Fino a un passato recente, il cosmopolitismo sembrava rappresentare non solo un orizzonte teorico ma anche una traiettoria politica concreta. Il mondo, ci si diceva, si stava muovendo verso una sempre maggiore integrazione globale: istituzioni transnazionali, valori universali, diritti umani oltre i confini statali, cooperazione internazionale. Era l’epoca dell’ottimismo post-Guerra Fredda, in cui si credeva che la storia avesse imboccato una direzione irreversibile verso un ordine mondiale post-nazionale. La globalizzazione sembrava implicare una progressiva dissoluzione delle frontiere come categorie politiche rilevanti.
Tuttavia, gli eventi del 2016 — la vittoria della campagna “Leave” nel referendum sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti — hanno bruscamente interrotto questa narrazione. Non sono stati semplici eventi politici, ma sintomi di una crisi profonda nel rapporto tra cittadini e istituzioni globali. Hanno messo in discussione i presupposti teorici e pratici del cosmopolitismo contemporaneo e obbligato filosofi politici, analisti e cittadini a rivedere le proprie certezze. È in questo contesto che si rende necessaria una riflessione critica sulla tenuta del progetto cosmopolita nell’epoca attuale.
La centralità della sovranità nazionale, il rifiuto della libera circolazione, la diffidenza verso trattati internazionali e accordi climatici, sono emersi non tanto come contestazioni isolate, ma come segnali convergenti di una perdita di fiducia nell’ideale cosmopolita. Questo disincanto non è stato necessariamente espresso in termini teorici dai sostenitori della Brexit o da chi ha votato per Trump; spesso è stato articolato in modo implicito, ma non per questo meno potente. La politica istituzionale dell’Unione Europea o la vocazione globalista della classe dirigente americana non si sono mai dichiarate apertamente cosmopolite, ma ne incarnavano le potenzialità e i presupposti. Così, il rigetto di queste politiche è stato anche, per estensione, un rigetto delle basi filosofiche che le sostenevano.
La forza retorica delle campagne del 2016 — tanto quella britannica quanto quella americana — si è costruita su un’idea di “recupero”: recupero dell’identità nazionale, della sovranità popolare, del controllo sui confini, del primato dell’interesse nazionale. Il cosmopolitismo, inteso come apertura verso l’altro, universalismo giuridico, e appartenenza post-statale, è stato percepito come un’astrazione elitaria, incapace di rispondere alle ansie economiche e culturali delle comunità locali. La democrazia liberale, nel suo tentativo di espandersi oltre i confini dello Stato, ha finito per trascurare il demos stesso, minando la legittimità delle sue strutture rappresentative.
Il momento attuale impone dunque una revisione profonda. Non si tratta semplicemente di opporre cosmopolitismo e populismo, ma di interrogarsi sulla tensione strutturale tra appartenenza e universalismo, tra cittadinanza e umanità, tra localismo e governance globale. Le reazioni contro il cosmopolitismo contemporaneo non possono essere liquidate come regressioni irrazionali; sono, piuttosto, la manifestazione di un’esigenza reale di radicamento, di voce, di agency collettiva. Il cosmopolitismo, per poter essere recuperato o riformulato, dovrà confrontarsi con queste esigenze. Ignorarle significherebbe replicare gli stessi errori che lo hanno condotto alla crisi attuale.
L’attuale fase storica richiede di ripensare non solo le strutture politiche, ma anche le categorie con cui pensiamo la convivenza. La nozione di cittadinanza deve potersi aprire all’altro senza dissolversi nell’astrazione. L’identità collettiva non può essere negata, ma nemmeno idolatrata. Le istituzioni transnazionali devono riacquisire legittimità non soltanto attraverso la tecnica, ma attraverso un rinnovato legame democratico. Solo così si potrà concepire una forma di cosmopolitismo che non sia percepita come imposizione, ma come scelta condivisa.
È importante anche riconoscere che molte delle istituzioni accusate di promuovere un’agenda cosmopolita non hanno mai risolto, né affrontato pienamente, la questione del deficit democratico. Il problema del “confine democratico” — chi è incluso nel processo decisionale e chi no — resta centrale. La democrazia presuppone un demos, e il demos implica confini, non solo geografici ma anche culturali e simbolici. Un cosmopolitismo che ignori questi confini rischia di essere tanto cieco quanto le forme più retrive di nazionalismo.
Infine, ciò che va aggiunto è la consapevolezza che ogni progetto politico universale, per non essere rifiutato, deve essere vissuto come proprio da chi ne è parte. L’universalismo imposto dall’alto, senza il consenso e la partecipazione delle comunità locali, genera alienazione e risentimento. Il futuro del cosmopolitismo non può risiedere in un’astratta razionalità globale, ma nella capacità di radicarsi nel vissuto concreto delle persone, riconoscendo le loro paure, le loro identità, le loro aspirazioni.
La religione civile e il cosmopolitismo paradossale di Rousseau
Jean-Jacques Rousseau, filosofo illuminista e padre del contratto sociale, ha sempre messo in discussione le fondamenta della cittadinanza, della società e della religione all'interno di un'ottica di libertà e autodeterminazione dell'individuo. Tuttavia, mentre Rousseau abbraccia l'idea di una libertà "naturale" e di una società che esista sulla base di un contratto collettivo e razionale, la sua visione della politica e della religione non è priva di tensioni, in particolare per quanto riguarda il cosmopolitismo e il suo contrario, l'anti-cosmopolitismo. La riflessione di Rousseau su come la religione si interfacci con la politica offre uno degli aspetti più intriganti della sua filosofia.
Nel suo Contratto Sociale, Rousseau cerca di preparare l'individuo a consenzire in modo razionale e libero all'ingresso in uno stato legittimo, nel quale possieda un forte senso di appartenenza e di lealtà. Questo stato, pur legittimato dalla volontà generale, non si fonda su una "cultura comune" che imponga determinati costumi, tradizioni o opinioni ai cittadini, in quanto ciò comprometterebbe il principio di autodeterminazione e di libertà dell'individuo. Rousseau rifiuta quindi il modello "culturale", che impone un’omogeneità forzata, e preferisce un modello che preservi la libertà di ogni individuo. Questo contrasto è fondamentale per comprendere la sua visione di una politica che non debba sacrificare la libertà personale per il bene dell'omogeneità sociale.
All’interno di questo discorso, Rousseau distingue tra tre tipologie di religione che si intrecciano con la sfera politica: la religione dell’uomo, la religione del cittadino e la religione del sacerdote. La prima è quella della fede universale, che insegna il rispetto per i doveri morali eterni e l’adorazione del dio supremo. Essa è una religione non ritualistica, pura, che Rousseau considera la "vera religione del Vangelo". La religione dell’uomo è cosmopolita, in quanto riconosce una fraternità universale tra tutti gli esseri umani, ma non si adatta alle esigenze particolari di una comunità politica. Essa è incompatibile con le necessità di una società che deve necessariamente essere legata a una specifica cittadinanza e a determinati doveri politici.
D’altra parte, la religione del cittadino è quella che riguarda specificamente un particolare stato, ed è legata al culto della patria. Questa religione, pur avendo una funzione utile alla coesione sociale e alla formazione dell’identità collettiva, è fondamentalmente falsa, secondo Rousseau. Essa è costruita su un errore, in quanto non riconosce che gli esseri umani non nascono cittadini per natura, ma diventano tali attraverso un accordo sociale. Rousseau considera la religione del cittadino una forma di superstizione che, pur essendo utile dal punto di vista politico, finisce per favorire la violenza, l’intolleranza e la credulità.
Infine, Rousseau descrive la religione del sacerdote come una forma di fede che divide l’autorità politica e religiosa, creando conflitti tra i doveri civili e religiosi dei cittadini. Questa religione è, secondo Rousseau, particolarmente perniciosa, poiché in nome di un’autorità religiosa separata, essa distrugge la coesione politica e rende impossibile per gli individui essere tanto devoti quanto buoni cittadini. In particolare, Rousseau associa questa religione al cattolicesimo romano, visto come un esempio di questa divisione pericolosa.
Queste distinzioni tra i vari tipi di religione rivelano il paradosso centrale del pensiero di Rousseau: la tensione tra l'universalismo cosmopolita e la necessità di una forma di coesione nazionale che limiti la libertà individuale a favore dell’unità politica. Rousseau riconosce che, sebbene la religione dell’uomo sia una verità universale e naturale, essa non è praticabile nel contesto di una cittadinanza politica, in quanto non si lega ad alcuna comunità specifica. La religione del cittadino, pur essendo funzionale alla vita politica, è, invece, falsa e foriera di conflitti.
Per risolvere questa contraddizione, Rousseau propone una “professione di fede civile” che sarebbe composta da dogmi minimi e da una ferma condanna dell’intolleranza. Questo approccio ha suscitato molte critiche, poiché sembra contraddire l’accento che Rousseau pone sulla libertà degli individui di accettare liberamente il contratto sociale. Tuttavia, è importante sottolineare che questa religione civile ha come scopo primario quello di garantire la coesione e la legittimità dello stato, trasformando gli uomini liberi e indipendenti in cittadini legati da un contratto comune.
A questo proposito, è interessante riflettere su come Rousseau, pur riconoscendo la centralità della libertà individuale e del contratto sociale, veda il bisogno di una forma di acculturazione forzata per il funzionamento di una società politica. La sua teoria politica non è completamente liberale, ma si orienta verso un equilibrio complesso tra libertà, autodeterminazione e l’obbligo di appartenere a una comunità coesa, pronta a sacrificare parte della propria libertà per il bene della collettività.
Infine, va notato che Rousseau non propone un ritorno al tipo di religione del cittadino dei pagani, che fondava la cittadinanza su un culto esclusivamente nazionale. Al contrario, egli considera impossibile una piena conciliazione tra un cosmopolitismo filosofico e religioso, che abbraccia l'intera umanità, e la politica necessaria per mantenere un’ordine sociale stabile, dato che la natura umana è, secondo lui, naturalmente asociale.
La sfida del cosmopolitismo: tra democrazia e forme politiche
Kwame Anthony Appiah, pensatore riflessivo che ha dedicato un intero libro al cosmopolitismo, ha recentemente affermato in un’intervista che il cosmopolitismo si fonda su due o tre idee fondamentali. La prima è quella di una preoccupazione universale per tutti gli esseri umani, mentre la seconda, distintiva, è l’idea che le persone abbiano il diritto di vivere secondo ideali diversi. Appiah collega anche questa visione a un atteggiamento positivo verso l’idea di "cittadinanza globale", pur sottolineando che molti cosmopoliti, essendo scettici sulla possibilità di uno stato mondiale unificato, considerano quest'idea più come una metafora che come una realtà concreta (Appiah 2010).
Cosa potrebbe imparare il cosmopolita dalle riflessioni di Allan e Manent? Prima di tutto, occorre dire l’ovvio: non imparerà nulla se riduce le teorie di Allan e Manent a movimenti di "populismo" e "nazionalismo", già identificati come nemici da contrastare. Allo stesso modo, non imparerà nulla se li respinge come irrilevanti, per via della loro apparente distanza dalle credenze "grezze" di tali movimenti. Per imparare da Allan e Manent, bisogna prima ammettere che questi movimenti rispondono a una gamma ideologica molto ampia e che i segmenti più numerosi, compresa la loro leadership, non sono necessariamente mossi da razzismo, xenofobia o il desiderio di un'autorità centralizzata. È importante superare la tentazione di usare i termini "populismo" e "nazionalismo" come spauracchi, ostacolando così una comprensione genuina della realtà politica.
In questo contesto, ciò che il cosmopolita dovrebbe apprendere è che la sfida per i democratici moderni non consiste solo nell’opporre l’eventualità di una "democrazia illiberale", ma anche nel fare i conti con un altro rischio: quello del "liberalismo antidemocratico". Questo pericolo diventa particolarmente insidioso quando le definizioni di liberalismo sono presentate come se implicassero automaticamente un favore verso la democrazia, o quando si confondono tentativi di misurare la democrazia con approcci troppo superficiali. Il cosmopolita deve imparare a non respingere a priori la possibilità che stia emergendo una tendenza antidemocratica. In Europa, ad esempio, i difensori dell’Unione Europea spesso rassicurano i critici dicendo che il "deficit di democrazia" dell’UE si risolverà da solo, ma tali rassicurazioni risultano vuote quando si osservano altri meccanismi che minano la democrazia. Le opere di Allan e Manent identificano una mentalità che confonde la libertà della democrazia liberale con l’espansione incontrollata e l’imposizione dei diritti, gestiti da organi giudiziari e altre figure non elette, che operano a livello nazionale, internazionale e sovranazionale.
Un cosmopolita prudente dovrebbe opporsi a questa mentalità, riconoscendo che è ostile al delicato equilibrio tra i diritti e il potere democratico di esprimersi. Dovrebbe cercare di dissociare la causa del cosmopolitismo e il caso per l’Unione Europea da questa visione, sebbene ciò risulti difficile fintanto che pensatori come Appiah continuano a sostenere che ogni individuo ha il diritto di vivere secondo ideali diversi, un diritto che, in pratica, può essere garantito solo da un governo centralizzato e da giudici che agiscono come governanti. La teoria politica di Manent, però, rappresenta una sfida ancora più fondamentale per il cosmopolitismo rispetto alla critica condivisa con Allan riguardo l’enfasi eccessiva sui diritti. Manent propone un approccio più strutturato al futuro dell’Unione Europea, suggerendo che un’UE più consapevole nel definire chiaramente le proprie tappe di avanzamento potrebbe meglio rispondere alle esigenze democratiche delle sue nazioni membri. Un’Unione che prometta di non espandersi oltre i suoi confini attuali per un secolo e che offra regole più chiare per l’uscita o l’ingresso di stati membri sarebbe un’UE più capace di rispettare e conquistare le maggioranze democratiche.
In una visione ancora più radicale, si potrebbe immaginare un’Unione Europea che si dedichi a un piano di unificazione, ma che offra anche opportunità democratiche per quei paesi che non sono sicuri di voler aderire a un progetto di un’unica nazione. Un’Unione simile riconoscerebbe che la legittimità democratica richiede di presentare scelte chiare e distintive ai popoli in questione, riconoscendo che la forma politica è una realtà fondamentale che limita le opzioni disponibili. Se una tale Unione Europea fosse possibile, essa potrebbe guardare indietro alla Brexit e alle riflessioni di Manent come correzioni necessarie degli errori commessi in passato in nome di una visione poco chiara della democrazia.
Tuttavia, l’applicazione più ovvia della teoria di Manent porterebbe alla conclusione che uno stato sovranazionale democratico è impossibile, anche in un contesto regionale. In questo caso, bisognerebbe tornare a rafforzare la forma nazionale, il che, in Europa, implicherebbe una riduzione dell’Unione Europea a qualcosa simile al Mercato Comune, dato l’improbabile successo nel tentativo di creare una nazione unica. E tale conclusione richiederebbe una rielaborazione dell’ideale cosmopolita, trasformandolo radicalmente. Se la democrazia moderna richiede la forma nazione, e se il termine "cittadino" è vuoto e ingannevole quando applicato a chi è governato da uno stato non democratico, allora la cittadinanza globale perde di senso. La domanda che ne risulta è se il concetto di "cittadinanza globale" possa ancora essere considerato una metafora utile.
Manent, dunque, suggerisce che coloro che, come Appiah, desiderano promuovere valori di preoccupazione universale, rispetto per la diversità culturale e complessità dell’identità individuale, insieme a pratiche legali ed economiche internazionali che complementano questi valori, potrebbero trovare che questi obiettivi siano meglio espressi con un termine diverso dal "cosmopolitismo". La sua teoria implica che "cosmopolitismo" rimarrà sempre una parola carica di contraddizioni fondamentali.
Come la Filosofia Politica Ciceroniana si Relaziona con la Cosmopoli e la Repubblica: Un'Analisi Critica
Il pensiero politico di Cicerone, uno dei principali filosofi e oratori della Roma antica, ha avuto una straordinaria influenza sulla tradizione politica occidentale, in particolare per quanto riguarda la concezione della libertà politica e del governo. Sebbene la sua filosofia fosse profondamente radicata nel contesto della Repubblica Romana, essa si inserisce anche in una discussione più ampia sulla cosmopoli, che oggi possiamo intendere come una comunità universale, oltre i confini geografici e politici. La sua visione della politica, quindi, non si limitava ai confini di Roma, ma mirava a un ideale di cittadinanza che potesse abbracciare tutte le genti, pur rimanendo legata alla specificità delle istituzioni romane.
Cicerone concepiva la Repubblica come un sistema di governo che si fondava sulla libertà e sull’autosufficienza morale dei cittadini. Il concetto di "libertas", per Cicerone, non era soltanto una condizione di non-sottomissione al potere arbitrario, ma una libertà più profonda, quella che permetteva all'individuo di partecipare alla vita politica secondo il principio del bene comune. In questo senso, la sua filosofia politica non si limitava alla sola difesa della Repubblica, ma includeva anche una riflessione sulla giustizia universale, che avrebbe potuto estendersi oltre i confini romani, toccando la dimensione cosmopolita.
Nonostante l'apparente tensione tra la sua difesa della Repubblica Romana e l'idea di un ordine cosmopolitico, Cicerone riesce a unire questi due concetti. La sua concezione di "res publica" non è semplicemente un governo che esprime il potere della città-stato, ma un sistema che, pur radicato nella tradizione romana, si apre ad una riflessione sulla cittadinanza universale. La Repubblica, per Cicerone, è un modello di governo in cui i diritti naturali e la giustizia sociale devono prevalere, ma in cui è essenziale anche il rispetto delle tradizioni e delle leggi locali.
L'influenza delle scuole filosofiche ellenistiche, in particolare dello scetticismo accademico e del pensiero stoico, è evidente in Cicerone, che spesso si rifà a questi insegnamenti per articolare il suo pensiero sulla giustizia e sul diritto naturale. La sua adesione a un’idea di giustizia universale si riflette nella sua visione della legge, che non è vista come una mera costruzione umana, ma come una riflessione della legge naturale, valida per tutte le persone in qualsiasi parte del mondo. Questo pensiero è particolarmente evidente nel suo "De re publica" e "De legibus", dove discute la natura della legge e la sua applicazione universale.
Tuttavia, la tensione tra l’ideale cosmopolita e la realtà della politica romana non è mai facilmente risolvibile. Cicerone è consapevole della difficoltà di applicare principi universali in un contesto politico segnato dalle divisioni interne e dalle lotte per il potere. Nonostante ciò, il filosofo sostiene che la politica, anche quella delle piccole città-stato come Roma, debba essere ispirata da principi che trascendono le specificità locali e che guardano al benessere comune dell'intera umanità. La visione politica ciceroniana, pur strettamente legata alla tradizione romana, non ignora l’esigenza di una riflessione universale sulla giustizia e sulla governance.
Cicerone, quindi, ci offre una prospettiva unica sul rapporto tra cittadinanza locale e cosmopolitismo. La sua riflessione sulla politica non è confinata all’analisi di una società ristretta, ma cerca di rispondere alla domanda su come le leggi e le istituzioni politiche possano conciliare il bene comune locale con una giustizia che sia estendibile all’intero orizzonte umano. L'idealismo ciceroniano, pur ancorato alle problematiche pratiche della politica romana, fornisce uno spunto per pensare il governo in termini più universali, sebbene sempre ancorato alla realtà del luogo in cui si esercita il potere.
È quindi importante, per il lettore, riconoscere che la filosofia politica di Cicerone non è un semplice riflesso della politica romana antica, ma una riflessione sul ruolo della legge, della giustizia e della libertà che trascende i confini della sua epoca. Sebbene la sua visione della Repubblica si inserisca in un contesto storico molto specifico, essa offre strumenti per pensare la politica in un mondo sempre più globalizzato, dove i principi di giustizia universale e di cittadinanza cosmopolita continuano ad essere temi rilevanti.

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