Il tempo che passa è spesso percepito in modo diverso da chi vive esperienze dolorose o straordinarie. Il protagonista di questa storia, mentre si avvicina al momento di partire, affronta l'impossibilità di spiegare completamente ciò che sta accadendo, né a se stesso né agli altri. Non ci sono risposte facili, né parole che possano davvero colmare il vuoto che si sta aprendo tra lui e le persone che ama. La sua partenza, pur essendo inevitabile, sembra come una condanna che si rinnova incessantemente.
Nel dialogo con suo figlio, la consapevolezza che qualcosa sta per accadere è chiara, ma non pronunciata. Il bambino percepisce la velocità del cambiamento, ma non ha le parole per esprimerlo completamente. La separazione non è una novità, eppure ogni volta il dolore sembra risvegliarsi con una forza inaspettata. La reazione della madre, Maureen, di fronte alla notizia della partenza, è un'esplosione di emozioni. La sua reazione violenta, un gesto che non ci si aspetterebbe in un contesto così familiare, rivela la profondità del legame e la frustrazione di un amore che sa di non poter sopportare l'assenza.
La separazione, in questo contesto, non è solo fisica. È un allontanamento dell’anima, un cambiamento che non si può spiegare con le parole. Il protagonista sa che, anche se il suo corpo rimarrà, una parte fondamentale di lui non lo farà. L’incredulità di Maureen, la sua disperazione, il suo senso di tradimento, rispecchiano una realtà in cui il tempo non si misura più in giorni, ma in attimi che diventano sempre più veloci. Ogni volta che il protagonista ritorna, è sempre più difficile restare. La sua presenza si fa sempre più evanescente, e ogni attimo passato insieme sembra farsi più fragile, più irraggiungibile.
Il racconto esplora anche il concetto di normalità in una relazione. Per Maureen, la "normalità" è il momento in cui la sofferenza è sopportabile, dove l'assenza non è un costante strazio. Ma questa normalità, seppur dolorosa, è anche quella che consente a entrambi di continuare a vivere, di far finta che nulla di straordinario stia accadendo. Eppure, la domanda fondamentale rimane: è possibile rimanere nella stessa realtà quando il tempo che scorre sembra non appartenere più a chi lo vive?
In fondo, il protagonista si trova in una realtà parallela, quella dell’inferno, che non è solo un luogo fisico ma uno stato dell’essere, una condizione esistenziale in cui il tempo si distorce. È un ritorno continuo, che inizia sempre nello stesso modo, ma con una crescente sensazione di alienazione. Nonostante il dolore che affiora attraverso la separazione, c'è una costante sensazione di impotenza: nessuna scelta sembra realmente sua, eppure, ogni volta che torna, la situazione sembra meno gestibile, più rapida, più irreversibile.
La riflessione sul tempo, dunque, non riguarda solo la separazione fisica o emotiva, ma anche la percezione che si ha di esso. La consapevolezza che il cambiamento sta accadendo non sempre si traduce in una vera comprensione. E quando il tempo inizia a scivolare più velocemente, diventa difficile mantenere il controllo su ciò che sta accadendo. Il corpo, la mente, e l’anima non sono più sincronizzati, e l'unico modo di affrontare la realtà sembra essere l’accettazione del dolore che si rinnova.
Questo scenario pone un'importante riflessione sul senso di appartenenza e di continuità, in un mondo che cambia a una velocità sempre maggiore. La domanda che emerge è se davvero possiamo fare qualcosa per rallentare il corso degli eventi o se siamo destinati a seguirli passivamente, cercando di fare i conti con un’esistenza che ci sfugge di mano.
La Solitudine e la Violenza: Una Riflessone Sull'Invisibilità e la Flessibilità della Scelta
In questo mondo dove la violenza seriale è diventata un argomento di ossessione collettiva, c'è una strana frattura tra l'interesse morboso per i carnefici e l'oblio totale delle vittime. Si parla incessantemente dei serial killer: uomini che, senza motivo apparente, uccidono ripetutamente, facendo della morte qualcosa di metodico e meccanico, un atto privo di senso se non quello di alimentare la propria fame di potere e controllo. La gente, affascinata dalla loro psiche deviante, esplora le cause e le origini di questi assassini, spesso individuando in traumi infantili o disturbi psicologici la chiave per comprendere la loro brutalità.
Eppure, c'è qualcosa di strano in questa fascinazione, qualcosa che esclude le vittime. La storia di tre bambini, torturati e uccisi con la stessa crudeltà di cui si parla quando si nomina Jack lo Squartatore, non suscita lo stesso interesse. I bambini non hanno nome, non hanno storia, sono solo corpi mutilati, morti in un silenzio senza eco. La loro sofferenza, la loro morte, non è mai raccontata con la stessa attenzione con cui vengono analizzati i dettagli psicologici di chi li ha uccisi. La cultura popolare si nutre della macabra curiosità per il male, ma il dolore delle vittime sembra essere un'ombra, un fantasma che si dissolve appena il loro corpo viene sepolto.
A volte, mi chiedo come si sarebbe evoluta la storia se i serial killer non fossero diventati così emblematici. Perché la violenza non è mai solo una questione di numeri. L'idea di un serial killer, così come quella di un serial vittima, non è mai davvero chiara. Si potrebbe obiettare che non c'è differenza tra chi uccide uno dopo l'altro e chi massacro tante persone tutte insieme, come in guerra, ma il punto sta proprio qui. La guerra è massacro collettivo, mentre l'omicidio seriale è solitudine e disperazione. È un atto di dominio assoluto, fatto non per una causa, ma per la pura e cruda affermazione della propria esistenza.
E poi c'è l'invisibilità. L'invisibilità diventa una sorta di protezione. Essere invisibili, infatti, non significa non esistere. Significa essere al di fuori della visibilità di chi può farci del male. Ma, a volte, questo stesso stato di invisibilità comporta una perdita. Si perde la capacità di vedere chiaramente ciò che accade attorno, di percepire le piccole cose, come quando un'ombra si proietta attraverso la propria finestra e ci fa domandare se davvero siamo al sicuro. Ma l'invisibilità offre anche una forma di rifugio. Non ci si fa notare, non si diventa bersaglio. Non si è un obiettivo per il serial killer, ma anche per chiunque abbia un interesse nei nostri destini.
Lo stesso concetto di "scegliere" diventa sempre più limitato. Si potrebbe pensare che ogni passo che facciamo sia una scelta, ma non è sempre così. A volte le opzioni sono poche e si riducono ai dettagli: che cosa mangiare a colazione, se una mela o una banana, se il kiwi che prima costava tanto e ora è diventato ordinario. Questi piccoli atti di scelta sono tutto ciò che rimane di un mondo che sembra aver perso la capacità di decidere realmente, di scegliere per sé stessi. È come se la vita ci fornisse delle scelte, ma solo quelle che possiamo gestire.
In questa solitudine, il pensiero di un altro essere vivente che ci guarda, che ci vede veramente, diventa qualcosa di confortante. La presenza di un animale che, pur essendo così distante dal nostro mondo, è capace di riconoscere la nostra esistenza, ci dà una sensazione di continuità. Il gatto che mi osserva al buio, mi sveglia con il suo sguardo penetrante, rappresenta una forma di connessione che non è violenta, ma pur sempre visibile. È un legame che, seppur fragile, ci fa sentire presenti, non invisibili.
La solitudine e la violenza sono spesso intrecciate, ma non sono mai solo l’una o l’altra. La violenza seriale è solo una delle manifestazioni più cruente della disconnessione tra gli esseri umani, ma la solitudine che la accompagna è altrettanto distruttiva. L’invisibilità, che sembra essere una protezione, diventa, con il tempo, anche un modo di annullarsi, di diventare invisibili a se stessi. Eppure, è proprio in questa invisibilità che si può trovare la via per ricostruire una propria forma di esistenza, anche se imperfetta, e a volte dolorosa.
L'importanza di comprendere il funzionamento delle scelte, anche quando sono ridotte all’osso, è fondamentale. La riflessione sulle piccole decisioni quotidiane, come quelle riguardanti l'alimentazione o le abitudini di vita, diventa uno strumento per mantenere il controllo su ciò che, in apparenza, sembra sfuggire. Anche nella solitudine, nelle sue varie forme, si può imparare a non essere solo un prodotto degli eventi, ma anche una parte di essi, capace di influire su ciò che accade, pur nella propria piccolezza.
Come si può raggiungere chi è scomparso? Viaggio tra memoria, realtà e inferno
June non corrispondeva affatto all’immagine della donna descritta nei miti. Con un tono deciso, chiese a zia Rose dove fosse lui. Rose rispose con un’alzata di spalle e un gesto distratto, come chi nasconde qualcosa dietro un velo di indifferenza, dicendo che era andato a trovare zia Prune. Ma June era determinata, sapeva che quel viaggio era possibile. Zia Rose, con fare ironico e quasi sornione, le parlò come a una studiosa di classici, lasciando intendere che era una questione delicata, pericolosa, quasi proibita.
Il consiglio di Rose non era una semplice indicazione: era un monito carico di significato. “Se non lasci cadere il maglione dalle mani, seguendo la manica fino a che rimane solo filo, questo ti condurrà da lui. Ma non sarà come lo ricordi: ha mangiato i suoi ricordi per tenersi caldo. Non è addormentato, ma un bacio lo risveglierà. Proprio come nelle fiabe.” Qui si tocca un tema profondissimo: il prezzo del ricordo e la perdita di sé nell’attesa, la metamorfosi della memoria in qualcosa di fragile, evanescente, quasi intangibile. L’atto di seguire il filo, di non voltarsi indietro, richiama archetipi antichi di viaggio nell’aldilà e rinascita, tra mito e realtà.
Rose aggiunge un’ultima, inquietante verità: “Se segui il filo correttamente e non ti volti indietro, potrai rubarlo dalla Casa delle Ossa.” Un luogo metaforico che evoca l’idea di un limbo, una prigione dell’anima e del ricordo, da cui si può tentare di liberare chi si ama. L’uscita non è una porta comune, ma una discesa, un salto nell’ignoto, nel vuoto della realtà e dell’inconscio, un momento in cui si apprende a volare, a lasciarsi andare alle leggi di un mondo altro.
Il secondo testo, ambientato in un futuro prossimo distopico, mostra un altro tipo di separazione e alienazione: il protagonista si confronta con il luogo in cui vive suo padre, Strawberry Fields, un quartiere che finge di essere un passato ideale, ma che è solo una replica sterile, vuota di vita autentica. Il senso di abbandono, la distanza emotiva e fisica tra genitore e figlio sono amplificati da un ambiente che sembra congelato in una nostalgia fittizia, dove tutto è più piccolo, più debole, più fragile — come i sogni degli abitanti. La presenza di bot, di “persone fatte” dall’aspetto umano ma che sono solo simulacri, accentua l’idea di realtà manipolata, di relazioni artificiali, di perdita di autenticità e memoria.
Quando la porta si apre, la bambina che accoglie Jen è un robot, una creazione artificiale con una voce matura e sorprendentemente reale, capace di evocare emozioni contrastanti: familiarità e spaesamento, calore e freddezza. La presenza di questo automa, così perfetto e al contempo innaturale, sottolinea la tensione tra ciò che è autentico e ciò che è riprodotto, tra passato e presente, tra ricordo e simulazione.
In entrambi i passaggi emerge un tema centrale: il rapporto con la memoria, con l’amore perduto e la ricerca di riconciliazione in mondi sospesi tra realtà e immaginazione. L’atto del viaggio verso chi non è più pienamente presente, sia che si tratti di un viaggio simbolico nell’inferno personale o di un incontro con l’assenza trasformata in artificio, è un rito di passaggio verso una nuova consapevolezza.
È importante riconoscere che la memoria non è solo un archivio di fatti, ma un organismo vivo, capace di trasformarsi, deformarsi, consumarsi. Il ricordo di una persona amata può diventare freddo, distante, sfuggente, eppure proprio attraverso il contatto, anche simbolico, si può tentare di risvegliarlo. Nel contempo, la realtà artificiale che sostituisce la vita autentica nel futuro distopico rappresenta un ammonimento: la memoria e il legame umano non possono essere sostituiti da simulacri, per quanto perfetti possano apparire.
Oltre a comprendere la natura fragile della memoria e dell’amore, è essenziale per il lettore interiorizzare il valore del coraggio nell’affrontare l’ignoto, l’ignoto che si manifesta sia nell’inferno personale sia nelle distorsioni del mondo contemporaneo. Questi viaggi non sono soltanto fisici, ma soprattutto interiori, una sfida a riconnettersi con ciò che si è perduto senza perdere se stessi nel processo.
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