La condizione mentale di un presidente può avere implicazioni enormi sulla politica nazionale e internazionale, ma come si gestisce la questione quando un leader mostra segni evidenti di instabilità? Durante la presidenza di Donald Trump, il dibattito sulla sua sanità mentale ha sollevato domande non solo sulla sua idoneità a governare, ma anche sui meccanismi costituzionali che regolano la rimozione di un presidente incapace di adempiere ai propri doveri.

Nel 1983, l'amendamento costituzionale che stabiliva le modalità per la rimozione di un presidente incapace di esercitare il suo potere (il 25° emendamento) non prevedeva procedure adeguate per un presidente che, pur incapace, rifiutasse di riconoscere la propria condizione. Questo fu un punto che preoccupò molto Jimmy Carter, che, in seguito alla diagnosi di Alzheimer di Ronald Reagan, sollecitò il Congresso a porre rimedio alla debolezza dell'emendamento, creando un meccanismo più chiaro e pratico per riconoscere la disabilità di un presidente. Tuttavia, come si è visto durante l'era Trump, i processi costituzionali erano talmente complicati che divenne quasi impossibile perseguirli.

Trump, che non avrebbe mai accettato di essere dichiarato incapace, avrebbe certamente contestato qualsiasi decisione che riguardasse la sua rimozione, portando la questione in Congresso. In tal caso, sarebbero stati necessari i due terzi dei voti sia della Camera dei deputati che del Senato per convalidare la sua rimozione. Questo tipo di consenso risultava più difficile da raggiungere rispetto a una procedura di impeachment, anche se la debolezza della sua leadership non passava inosservata. I suoi difetti caratteriali erano evidenti, e i commenti sulla sua salute mentale venivano spesso espressi in modo pubblico e a volte con una certa franchezza.

Senatori e funzionari di Washington si sono più volte espressi in modo allarmante riguardo al comportamento di Trump. Il senatore Jack Reed, per esempio, non esitò a dichiarare pubblicamente che riteneva il presidente "pazzo", mentre la senatrice Susan Collins ammise di essere preoccupata. Anche Bob Corker, ex senatore repubblicano, paragonò la Casa Bianca a un "centro di assistenza diurna per adulti", facendo eco alle preoccupazioni su come Trump non fosse in grado di dimostrare stabilità e competenza. La stampa e i funzionari dell'amministrazione facevano spesso riferimento a Trump come a un "bambino capriccioso", a tal punto che il politologo Daniel Drezner iniziò una lunga serie di tweet che documentavano episodi del suo comportamento infantile.

Per placare i suoi sbalzi d'umore, alcuni collaboratori avevano sviluppato delle strategie particolari. Quando Trump sembrava diretto verso una crisi emotiva, uno dei suoi assistenti preferiti, Max Miller, veniva spesso chiamato per calmare il presidente, giocando le sue canzoni preferite o intrattenendolo con discorsi leggeri.

Anche alcuni membri del Partito Repubblicano cercavano di capire come affrontare i problemi mentali del presidente. Paul Ryan, per esempio, ricevette consigli da un medico repubblicano che suggeriva letture su come trattare con persone affette da disturbi di personalità antisociale, un approccio che sarebbe stato politicamente esplosivo se fosse stato reso pubblico, ma che rimase segreto fino a quando non venne rivelato dal giornalista Bob Woodward. In privato, però, alcuni Repubblicani come Ryan si preoccupavano apertamente della salute mentale di Trump, al punto che l'economista Larry Lindsey, convocato dai leader repubblicani, si trovò a tenere una presentazione non sulla guerra commerciale con la Cina, ma sullo stato mentale del presidente.

Lindsey, che aveva studiato la psicologia dei leader mondiali, fece una valutazione di Trump in base al "Triade Oscura" della psicologia, che associa tre tratti di personalità a figure autoritarie e tiranniche: narcisismo, machiavellismo e sociopatia. Trump, come previsto, risultò un "narcisista al massimo", ma Lindsey ritenne che non fosse un individuo "machiavellico" o sociopatico. Nonostante ciò, l'eccessivo narcisismo di Trump e il suo comportamento imprevedibile gli permisero di gestire con astuzia certe situazioni, come la guerra commerciale con la Cina, in modo da mettere in difficoltà anche i suoi avversari.

Ciò che ha caratterizzato la presidenza Trump non è stata solo l'incapacità di una visione a lungo termine, ma una continua ricerca di attenzione. Il suo comportamento, instabile e a volte incoerente, era spesso descritto come un asset in politica estera. Trump, infatti, sfruttò la sua "fama" di imprevedibile per manipolare la percezione degli altri leader mondiali, in particolare con la Corea del Nord, dove si faceva volutamente passare per instabile per indurre il suo interlocutore a pensare che avrebbe potuto prendere decisioni impulsive e pericolose.

In privato, Trump era perfettamente consapevole della sua immagine di "folle", e anzi la sfruttava a proprio vantaggio, cercando di manipolare la percezione della sua follia come un atto di strategia. Alla fine del 2017, in risposta alle critiche sul suo comportamento, Trump si definì "un genio molto stabile", e quella frase divenne il titolo di un libro che analizzava la sua presidenza, segnando il culmine di una delle tante narrazioni che lo riguardavano.

Tuttavia, al di là delle caratteristiche psicologiche di Trump, è importante sottolineare che la sua presidenza ha sollevato questioni complesse e di grande rilevanza sulla leadership, la responsabilità e la stabilità mentale in un contesto di potere globale. La percezione della sua sanità mentale ha avuto implicazioni per la politica interna e internazionale, e il modo in cui è stato trattato il suo comportamento è un caso di studio su come la politica possa, in alcuni momenti, andare oltre la razionalità e abbracciare l'imprevedibile.

Come la colpa divenne strategia elettorale?

La conversazione privata tra Trump e i suoi più stretti consiglieri espone una verità strategica: la definizione dell’avversario è il centro della guerra politica, e ritardarne l’operazione equivale a consegnare l’iniziativa all’altro. Rove lo rimprovera con durezza tattica — «Se fosse morto domani, nominerebbero Bernie Sanders» — mentre Trump barcolla tra ipotesi improbabili di candidati sostitutivi e una presunzione di facilità che Rove giudica ingenua. L’analogia storico-politica è esplicita: i cicli politici precedenti — Bush che dipinse Kerry come élite incerta, Obama che incorniciò Romney come plutocrate insensibile — non hanno lasciato al presidente il tempo necessario per costruire l’immagine nemica. L’urgenza è aggravata dal fatto che la pandemia aveva trasformato la campagna in un referendum personale su Trump; se la scelta fosse stata «ancora quattro anni di Trump?» gli scenari elettorali rimanevano sfavorevoli.

In questo vuoto narrativo, l’assassinio di George Floyd si rivela una svolta sia morale sia opportunistica. Jared Kushner percepisce immediatamente il potenziale della vicenda come epicentro mediatico e tenta il contenimento attraverso contatti con leader afroamericani e proposte di «listening sessions», ma lo sforzo di pacificazione si scontra con l’istinto del presidente a provocare. L’ordine esecutivo su incentivi federali per migliorare le pratiche di polizia, promosso da Kushner, è simbolico ma insufficiente rispetto alle richieste di proibizioni su chokeholds o riforme radicali. Qualsiasi credito di buona volontà coltivato da Kushner rischia così di svanire, mentre la Casa Bianca vira verso un lessico della repressione.

Trump non esita a sfruttare la narrativa: parafrasando slogan storici («LAW & ORDER», «SILENT MAJORITY»), ma anche superandoli nella retorica bellicosa — «When the looting starts, the shooting starts» — trasforma la paura in strumento di aggregazione del suo elettorato. La scelta retorica è consapevole: posizionarsi come difensore dell’ordine pubblico, interprete della reazione bianca al movimento di protesta, alternativa alla gestione emergenziale della pandemia. Dove altri leader leggono una richiesta di confronto sistemico col razzismo, Trump scorge un’opportunità per ridefinire l’agenda politica e distogliere l’attenzione dalle sue vulnerabilità.

La gestione mediatica è specchio della strategia: tweet notturni che non ammettono ripensamenti, walk‑back approssimativi che non ricuciono l’immagine pubblica, e discorsi studiati per enfatizzare la condanna delle manifestazioni violente più che la morte che le ha generate. L’uso della messa in scena – dalla pressione sui governatori alla critica selettiva verso simboli culturali come il divieto della bandiera confederata nelle corse NASCAR — mostra un calcolo che intreccia identità, simboli e sicurezza per produrre una coalizione di difesa percepita del «patrimonio americano». Il risultato è un’operazione politica che sacrifica ogni desiderio reale di riconciliazione per capitalizzare il risentimento, con l’effetto pratico di polarizzare ulteriormente il corpo civico e di trasformare un evento di choc collettivo in un asse di campagna.

È fondamentale riconoscere che questa conversione del trauma sociale in leva politica non nasce da un vuoto tattico, ma da una concatenazione di scelte: ritardo nella definizione dell’avversario, incapacità di cogliere la dimensione riformatrice delle proteste, e la decisione deliberata di preferire la mobilitazione dell’elettorato esistente alla costruzione di nuovi consensi. La retorica securitaria, lungi dall’essere mera enfasi, diventa atto performativo che plasma risposte istituzionali e simboliche, scuote alleanze interne e incrina tentativi di mediazione.

Importante per il lettore: integrare la scena con il contesto istituzionale e cronologico — la condizione pandemic­a che precede e amplifica la crisi di legittimità; il ruolo dei consulenti nell’orientare (o nel frenare) la risposta presidenziale; la dinamica tra gesti simbolici e politiche concrete; e la storia comparata di

Perché Paul Ryan ha lasciato il Congresso: il prezzo della moderazione nell’era Trump

Il 11 aprile, Paul Ryan annunciò che si sarebbe ritirato dalla politica alla fine dell’anno, a 48 anni, per trascorrere più tempo con la sua famiglia nel Wisconsin. Un atto che in politica suscitò subito una lettura univoca: il campo repubblicano, almeno alla Camera, era stato definitivamente vinto da Donald Trump. Ma dietro le sue dimissioni c’era ben altro. La decisione di Ryan, pur non legata a un vero e proprio licenziamento, segnò simbolicamente la fine di una fase del Partito Repubblicano, quella della resistenza a Trump. Ryan non fu costretto a lasciare la sua posizione, ma in un certo senso si ritirò dalla battaglia politica con la consapevolezza che la sua visione politica non aveva più spazio.

La sua scelta di lasciare, che poté sembrare una mossa per sfuggire ai conflitti, rappresentava in realtà la fine di un periodo di grande incertezza per il Partito Repubblicano. Ryan, un politico che aveva cercato in vari modi di fermare Trump durante la campagna del 2016, aveva fatto un passo indietro nel momento in cui il presidente si era consolidato al potere. Sebbene avesse più volte sostenuto Trump, anche dopo il caso Access Hollywood, il suo rapporto con il presidente rimase ambiguo e problematico. Da una parte, Ryan continuò a sostenere la presidenza di Trump, lodando le sue riforme fiscali e cercando di proteggere la sua amministrazione dai colpi della critica pubblica. Dall’altra, Ryan era consapevole che la sua politica più moderata non poteva più esistere in un contesto dominato dalla figura di Trump.

Il contrasto tra i due politici era evidente: Ryan era l’immagine del repubblicano tradizionale, serio, educato, e fondamentalmente disposto a negoziare, mentre Trump rappresentava l’approccio populista e distruttivo che sfidava il sistema stesso del Partito Repubblicano. A differenza di altri esponenti, come Mitch McConnell, che avevano trovato compromessi più praticabili con Trump, Ryan cercava una politica inclusiva, incentrata sul dialogo e sull’unità, ma il suo sforzo si scontrava costantemente con la realtà della politica trumpiana, che esigeva un’azione rapida e divisiva.

Nonostante ciò, Ryan ottenne alcuni successi durante la sua permanenza, come la riforma fiscale, ma la sensazione che nulla di veramente duraturo fosse stato realizzato sotto la sua guida si fece sempre più forte. Il suo ritiro, sebbene da un lato fosse stato visto come una decisione personale per proteggere la sua carriera e la sua vita privata, d’altra parte evidenziò l’incapacità di riuscire a conciliare la sua visione politica con quella di un presidente che non aveva alcun interesse per il compromesso o la moderazione.

Nel suo ritiro, Ryan si unì a una lunga lista di repubblicani e figure politiche che avevano cercato di limitare l’influenza di Trump, come Rex Tillerson e Jim Mattis, ma senza successo. Anche loro, purtroppo, avevano fallito nel tentativo di contenere la volontà del presidente, e in molti casi erano stati rovesciati o ridotti ai margini della politica. La strategia di Ryan, di mantenere un equilibrio tra il suo stile di governo tradizionale e la politica di Trump, non fu mai vista come soddisfacente da entrambe le fazioni: né dalla base trumpiana né dai suoi stessi alleati che lo ritenevano indeciso e troppo cauto.

A posteriori, Ryan avrebbe riconosciuto che la sua permanenza a Capitol Hill era in gran parte legata al tentativo di evitare disastri ancora più gravi per il paese. Quando si guardava indietro, si rendeva conto che il suo operato era stato una continua navigazione tra gli scogli di un partito sempre più radicalizzato. Anche se non aveva potuto fermare Trump, aveva cercato di far progredire, a modo suo, alcuni obiettivi politici, come la riforma fiscale, ma alla fine i risultati erano stati per lo più temporanei.

È importante comprendere come il ritiro di Ryan non fosse solo una risposta alla crescente polarizzazione politica, ma anche un atto di consapevolezza della propria incapacità di cambiare la traiettoria del Partito Repubblicano. La sua decisione riflette una più ampia frattura all'interno del partito tra i conservatori tradizionali e la nuova generazione di populisti che Trump aveva incoraggiato. La fine di questa "guerra interna" non segna solo la vittoria di Trump, ma anche l’impossibilità per figure come Ryan di conciliare le proprie convinzioni con la nuova realtà politica.

L’era Trump ha dimostrato che l’approccio moderato, il tentativo di mediare tra le diverse fazioni, non ha più spazio in un contesto dove la polarizzazione e il conflitto sono diventati strumenti per ottenere il potere. L'esperienza di Paul Ryan, purtroppo, è diventata un monito su come il tentativo di mantenere un equilibrio possa risultare alla fine inutile quando la spinta verso la radicalizzazione prevale su ogni altra considerazione.

Come la visione di Trump sulla Russia ha modellato la politica estera degli Stati Uniti

La politica estera del presidente Donald Trump è stata fortemente influenzata da una visione personale e in molti casi inconsueta dei rapporti internazionali, in particolare con la Russia. Il suo approccio alle questioni di sicurezza, come la gestione delle alleanze e la gestione delle crisi internazionali, si è spesso discostato dalle pratiche tradizionali della diplomazia americana. Questo è particolarmente evidente quando si esamina il suo rapporto con il presidente russo Vladimir Putin, una relazione che ha sollevato non poche preoccupazioni tra i suoi alleati e consiglieri.

Un episodio emblematico di questa dinamica è il trattamento che Trump riservò alla questione delle "dacie diplomatiche" russe negli Stati Uniti. Quando si trattò di chiudere queste strutture in risposta alle interferenze russe nelle elezioni americane, Trump non mostrò grande interesse a discutere le implicazioni di queste azioni sullo spionaggio o sulle attività di intelligence. In una riunione con i suoi consiglieri, Trump trascorse la maggior parte del tempo a parlare di un test missilistico della Corea del Nord, minimizzando le preoccupazioni sollevate dal suo brief FBI riguardo alla sicurezza. Quando gli venne fatto notare che le sue opinioni sul missile nordcoreano non corrispondevano alle informazioni di intelligence degli Stati Uniti, Trump non esitò a respingerle, sostenendo semplicemente che Putin gli avesse detto il contrario. Questa risposta, che ignorava gli avvertimenti degli esperti, rifletteva un atteggiamento di fiducia assoluta nei confronti di Putin, indipendentemente dalle evidenze.

Al contempo, la sua politica nei confronti dell'Ucraina era segnata da una visione sorprendentemente favorevole verso la Russia. Nel 2017, durante un incontro con il presidente ucraino Petro Poroshenko, Trump definì l'Ucraina un paese "corrotto", citando un parere di un amico ucraino a Mar-a-Lago come fonte. Inoltre, dichiarò che la Crimea fosse effettivamente russa, giustificando questa posizione con l'argomento che la lingua parlata nella regione fosse il russo. La posizione di Trump non solo creava una frattura con gli alleati europei, ma metteva anche in discussione il sostegno all'Ucraina in conflitto con i separatisti russi nel Donbass.

Nonostante queste opinioni, Trump acconsentì successivamente alla vendita di armamenti a Kiev, compreso un significativo numero di missili anticarro Javelin. Tuttavia, la sua posizione restò ambigua e incoerente. Pochi mesi dopo, Trump offrì a Putin la possibilità di un incontro bilaterale durante il vertice di Helsinki del 2018, un incontro che, come quello di Singapore con Kim Jong-un, non aveva obiettivi chiari né preparazioni strutturate. L'approccio di Trump alla diplomazia con la Russia sembrava essere più una questione di "prestigio" personale che di un'effettiva strategia geopolitica.

Il vertice di Helsinki è stato un altro esempio di come Trump spesso sembrasse perseguire i suoi obiettivi senza una visione strategica chiara. Sebbene i suoi consiglieri, come il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, avessero cercato di pianificare un'agenda, il presidente americano non sembrava interessato a nulla di più di un incontro faccia a faccia con Putin. Le preparazioni per il summit furono scarse, con gli Stati Uniti che non riuscirono a negoziare con la Russia alcun "deliverable" sostanziale prima del vertice. La sua visione del mondo, formata negli anni '80 durante il periodo della guerra fredda, lo portò a dare grande importanza al controllo degli armamenti e ai trattati internazionali, ma sempre con l'idea di apparire come una figura centrale nella diplomazia globale.

La relazione tra Trump e Putin è stata una delle più controverse della sua presidenza, e il suo approccio alle questioni riguardanti la Russia ha suscitato preoccupazioni a livello internazionale. Non solo il suo atteggiamento personale verso Putin sembrava più quello di un alleato che di un avversario, ma le sue dichiarazioni e azioni rischiavano di minare la coesione tra gli alleati occidentali, in particolare all'interno della NATO. L'indifferenza di Trump verso le preoccupazioni europee riguardo alle mosse russe, come la costruzione del gasdotto Nord Stream 2, e la sua ostilità nei confronti di leader come Angela Merkel hanno aggravato ulteriormente la situazione.

In effetti, la personalizzazione della politica estera da parte di Trump, che sembrava rispondere più a impulsi emotivi e desideri di prestigio che a una valutazione strategica complessa, ha creato un clima di incertezza tra gli alleati e di inquietudine nelle istituzioni internazionali. Le sue inclinazioni verso un isolamento crescente e un’avversione verso le alleanze tradizionali, unite alla sua reticenza a confrontarsi con la realtà geopolitica, hanno segnato un periodo di frattura nelle relazioni internazionali.

Un aspetto fondamentale di questa politica estera è che, mentre Trump si concentrava sull'acquisizione di vantaggi personali e politici dalle sue interazioni, non riusciva a capire appieno le implicazioni più ampie delle sue azioni. In molte occasioni, la sua mancanza di preparazione e la superficialità nel trattare con leader mondiali hanno portato a esiti difficili da prevedere. Per chi desidera comprendere appieno la politica estera di Trump, è essenziale non solo esaminare le sue dichiarazioni e azioni, ma anche considerare il contesto psicologico e ideologico che le ha guidate. La sua visione del mondo era un miscuglio di desiderio di potere personale, di nostalgia per un passato di grandezza internazionale e di diffidenza nei confronti delle alleanze e delle strutture multilaterali.

Come il President Trump ha gestito la sua amministrazione durante la crisi del muro e la politica sull'immigrazione

Trump, durante il suo mandato, ha affrontato una serie di sfide interne, soprattutto in relazione alla sua politica sull’immigrazione e alla costruzione del muro al confine. La sua insistenza nel voler utilizzare i fondi militari per finanziare la costruzione del muro fu un punto focale della sua amministrazione. Nonostante il suo impegno, la sua richiesta venne ostacolata per mesi, principalmente dal capo dello staff John Kelly, che si opponeva fermamente all'idea. Tuttavia, la situazione cambiò quando Trump trovò un alleato in Mick Mulvaney, il suo nuovo capo dello staff. A partire da quel momento, l'obiettivo di Trump di utilizzare i fondi militari per costruire il muro cominciò a sembrare una possibilità concreta.

Nel frattempo, nel Senato, il senatore Lindsey Graham prese su di sé la responsabilità di convincere i conservatori contrari a tale decisione, tra cui Ted Cruz e Ben Sasse. La situazione si fece tesa, e in una notte, Graham, insieme a Cruz e Sasse, si recò alla Casa Bianca per discutere direttamente con Trump. Nonostante l’irritazione del presidente, che stava cenando con la sua famiglia, la discussione sulla legalità del piano proseguì senza indugi. La dialettica tra i vari attori politici si fece intensa, ma alla fine, grazie alla sua determinazione, Trump ottenne ciò che voleva: l’approvazione del suo piano. Nonostante le resistenze interne, Trump riuscì a mantenere il supporto di una parte significativa del suo partito e a far passare la legislazione, riuscendo a respingere la legislazione che avrebbe ostacolato l'uso dei fondi.

Anche se la crisi governativa causata dalla parziale chiusura del governo creò non pochi problemi, fu proprio grazie a questa situazione che Trump riuscì a spingere attraverso i suoi piani. La sua volontà di non cedere e di usare il veto per mantenere il controllo delle sue politiche si rivelò un fattore decisivo.

Contemporaneamente, la relazione di Trump con la segretaria per la sicurezza interna, Kirstjen Nielsen, stava rapidamente peggiorando. Nielsen, che aveva cercato di mantenere una linea più legale e praticabile sulle questioni migratorie, finiva regolarmente per entrare in conflitto con il presidente. Le sue proposte, seppur più pragmatiche, non soddisfacevano mai pienamente le richieste di Trump, che voleva azioni più dure. La tensione culminò quando Trump minacciò di riprendere la separazione delle famiglie, una pratica che aveva già causato enormi polemiche l’anno precedente. Nielsen, stanca di queste richieste e dell'insistenza del presidente, si trovò a dover mediare tra le politiche volute da Trump e le reali possibilità di attuarle.

Il rapporto tra Trump e Nielsen divenne sempre più teso. Alla fine, la decisione di Trump di mettere Stephen Miller, uno dei suoi consiglieri più radicali, a capo della sicurezza delle frontiere segnò un momento cruciale. Miller, entusiasta del suo nuovo ruolo, cominciò a licenziare coloro che considerava troppo morbidi o legati a considerazioni legali, come nel caso di Ronald Vitiello, direttore ad interim dell'Immigrazione e della Dogana (ICE). Questo segnò un altro punto di svolta nell’amministrazione, dove la politica sull’immigrazione si radicalizzò ulteriormente.

Miller, con la sua visione intransigente, non si limitò a sfidare le leggi esistenti ma mise in atto politiche di purificazione interna, cercando di rimuovere ogni ostacolo alla sua agenda. Ogni tentativo di moderazione, anche da parte di alleati, veniva visto come una minaccia e veniva prontamente eliminato. Il suo ruolo di "zar delle frontiere" lo portò a introdurre nuove politiche e a mantenere una linea estremamente dura nei confronti degli immigrati e dei richiedenti asilo.

Oltre alle dure battaglie interne, Trump si trovò a dover affrontare anche l’opposizione da parte del sistema giudiziario, che bloccava molte delle sue politiche sull’immigrazione. In particolare, la corte d'appello del nono circuito della California gli causò non pochi grattacapi, dopo che una decisione impedì l’espulsione immediata degli immigrati senza un altro processo. Questo episodio rafforzò la convinzione di Trump che il sistema giudiziario fosse un ostacolo per le sue politiche, portandolo a considerare misure drastiche, come l'abolizione di alcune corti federali, una proposta che fece perentoriamente in una riunione con i suoi collaboratori.

La determinazione di Trump nel portare avanti la sua agenda, nonostante gli ostacoli interni e legali, ha segnato un capitolo significativo della sua presidenza. La sua capacità di perseverare e di ottenere il supporto di alleati politici, come Graham, nonostante la crescente opposizione, ha consolidato la sua posizione e la sua influenza all’interno del partito repubblicano.

Questa situazione evidenziò non solo le sfide politiche e legali che Trump dovette affrontare, ma anche la sua abilità nel gestire il caos e la discordia all'interno della sua amministrazione. La gestione del conflitto, tra alleati e oppositori, divenne un elemento cruciale per mantenere il controllo su un’agenda che, per molti versi, sembrava andare controcorrente rispetto alle norme politiche tradizionali.