Il tema del cosiddetto "esodo" dei laureati STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) dal settore in cui si sono formati è uno degli enigmi più discussi nel contesto dell'istruzione superiore e del mercato del lavoro. Nonostante l'incremento del numero di laureati in discipline STEM, molte di queste persone non scelgono di proseguire la loro carriera in questo ambito o, peggio, abbandonano completamente il settore dopo aver accumulato esperienza lavorativa. Per comprendere il fenomeno, è necessario esaminare non solo il lato educativo ma anche le dinamiche del mercato del lavoro, che, troppo spesso, si rivelano disfunzionali nel valorizzare adeguatamente i laureati STEM.

Molti si concentrano sull'idea che la carenza di professionisti STEM sia il principale problema, ma un'analisi più approfondita rivela che il vero problema risiede nella gestione e nel trattamento dei lavoratori in questo settore da parte dei datori di lavoro, principalmente nel settore privato. Gli investimenti pubblici e privati nell'istruzione STEM, insieme alle politiche governative orientate a rafforzare la forza lavoro in questi ambiti, sono ingenti. Tuttavia, la promessa di un ritorno positivo da questi investimenti sembra sfumare quando i laureati STEM si trovano di fronte a una realtà lavorativa che non corrisponde alle aspettative di valore, crescita e soddisfazione personale.

Nonostante la crescente diffusione di immagini ideali del lavoratore STEM che lavora in ambienti innovativi, ben retribuiti e dotati di tutti i comfort (come pause pranzo gourmet, giochi in ufficio e la possibilità di lavorare da casa), la realtà di molti lavoratori STEM è ben diversa. Le condizioni di lavoro, in particolare quelle offerte dalle aziende private, non sempre rispecchiano l'importanza attribuita a questi professionisti, e ciò contribuisce notevolmente alla frustrazione e al disinteresse per il settore. Nonostante la crescita dell'economia digitale e tecnologica, il trattamento riservato ai laureati STEM da parte delle imprese è spesso disincentivante.

La questione è ancora più rilevante considerando gli enormi investimenti che la società e i governi destinano alla formazione STEM. Se i laureati non riescono a fare carriera in questo campo, gli sforzi e i fondi impiegati sono di fatto vanificati. È fondamentale che i datori di lavoro nel settore privato, così come gli investitori, siano disposti a prendere decisioni che non solo puntano al profitto immediato, ma considerano anche il benessere e la crescita dei professionisti che sono stati formati con tali investimenti. Una gestione più responsabile e lungimirante potrebbe non solo trattenere i laureati STEM nel settore, ma anche migliorare la qualità e la sostenibilità dell’intero ecosistema innovativo.

Il fenomeno che ha portato alla crescente prevalenza di laureati STEM nelle università è anche il frutto di un'importante pressione sociale ed economica. Le politiche governative, le azioni filantropiche e le strategie aziendali sono state tutte orientate a spingere sempre più studenti verso questi percorsi. Questo ha determinato una vera e propria "mania" per le discipline STEM, dove gli studenti che decidono di non intraprendere un percorso STEM, specialmente nelle università come quella della California, si trovano spesso costretti a giustificare la propria scelta. Non è raro che questi studenti si sentano in qualche modo inadeguati, come se stessero mancando di un'opportunità fondamentale per il loro futuro.

Tuttavia, dietro a questa spinta verso l’acquisizione di competenze tecniche si cela una visione distorta della realtà lavorativa. Le politiche pubbliche, infatti, tendono a concentrarsi sulla formazione degli studenti STEM, ignorando che il problema principale risiede nel trattamento di questi professionisti una volta che entrano nel mercato del lavoro. La cosiddetta "perdita" di questi lavoratori non è solo il frutto di una scarsa preparazione o di carenze nel sistema educativo, ma è anche il risultato di un ambiente di lavoro che non soddisfa le aspettative di chi, con sacrificio, ha conseguito un diploma in un campo altamente competitivo.

In definitiva, il vero problema non è solo l’aumento o la diminuzione delle iscrizioni ai corsi STEM, ma la capacità delle imprese di valorizzare questi laureati, trattandoli con il rispetto e la considerazione che meriterebbero. La "fuga" dei lavoratori STEM non è quindi solo un fallimento delle politiche educative, ma anche un fallimento nella gestione del capitale umano nel settore privato. Se davvero vogliamo evitare che gli investimenti nel settore STEM continuino a essere vanificati, è essenziale un cambiamento profondo nelle modalità con cui le aziende trattano questi professionisti.

Perché la Formazione Continua È Cruciale nel Settore STEM: L'importanza dell'aggiornamento delle competenze

Nel contesto delle professioni STEM, la formazione continua non è più un'opzione, ma una necessità imprescindibile per mantenere un vantaggio competitivo nel mercato del lavoro. Organizzazioni di spicco, come l'Accreditation Board for Engineering and Technology e la National Academy of Engineering, ribadiscono costantemente che gli ingegneri e i professionisti del settore devono abbracciare l'apprendimento permanente per non restare indietro. Con l'evolversi rapido delle tecnologie, mantenere le proprie competenze aggiornate diventa una sfida costante, particolarmente per i lavoratori autonomi, che spesso hanno accesso limitato ai programmi di formazione aziendali rispetto ai dipendenti fissi. In un ambiente professionale in continuo cambiamento, l’aggiornamento delle competenze rappresenta una delle chiavi per il successo a lungo termine.

Nel caso dei lavoratori autonomi nel settore tecnologico, come quelli di Seattle che hanno creato l’organizzazione WashTech per negoziare migliori condizioni di lavoro con giganti come Microsoft e Amazon, uno degli argomenti principali era proprio l'accesso diseguale alla formazione. I lavoratori a contratto, definiti talvolta "permatemps", avevano un accesso limitato ai programmi aziendali di aggiornamento, un vantaggio riservato ai dipendenti permanenti. Al contrario, alcuni lavoratori autonomi cercano di "colmare il divario" attraverso un approccio chiamato “stretchwork”, che consiste nell’applicare competenze acquisite su base quasi estemporanea per affrontare nuove sfide, in un contesto che spesso è ad alta pressione.

Ma che dire della motivazione alla formazione tra i professionisti STEM? I dati di sondaggi condotti da piattaforme come Indeed indicano che una percentuale elevata di lavoratori STEM considera la formazione e l’educazione continua come una delle principali caratteristiche di un buon lavoro. La ricerca di Pew, inoltre, conferma che, sebbene questa visione non sia limitata ai professionisti STEM, la percentuale tra coloro che possiedono una laurea è significativamente più alta, con una particolare enfasi tra i lavoratori IT e nel campo informatico. Secondo il sondaggio, quasi il 90% dei lavoratori tecnologici considera l'apprendimento e la formazione un aspetto fondamentale del loro percorso professionale, paragonandolo a fattori come stipendio, benefici e opportunità di avanzamento. Non sorprende, quindi, che per molti professionisti STEM l'accesso alla formazione continua venga considerato un elemento cruciale per il successo e per il mantenimento di una carriera prospera.

L'importanza della formazione continua diventa ancora più evidente quando si analizzano i dati del National Survey of College Graduates (NSCG). Per i lavoratori STEM, la formazione non è solo un beneficio iniziale, ma una pratica che persiste per gran parte della loro carriera. A partire dal momento in cui ottengono il loro titolo di studio, circa il 60% dei professionisti STEM continua a partecipare regolarmente a corsi di aggiornamento, con percentuali che non diminuiscono in modo significativo anche dopo 30 anni. La formazione, dunque, rappresenta un processo continuo, spesso senza soluzione di continuità.

Tuttavia, la rapidità del cambiamento nelle tecnologie rende la preparazione accademica, acquisita durante gli studi, meno vantaggiosa di quanto potrebbe sembrare. Le competenze apprese a scuola possono presto diventare obsolete, in un settore dove l'innovazione è il pane quotidiano. Dati come quelli del NSCG rivelano che anche chi non ha una formazione STEM iniziale, ma ha acquisito competenze attraverso percorsi alternativi, non rimane indietro rispetto a chi possiede un titolo accademico in discipline STEM. In altre parole, l’aggiornamento delle competenze non riguarda solo i laureati, ma coinvolge anche coloro che, pur provenendo da altri settori, sono riusciti a entrare nel mondo STEM grazie a corsi di aggiornamento o altre forme di formazione.

Studi condotti da esperti come John J. Horton e Prasanna Tambe confermano che il "treadmill" delle competenze, cioè la necessità di continuo aggiornamento, riguarda in egual misura tutti i professionisti STEM, a prescindere dal loro percorso educativo. La ricerca di queste autorità ha analizzato l'impatto del crollo di una tecnologia ben conosciuta: il software Flash di Adobe, abbandonato da Apple nel 2010. Questo caso ha evidenziato che, indipendentemente dal titolo di studio, tutti i professionisti del settore devono adattarsi velocemente ai cambiamenti, senza alcun vantaggio intrinseco derivante dalla formazione accademica.

Le difficoltà nel mantenere aggiornate le proprie competenze sono ancora più evidenti quando si osservano le dinamiche salariali. Studi condotti da economisti come David J. Deming e Kadeem Noray hanno mostrato che i lavori STEM hanno un "treadmill delle competenze" che si muove più velocemente rispetto ad altri settori. Sebbene i neolaureati STEM possiedano le competenze più richieste, i salari elevati che guadagnano inizialmente tendono a diminuire con il tempo, man mano che le competenze apprese diventano obsolete. A questo punto, molti professionisti STEM, soprattutto quelli più giovani e di alta capacità, tendono ad abbandonare il settore, cercando opportunità in altri ambiti meno soggetti a un rapido cambiamento tecnologico.

Il fenomeno dell’abbandono delle professioni STEM non riguarda solo i lavoratori con minori competenze. Infatti, coloro che hanno una formazione più solida e un alto potenziale intellettivo sono spesso quelli che lasciano più velocemente. Questo suggerisce che la continua pressione per aggiornare le proprie competenze può essere vista come una sorta di "stanchezza da innovazione", che colpisce in particolare i lavoratori di punta.

In sintesi, il "treadmill" delle competenze nel settore STEM non è solo un aspetto da tenere in considerazione per chi inizia la propria carriera, ma rappresenta un fattore cruciale che accompagna i professionisti per tutta la durata del loro percorso lavorativo. La formazione continua è essenziale non solo per rimanere competitivi nel mercato, ma anche per evitare che le proprie competenze diventino obsolete in un contesto lavorativo in cui l'evoluzione tecnologica è rapida e costante. Ogni professionista STEM, giovane o esperto, deve essere pronto ad adattarsi a questo ciclo incessante di apprendimento e riqualificazione.

Qual è il ruolo del capitale di rischio nell’innovazione tecnologica e come influenza lo sviluppo delle industrie pulite?

Il capitale di rischio (venture capital) rappresenta una componente essenziale nel finanziamento dell’innovazione, in particolare nelle tecnologie avanzate e nelle startup emergenti. Numerosi studi evidenziano come questo tipo di finanziamento sia cruciale per trasformare le scoperte scientifiche in applicazioni commerciali concrete, consentendo la nascita di nuovi settori industriali e accelerando la crescita economica. Tuttavia, il ruolo del capitale di rischio non è privo di limiti e criticità, soprattutto nel contesto delle tecnologie pulite (cleantech), dove si registrano cali di investimenti e una concentrazione geografica ristretta che limita la diffusione delle innovazioni.

L’innovazione radicale richiede spesso un forte sostegno pubblico nella fase iniziale, dato che molte scoperte scientifiche di base sono frutto di investimenti governativi piuttosto che privati. La combinazione di fondi pubblici e capitale privato è quindi fondamentale per superare il cosiddetto “valle della morte” dell’innovazione, il periodo in cui un progetto è troppo rischioso per attrarre investimenti commerciali ma troppo avanzato per rimanere confinato alla ricerca di base. La cooperazione tra università, enti di ricerca e imprese si dimostra altresì determinante per il trasferimento tecnologico, e la qualità di questa relazione influisce direttamente sul successo delle startup.

In ambito cleantech, le sfide sono amplificate da una serie di fattori strutturali. La necessità di lunghi cicli di sviluppo e di investimenti ingenti, uniti all’incertezza regolatoria e di mercato, frenano la capacità del capitale di rischio di operare efficacemente. Inoltre, l’accesso ai fondi si concentra spesso in pochi poli geografici, limitando la crescita di ecosistemi innovativi diffusi. Nonostante ciò, le politiche pubbliche mirate, come incentivi fiscali e investimenti diretti in ricerca e sviluppo, giocano un ruolo chiave nel sostenere queste industrie emergenti e nel promuovere una transizione energetica sostenibile.

Un elemento cruciale nella dinamica dell’innovazione è il valore dei brevetti, che rappresentano un indicatore tangibile del potenziale economico delle nuove tecnologie. Studi indicano come il sistema dei brevetti possa funzionare quasi come una “lotteria”, con risultati molto variabili in termini di successo commerciale. Ciò implica che il capitale di rischio deve saper selezionare con attenzione non solo le tecnologie più promettenti, ma anche le startup con capacità manageriali e strategie di mercato adeguate.

La grande industria farmaceutica, pur spesso criticata per le sue pratiche, illustra un modello di collaborazione e investimento nella ricerca che può essere in parte applicato anche al settore cleantech. I colossi del pharma, infatti, basano la loro forza su investimenti di lungo termine in ricerca di base e sviluppo clinico, sostenuti anche da finanziamenti pubblici. Questo modello evidenzia l’importanza di un equilibrio tra investimenti pubblici e privati per raggiungere innovazioni dirompenti e di larga scala.

Negli ultimi anni, grandi investitori privati e fondi di venture capital hanno iniziato a destinare risorse significative verso tecnologie pulite, spinti anche da una crescente pressione sociale e regolatoria. Il coinvolgimento di aziende come Amazon e di investitori influenti testimonia un cambiamento di paradigma, in cui la sostenibilità diventa un criterio centrale nelle decisioni finanziarie. Tale tendenza è supportata da politiche governative sempre più decise, come quelle promosse dall’amministrazione Biden negli Stati Uniti, che puntano a favorire la produzione interna di tecnologie energetiche pulite e a creare posti di lavoro qualificati.

La comunicazione e la gestione delle informazioni, tuttavia, rimangono sfide cruciali. Il fenomeno della disinformazione climatica, amplificato dai social media e da piattaforme come YouTube, ostacola la formazione di un’opinione pubblica consapevole e può rallentare l’adozione di soluzioni innovative. È quindi indispensabile promuovere una cultura della scienza aperta e trasparente, affinché le decisioni degli investitori e dei policy maker siano fondate su evidenze solide.

È importante comprendere che l’innovazione tecnologica non è un processo lineare né esclusivamente guidato dal mercato. Essa dipende da un complesso intreccio di fattori sociali, economici e politici che devono essere coordinati per creare condizioni favorevoli. Il capitale di rischio, pur essendo un motore vitale, deve operare in sinergia con il sostegno pubblico e con una governance attenta agli impatti sociali e ambientali. Solo così sarà possibile affrontare efficacemente le sfide globali legate al cambiamento climatico e alla sostenibilità, garantendo una crescita economica inclusiva e duratura.