Criticare il presidente Donald J. Trump attraverso analogie con tiranni del XX e XXI secolo come Hitler, Stalin o Chavez può essere gratificante per chi le propone, ma rischia di risultare superficiale. Trump, infatti, non è mosso da un fervore ideologico volto a rimodellare l’umanità secondo un progetto utopico, né cerca di imporre soluzioni sistematiche ai problemi del mondo attraverso terrore o tirannia. Al contrario, la sua politica, anche quando difende la sovranità nazionale, si concentra su vantaggi concreti e immediati per gli Stati Uniti, più che su astratte visioni cosmopolite.
Tuttavia, la retorica trumpiana risente spesso di toni nazionalisti e semplificatori. Lo slogan “Make America Great Again”, pur efficace sul piano politico, manca di un criterio oggettivo per giudicare la grandezza, distanziandosi così dall’etica universale che ispirò i padri fondatori. Senza una cornice morale superiore, il richiamo alla grandezza americana rischia di ridursi a un tribalismo superficiale, fondato su un patriottismo immediato ma non mediato da principi universali. La restaurazione della dignità di questa forma di patriottismo tradizionale, pur spiegando parte del fascino esercitato da Trump, procede separata da un ordine morale più ampio, entro cui la bontà o grandezza delle “parti” della nazione può essere razionalmente riconosciuta e difesa.
Il richiamo alla specificità nazionale, in realtà, affonda le radici in una politica precedente all’ideologia moderna, anteriore all’Illuminismo, quando le soluzioni politiche non venivano concepite esclusivamente in termini universali. Per questa ragione, analogie più precise con Trump emergono dalla politica classica: tra i demagoghi dell’antichità, pochi sono comparabili al 45° presidente degli Stati Uniti quanto Cleone, politico ateniese del V secolo a.C.
Cleone, salito al potere nel 429 a.C., conquistò il favore del demos ateniese dopo la morte di Pericle, leader visionario della città. La sua ascesa avvenne in un momento critico: due anni dopo l’inizio della guerra del Peloponneso, Atene aveva subito un duro colpo. Cleone, attirando il sostegno popolare, scavalcò il generale Nicia, conservatore e prudente, e predominò nella politica ateniese fino alla sua morte sul campo di battaglia nel 422 a.C. La sua leadership, sebbene accompagnata da alcuni successi politici, si concluse in un fallimento, non solo per la morte prematura.
Secondo Tucidide, gli Ateniesi si allontanarono dai consigli di Pericle, scegliendo ambizioni private e interessi particolari a scapito del bene comune, condizione che condusse a una serie di errori strategici. Cleone, privo delle virtù pubbliche e della lungimiranza del suo predecessore, contribuì alla corruzione della democrazia, subordinando la gestione degli affari pubblici alle passioni della moltitudine. Aristotele conferma questa valutazione, definendo Cleone come principale responsabile della corruzione democratica attraverso le sue iniziative sconsiderate.
Il demagogo ateniese utilizzava intimidazioni contro gli avversari, ostacolava l’uso della ragione pubblica a fini comuni, perseguitava i critici e mostrava orgoglio e aggressività, mentendo e calunniando per perseguire interessi personali. La politica, secondo Cleone, era un gioco a somma zero di vincitori e vinti, dove ogni tentativo dei sudditi di ottenere libertà politica minacciava la sopravvivenza stessa di Atene.
Questo quadro storico aiuta a comprendere dinamiche analoghe nella democrazia contemporanea: l’ascesa dei demagoghi non si fonda sempre su ideologie totalitarie, ma su capacità di attrarre il consenso attraverso il richiamo a interessi immediati, emotivi e particolari, spesso a scapito del bene comune e di una visione più ampia della giustizia politica. La comprensione di questo meccanismo è essenziale per valutare criticamente il potere politico, il fascino dei leader popolari e i rischi che la democrazia corre quando il dibattito pubblico viene dominato da passioni momentanee e da interessi ristretti, anziché da virtù civiche e da una visione razionale del bene comune.
Come Confucio Guarderebbe il Potere e la Virtù dei Governanti?
Confucio sosteneva che il compito primario di un sovrano fosse quello di promuovere la virtù piuttosto che garantire la libertà individuale. La sua visione non dava al libero arbitrio personale il valore assoluto che caratterizza il liberalismo moderno, ma poneva l’accento sull’importanza dei costumi tradizionali e dei riti, noti come 礼 (lǐ), che fungevano da scuola per la virtù. La stabilità di una dinastia, nella prospettiva confuciana, era legata al 天命 (tiānmìng), il Mandato del Cielo, che sosteneva chi governava con rettitudine e ritirava il proprio favore in presenza di corruzione morale.
Come alcuni conservatori americani associano la decadenza morale di una nazione all’abbandono delle tradizioni cristiane, così Confucio vedeva la virtù come vincolo indispensabile per la legittimità politica. L’uomo piccolo o 小人 (xiǎorén) rappresentava l’antitesi del gentiluomo, o 君子 (jūnzǐ), incapace di guidare con rettitudine, dedito a interessi meschini e alla brama personale. La distinzione tra questi due archetipi era fondamentale: il gentiluomo incarna la cultura e la moralità che stabilizzano la società, mentre il piccolo uomo porta alla rovina collettiva.
Confucio manteneva una visione tradizionale dei ruoli sociali e familiari, con le donne subordinate agli uomini, ma condannava la corruzione e la licenziosità dei potenti. La sua opposizione alle pratiche di potere basate sullo sfruttamento sessuale, come dimostra la sua protesta contro il Duca di Lu, rivela un principio chiaro: la virtù di un governante si misura non dalla ricchezza o dal piacere personale, ma dalla capacità di esercitare la giustizia e la responsabilità morale.
Pur essendo socialmente conservatore, Confucio sosteneva anche che un sovrano dovesse garantire il benessere materiale dei cittadini, evitando che la povertà o l’insicurezza economica impedissero lo sviluppo della virtù. Il filosofo Mengzi osservava che solo chi ha soddisfatto i bisogni fondamentali può perseguire il bene comune. Da questa prospettiva, una politica che protegge i più vulnerabili e promuove la giustizia sociale non è contraddittoria rispetto alla tradizione, ma ne costituisce un elemento essenziale.
Il giudizio confuciano su un governante non si limita dunque a questioni di ideologia o di politica economica: riguarda soprattutto il carattere morale e la capacità di essere esempio per gli altri. Un sovrano che ostenta volgarità, crudeltà o mancanza di disciplina, come un piccolo uomo, perde il favore del Cielo e compromette la stabilità della società. La virtù, la disciplina personale e la cura del bene comune diventano così criteri imprescindibili per qualsiasi forma di leadership.
È importante comprendere che la visione confuciana del potere combina tradizione e responsabilità sociale. La legittimità di chi governa deriva non solo dall’aderenza ai riti e alle norme culturali, ma anche dalla capacità di garantire che la popolazione viva in condizioni dignitose e sicure. Il rispetto delle regole morali, dei ruoli sociali e la promozione del bene collettivo non sono separate dalla vita politica, ma ne costituiscono il fondamento.
Come può la politica kantiana resistere ai valori schmittiani?
La politica trumpista si fonda sul risentimento e sul sentimento di ingiustizia, e il grande filosofo del risentimento, l’autoproclamato smascheratore delle visioni dell’ordine mondiale e della giustizia disinteressata, è Carl Schmitt, che Trump probabilmente non ha letto, ma che può considerarsi il suo padre intellettuale. Chi ha seguito la politica americana negli ultimi anni non può evitare di concludere che una larga parte dell’elettorato statunitense sia animata da valori politici schmittiani. Nessuna società democratica può aspettarsi di sopravvivere in una situazione in cui tali valori prevalgono tra i cittadini.
La questione che Lincoln affrontò in seguito al Kansas-Nebraska Act riguarda proprio la risposta appropriata quando il popolo americano mina le abitudini e i costumi su cui la democrazia liberale si fonda, ma che essa stessa non può legiferare. La visione del mondo schmittiana, alla base della vittoria di Trump, appare meno attraente rispetto alla prospettiva kantiana che guida sia la politica di Lincoln sia quella dominante nell’era post-1945. Tuttavia, essa pone una sfida concreta alla politica kantiana: se la natura della politica è sempre conflitto tra nemici, ogni tentativo di risolverlo attraverso valori comuni superiori rischia di essere percepito come una strategia di manipolazione dell’avversario.
L’argomentazione di Schmitt secondo cui la visione di un ordine mondiale pacifico, come quella dei Quattordici Punti di Wilson, mascherava le ambizioni di conquista degli Alleati, trova un parallelo nella retorica trumpista: secondo i suoi sostenitori bianchi della classe media e operaia, gli ideali di tolleranza civile e uguaglianza dei loro avversari celano l’intento di arricchire la classe sociale più bassa, in particolare la popolazione nera, a loro danno. La vittoria di Trump solleva quindi interrogativi sulla sostenibilità degli ideali kantiani, vulnerabili a politiche fondate sul risentimento e sulla lealtà di gruppo. La democrazia herrenvolk, centrale sia nel tempo di Lincoln che nella politica contemporanea, rappresenta una sfida concreta a questi ideali: nel passato, essa contribuì a far fallire la Ricostruzione, non solo per la brutalità dei suprematisti bianchi, ma anche perché i valori di Lincoln dipendevano da un’idealizzazione irrealistica della natura umana.
Lincoln osservava, già nel suo Lyceum Address del 1838, che la stabilità della democrazia liberale dipendeva da una struttura culturale di norme e assunti condivisi, solo parzialmente consci, che la legge non poteva da sola imporre. Nel discorso di Peoria del 1854, egli criticava Stephen Douglas per aver trattato la schiavitù come una semplice scelta economica soggetta alla volontà della maggioranza, corrompendo così le basi culturali della libertà. Secondo Lincoln, solo costumi e mores, non leggi o costituzioni, permettono al principio liberale della giusta tolleranza e a quello democratico del governo popolare di coesistere senza annientarsi a vicenda.
La strategia di Lincoln era improntata alla persuasione e alla gestione prudente dei conflitti. Egli cercava di mantenere aperte possibilità di dialogo con i suoi avversari, senza cedere all’illusione di un intervento divino o alla resa ai compromessi unilaterali. Nei suoi discorsi, Lincoln riconosceva i limiti e le difficoltà pratiche, morali e sociali della liberazione degli schiavi, senza rinunciare al principio di porre ostacoli alla diffusione della schiavitù nei territori occidentali. Le concessioni che faceva erano temporanee, strategiche, finalizzate a preparare passaggi successivi, senza compromettere la visione morale a lungo termine. Non chiedeva uguaglianza immediata, ma operava per rendere la fine della schiavitù immaginabile e progressivamente realizzabile.
È importante comprendere che la politica kantiana non è ingenua; è fragile ma flessibile. La sua resilienza non risiede nella forza coercitiva, bensì nella capacità di negoziare valori condivisi attraverso la persuasione, modulando l’azione politica secondo le condizioni materiali e culturali reali. La lezione di Lincoln suggerisce che gli ideali della democrazia liberale possono sopravvivere solo se si riconosce la complessità della natura umana e si agisce con pragmatismo morale, evitando sia la resa incondizionata sia il moralismo astratto. In una società in cui i valori di risentimento e le logiche di esclusione rischiano di prevalere, il compromesso ponderato e la gradualità diventano strumenti essenziali per preservare l’integrità della democrazia stessa.
La retorica politica e l'eredità lincolniana: Trump, la nazione e la politica americana
Nel corso della storia politica degli Stati Uniti, figure come Abraham Lincoln e Donald Trump hanno suscitato un interesse particolare, non solo per le loro politiche, ma per il modo in cui utilizzano la retorica per plasmare la percezione della nazione. Sebbene le circostanze storiche che hanno accompagnato i loro mandati fossero radicalmente diverse, entrambe le figure hanno fatto appello a un forte senso di patriottismo e hanno promosso un'idea di un'America unita, al di là delle divisioni interne. Ma cosa distingue la loro retorica e quali lezioni possiamo trarre dalle loro similitudini e differenze?
La figura di Trump, purtroppo nota per il suo stile di politica spesso caotico e provocatorio, ha comunque cercato di risvegliare in molti americani un senso di nazionalismo simile a quello di Lincoln. Il suo celebre slogan "Make America Great Again" non è solo una rivisitazione di una retorica patriottica, ma un invito ad affrontare le sfide interne di una nazione che si sentiva dimenticata e tradita dalle élite politiche. Trump ha richiamato un'idea di "America prima" che affonda le radici nella tradizione americana di difesa della sovranità nazionale, all'insegna di un ritorno ai principi originari, simili a quelli invocati da Lincoln durante la sua lotta contro la schiavitù e l'espansionismo.
Ma in che modo la retorica di Lincoln si riflette nelle azioni di Trump? Entrambi i leader hanno contestato l'establishment politico del loro tempo, sebbene in modi radicalmente differenti. Lincoln, purtroppo, affrontò la divisione interna del paese attraverso la Guerra Civile, con l'obbiettivo di preservare l'Unione e abolire la schiavitù. Il suo discorso si concentrava sull'importanza della democrazia e della giustizia per tutti gli americani, superando le differenze regionali e razziali. Trump, sebbene non si confrontasse con un conflitto armato, ha avvertito una nazione altrettanto divisa, accusando il sistema politico di essere "truccato" e di non offrire una vera rappresentanza ai cittadini comuni. Entrambi, dunque, hanno rivendicato un'America più forte e coesa, anche se i mezzi e le motivazioni differivano notevolmente.
Le teorie di Aristotele sulla retorica, che stabiliscono che la politica si fonda sull'equilibrio tra logos (ragione), ethos (carattere) e pathos (emozione), ci permettono di comprendere meglio la dinamica tra Trump e Lincoln. Entrambi i presidenti hanno saputo utilizzare la retorica per raggiungere un pubblico vasto, giocando su un sentimento di identità nazionale e su un ritorno ai valori fondanti della nazione. Lincoln, ad esempio, richiamava costantemente la Dichiarazione di Indipendenza e il concetto di un "governo del popolo, per il popolo", cercando di galvanizzare il paese verso una causa superiore, quella della libertà e dell'uguaglianza. Trump, seppur con un linguaggio meno raffinato, ha cercato di evocare una simile passione per il paese, facendo leva su temi come la sovranità nazionale, l'orgoglio americano e la lotta contro l'influenza straniera.
Tuttavia, le differenze tra i due sono evidenti nella loro visione del governo e nel modo in cui hanno affrontato le questioni sociali. Lincoln era un uomo profondamente radicato nella filosofia politica classica e nella convinzione che un'America unita fosse necessaria per il benessere di tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalla razza o dall'origine. Il suo rifiuto della schiavitù non era solo una battaglia politica, ma una questione morale e universale. Trump, al contrario, ha costruito una campagna che, pur dicendo di essere per l'unità nazionale, ha diviso ulteriormente il paese su temi come l'immigrazione, il commercio e la cultura politica.
Il legame tra retorica e politica, come suggerito da Aristotele, ci indica anche che il discorso politico non si limita alla pura logica o a un appello emotivo. La politica è una questione di fiducia, di carattere, e di un rapporto complesso con la realtà sociale ed economica del momento. Per Lincoln, la retorica era un mezzo per difendere la giustizia e la moralità in un paese lacerato dalla schiavitù; per Trump, era uno strumento per sfidare un sistema che percepiva come corrotto, creando un'immagine di sé come outsider, ma anche come salvatore.
La retorica di Lincoln, dunque, può essere vista come un modello di come un leader può plasmare e unificare una nazione attraverso il discorso, sostenendo principi di giustizia e uguaglianza universale. Trump, d'altro canto, ci offre una lezione su come il linguaggio possa essere utilizzato per scuotere l'establishment e far emergere temi che riflettono un altro tipo di "grandezza americana", ma anche un tipo di divisione che potrebbe indebolire il tessuto sociale.
Sebbene sia difficile paragonare completamente le due presidenze, poiché le sfide e le risposte politiche erano enormemente differenti, entrambi i leader sono riusciti a toccare nervi sensibili nella popolazione, risvegliando un senso di identità e di missione nazionale.
In questo contesto, il lettore deve comprendere che la retorica, seppur potente, non è sempre sinonimo di verità o giustizia. La politica richiede una consapevolezza critica dei discorsi che vengono pronunciati e delle implicazioni che questi hanno nella società. Il confronto tra Lincoln e Trump mostra come la stessa tecnica retorica possa essere utilizzata per scopi diversi e con effetti altrettanto diversi, ma sempre con l'obiettivo di conquistare il cuore e la mente degli elettori.
Qual è il ruolo del carisma istituzionale rispetto al carisma personale nella politica?
Secondo Sable, la sconfitta di Hillary Clinton è meglio spiegata dalla sua incapacità di articolare i valori di un nazionalismo civico americano, come la libertà individuale, la giustizia sociale, la democrazia popolare e l'uguaglianza post-razziale. Kate Crehan, in "The Common Sense of Donald J. Trump", offre una lettura intrigante dei libri di prigionia di Gramsci per spiegare l'appeal populista di Trump. Sostiene che la comprensione gramsciana delle cause che portarono all'ascesa del fascismo negli anni '20 possa illuminare l'attuale situazione americana. Crehan si concentra sul concetto gramsciano di senso comune, un "sapere" dato per scontato in ogni comunità umana. Il senso comune è un fenomeno variegato e può essere considerato l'opposto del pensiero critico. Nella tradizione anglosassone, un appello al senso comune è visto come vantaggioso dai politici. Durante la campagna presidenziale del 2016, Trump si è presentato con successo come il candidato del senso comune, in contrasto con l'"elitista" Hillary Clinton. Utilizzando brillantemente la sua conoscenza dei media, Trump ha guadagnato la simpatia degli elettori del Tea Party. Crehan conclude il suo saggio suggerendo che potrebbe essere necessario un altro tipo di appello al senso comune per "provocare una trasformazione sociale" a favore delle classi subalterne. Solo un'alleanza tra intellettuali e "coloro che sono subordinati" permetterà la vittoria culturale del settore progressista in America. Crehan vede nel movimento Occupy Wall Street, una "massa di persone ordinarie" con lo slogan efficace "We are the 99 percent", un paradigma per i futuri tentativi di sfidare il conservatorismo populista nell'era Trump.
La discussione su Trump come leader politico non può prescindere dall'analizzare il suo carisma, che si rivela un aspetto decisivo nella sua capacità di manipolare il discorso pubblico. Secondo i curatori del libro, è necessario considerare punti di vista che difendano, o almeno spieghino in modo empatico, Trump come leader politico. Tuttavia, è altrettanto fondamentale chiarire la nostra posizione su di lui, come cittadini e studiosi. All'inizio, questa introduzione ha esposto tre possibili interpretazioni di Trump come leader politico: "furfante, fazioso o patriota". Il pensiero politico classico, con la sua enfasi sulla virtù, considerava tipicamente la tirannia come una funzione del carattere basso del tiranno. Al contrario, le interpretazioni moderne e postmoderne tendono a enfatizzare l'imposizione volitiva del tiranno, contraria al bene comune. Noi crediamo che Trump abbia un'anima tirannica, in entrambi i sensi, e che oscilli tra furfante e fazioso. Innanzitutto, non possiamo ignorare la sua intemperanza e ingiustizia. Nella "Repubblica", Socrate descrive il tiranno come una persona schiava delle sue passioni, carnali o pecuniarie, incapace di autocontrollo. Le prove di entrambi gli aspetti in Trump ci sembrano schiaccianti. Questa corruzione personale si riflette in una seconda qualità tirannica: la sua demagogia tratta tutti i fatti inconvenienti, per non parlare degli argomenti, come semplici ostacoli al soddisfacimento dei suoi appetiti per fama, ricchezza e potere.
Sebbene questa dinamica abbia antecedenti antichi, lo scetticismo postmoderno rende il problema ancora più profondo. È vero che ogni retorica ha come fine la persuasione, non la verità, ma la tirannia si verifica quando i leader agiscono senza vergogna per imporre la loro volontà. La vergogna di fronte alla verità è ciò che separa i leader decenti da quelli indecenti, che siano demagoghi antichi o ideologi moderni. Fortunatamente, gli appetiti eccessivi di Trump e la sua "volontà di potere" sembrano entrare in conflitto, cioè il suo desiderio personale di approvazione e ricchezza riduce l'efficacia della sua demagogia nichilista, indebolendo la sua capacità di corrompere l'opposizione politica. Coloro che trattano Trump come un leader decente lo fanno perché credono che difenda l'America—o meglio, una visione di essa sostenuta dalla loro parte. In una parola, noi non lo consideriamo né statista né vero patriota, ma un fazioso la cui natura principale di furfante lo rende meno pericoloso.
Certamente è più facile condannare la leadership di Trump quando si rifiutano le sue politiche. Se il trumpismo—e non solo qualche politica particolare articolata da Trump—fosse oggettivamente giusto, nel complesso, allora potremmo etichettarlo non come un ideologo fazioso, ma come un politico democratico normale impegnato in una nuova forma di retorica. Gli apologeti di Trump sembrano sostenere che egli difenda il vero interesse nazionale americano contro gravi minacce e sostenga coloro i cui diritti sono stati trascurati. Al contrario, noi crediamo che le sue politiche siano, per citare la frase di Madison, "contrarie ai diritti degli altri cittadini, o agli interessi permanenti e aggregati della comunità". Ciò nonostante, riteniamo che sia possibile distinguere tra una demagogia grossolana e una retorica decente, proprio per il fatto che il suo discorso rende fondamentalmente più difficile una discussione razionale sui temi in gioco. Trattando ogni dibattito come un conflitto tra amici e nemici, in cui il vero e il desiderabile sono giudicati in base a ciò che avanza la sua agenda, educa il popolo americano a disconoscere la ragione stessa, incoraggiando il partigianesimo cieco. Se l'arte politica è arte dell'anima, Trump insegna il vizio del nichilismo con l'esempio. La sua ascesa è quindi un effetto della corruzione civica e del suo rafforzamento.
Infine, anche se i fattori di parte hanno limitato l'opposizione interna al suo partito, possiamo trarre qualche sollievo dal fatto che le minacce più estreme di Trump contro le norme costituzionali—minacce di licenziare il procuratore speciale, sovvertire le protezioni del voto e intimidire la stampa—hanno provocato una reazione efficace e generalmente ottenuto poco. Questo ci fa pensare che la repubblica americana non sia corrotta come credono i suoi difensori più accaniti.
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