese per ridurre la competitività industriale americana. Un commento che evidenziava non solo un approccio anti-intellettualista ma anche un riflesso della sua inclinazione populista: un leader che preferisce l'ignoranza comoda rispetto alla complessità dei fenomeni globali, e che considera la scienza come un intralcio ai suoi obiettivi politici. In un mondo sempre più segnato dall'incertezza climatica, le dichiarazioni di Trump non hanno solo suscitato critiche in ambito scientifico, ma hanno anche avuto un impatto significativo sulla politica interna e internazionale degli Stati Uniti.

L'approccio di Trump alla politica estera è stato, inoltre, segnato da una marcata imprevedibilità. Le sue dichiarazioni spesso si contraddicono, lasciando incertezze sia agli analisti politici che ai suoi alleati internazionali. Un caso emblematico di questa incoerenza è il suo atteggiamento verso la Corea del Nord. Durante la campagna presidenziale del 2016, Trump enfatizzò l'importanza della diplomazia nelle relazioni internazionali, affermando che la guerra non sarebbe stata mai la sua prima scelta. Tuttavia, solo un anno dopo, in risposta a una provocazione della Corea del Nord, minacciò di rispondere con “fuoco e furia come il mondo non ha mai visto”. Questa transizione repentina da una posizione di pacificazione a una di belligeranza rispecchia la natura imprevedibile del suo stile politico.

La politica estera di Trump si è anche distinta per un orientamento marcatamente aziendale. Essendo un magnate immobiliare e autore di un bestseller come The Art of the Deal, Trump ha applicato una logica prettamente economica alle sue strategie internazionali. Le sue relazioni diplomatiche sono state trattate come negoziazioni aziendali, dove l’obiettivo è ottenere il miglior affare possibile per gli Stati Uniti. Un esempio chiaro di questo approccio è la sua gestione della situazione in Iran. Trump ha minacciato di imporre sanzioni economiche severe al paese persiano e di escludere le aziende europee dalle relazioni commerciali con Teheran, con l’intento di indebolire l’economia iraniana e costringere il governo a un accordo vantaggioso per gli Stati Uniti. Questo approccio è il riflesso della sua visione del mondo come una gigantesca trattativa commerciale, dove ogni alleanza o confronto internazionale è visto come una possibilità di ottenere vantaggi economici diretti.

Anche le sue trattative con l’Arabia Saudita sono esemplificative di questa mentalità. In risposta agli attacchi alle strutture petrolifere saudite, Trump ha concordato di inviare truppe americane per difendere gli interessi sauditi, ma con una condizione chiara: il Regno avrebbe dovuto pagare per la protezione. La frase “l’Arabia Saudita paga per il 100% del costo, inclusi i costi dei nostri soldati” riassume l'approccio di Trump: ogni impegno deve essere finanziariamente compensato, e ogni alleanza deve essere vantaggiosa per gli Stati Uniti, anche a costo di compromettere valori o alleanze storiche.

Tuttavia, quando l’approccio aziendale di Trump non ha dato i frutti sperati, egli non ha esitato a minacciare il ritiro da alleanze strategiche, come nel caso della NATO o dell’accordo di Parigi sul clima. Questi esempi rivelano una strategia nazionale di “nazionalismo economico”, dove gli accordi internazionali sono considerati più come contratti che come impegni di cooperazione a lungo termine.

L’imprevedibilità e l’incoerenza della politica estera di Trump sono emblematiche di un mondo di incertezze. Il suo approccio non si allinea perfettamente con nessuna delle scuole di pensiero tradizionali in politica estera, come l’isolazionismo, il realismo o l'internazionalismo. La sua dichiarazione di voler porre fine alle guerre interminabili, come nel caso del ritiro dalle operazioni in Siria, si scontra con le sue azioni interventiste, come il bombardamento della Siria nel 2017. Questo contrasto tra dichiarazioni teoriche e azioni pratiche può essere definito come una “politica estera Trumpiana”, caratterizzata dall'incertezza e dalla costante oscillazione tra l'isolamento e l'interventismo.

In conclusione, la politica estera di Trump si è distinta per una serie di tratti caratteristici, tra cui il populismo, l’imprevedibilità, l’orientamento aziendale e l’approccio conflittuale. Ogni decisione, ogni alleanza e ogni ritirata hanno avuto come obiettivo principale quello di massimizzare i benefici economici per gli Stati Uniti, a volte a discapito della coerenza ideologica e della stabilità internazionale. In questo contesto, le sue azioni hanno avuto un impatto significativo non solo sugli Stati Uniti, ma anche sul panorama geopolitico globale, spingendo molti analisti a riflettere sul futuro della diplomazia americana in un mondo sempre più incerto e frammentato.