Ogni riflessione politica che ambisca a comprendere la struttura del potere deve partire dalla consapevolezza che la forma perfetta dello Stato non esiste, ma tende a configurarsi come un equilibrio instabile tra forze contrapposte: la ragione e la passione, la virtù e l’interesse, la libertà e la necessità. In questo senso, la “repubblica perfettamente costituita”, che Platone evocava come ideale regolativo, non rappresenta tanto un modello da imitare quanto un criterio per misurare la distanza tra la realtà politica e la sua possibilità etica.
La filosofia, intesa come esercizio di discernimento tra apparenza e verità, si colloca al cuore di questa tensione. Dalla città di Pericle fino alla polis di Aristotele, la politica è sempre stata lo spazio in cui l’uomo, come animale razionale, cerca di accordare la propria vita individuale all’ordine comune. Ma l’esperienza storica mostra come tale ordine non nasca spontaneamente: esso è il prodotto di conflitti, di rivoluzioni e di compromessi. La povertà e la ricchezza, l’orgoglio e l’umiliazione, la fede e la ragione, si intrecciano nel corpo dello Stato come vene di una stessa sostanza vitale.
Machiavelli, nel Principe, aveva intuito che il potere non si fonda sulla moralità ma sulla prudenza, sull’intelligenza capace di leggere il tempo. La virtù del governante non consiste nel rimanere puro, ma nel comprendere quando l’agire virtuoso diventa un rischio per la sopravvivenza dello Stato. È questa la logica del realismo
La Demagogia e il Declino del Repubblicanesimo della Classe Media
La demagogia è una delle forze più insidiose che possono minare le fondamenta di un regime democratico, come ben illustrato dalle riflessioni di Aristotele. La sua analisi sulla democrazia e sui pericoli legati all’ascesa dei demagoghi non è mai stata tanto pertinente come oggi, in un contesto politico globalizzato dove le tensioni sociali e le disuguaglianze economiche sono in continua crescita. Secondo Aristotele, la demagogia, incentrata sull’istigazione alla guerra di classe, può facilmente portare a un disequilibrio che distrugge la stabilità di una città-stato, dividendo la società in due fazioni antagoniste, i poveri e i ricchi. Tuttavia, il pericolo maggiore non risiede solo nella manipolazione dei sentimenti del popolo, ma nel fatto che il popolo stesso può essere facilmente ingannato dalla retorica demagogica, disorientando così la loro comprensione delle vere esigenze politiche ed economiche.
Nella sua analisi della democrazia, Aristotele
Come la Costituzione Americana guida la grandezza nazionale e la politica contemporanea
La grandezza di una nazione non è un concetto statico, ma un equilibrio dinamico tra istituzioni, virtù civica e capacità di adattamento ai cambiamenti economici e politici globali. La riflessione di Hamilton e dei Federalist Papers mostra come gli Stati Uniti siano stati progettati per evitare la concentrazione del potere, garantendo che il presidente, pur attratto dalle menti più elevate, non possa agire come un sovrano classico. La costituzione vincola il potere presidenziale, ma gli concede sufficiente indipendenza per perseguire interessi nazionali, subordinando però il prestigio personale al servizio della Repubblica.
Il commercio e l’economia giocano un ruolo centrale nella stabilità nazionale. Publius osservava che la povertà nazionale, derivante da un commercio sottosviluppato, rappresenta un rischio estremo che nessun governo accetterebbe volontariamente. La crescita economica e lo sviluppo commerciale sono intimamente legati alla virtù civica: la disciplina, l’impegno nell’agricoltura e nel commercio, e l’abilità di accrescere le capacità individuali costituiscono la base di un popolo libero e produttivo. La Costituzione americana, attraverso clausole come quella sui brevetti, incoraggia lo sviluppo delle facoltà intellettuali e creative, riconoscendo che il progresso individuale è indissolubilmente legato al benessere collettivo.
L’esperienza contemporanea, evidenziata dai discorsi politici di Barack Obama e Donald Trump, mostra tensioni e continuità con questi principi. Obama enfatizzava la necessità di trasformazioni fondamentali della nazione per superare disuguaglianze storiche, mentre Trump poneva l’accento sull’indipendenza economica e sulla competitività globale come strumenti di protezione della grandezza nazionale. La politica internazionale, in particolare nei confronti di potenze come la Cina, riflette una preoccupazione per il ruolo della nazione nel contesto globale, richiamando l’attenzione di Hamilton sulla necessità di difendere l’economia nazionale e di sostenere uno spirito imprenditoriale robusto.
Gli studiosi classici e moderni, da Machiavelli a Locke, da Mills a Navarro, contribuiscono a un dibattito complesso sul rapporto tra virtù, economia e potere politico. Mentre alcuni sostengono che i governi debbano correggere le disuguaglianze sistemiche, altri evidenziano l’importanza di lasciare spazio alla competizione e allo sviluppo delle capacità individuali come motore della prosperità nazionale. I Federalist Papers offrono strumenti analitici per comprendere queste dinamiche: la combinazione di virtù civica, istituzioni equilibrate e sviluppo economico costituisce la pietra angolare della grandezza nazionale.
È fondamentale comprendere che la grandezza non è solo una questione di risorse o potere militare, ma una sintesi di disciplina, istituzioni giuste, cultura del merito e capacità di adattamento ai mutamenti del contesto globale. Solo la comprensione di questa interazione tra economia, politica e virtù civica permette di valutare correttamente il senso della leadership e delle scelte politiche nella storia americana e nelle sue implicazioni contemporanee.
Come ha fatto Trump a conquistare il senso comune degli americani?
La figura di Donald J. Trump, prima ancora che politico, si impone come archetipo culturale. Un “colosso dorato” che avrebbe piegato le corporazioni alla volontà del popolo, punito Ford e Carrier per aver delocalizzato il lavoro, e metaforicamente “preso a pugni la Cina”. E allo stesso tempo, prometteva di smantellare ogni regolamentazione considerata un ostacolo alla creazione di posti di lavoro. Un’ambivalenza palese, ma che si dissolveva nel potere seduttivo di una narrazione intossicante: il ritorno a un’età dell’oro perduta, evocata con forza e semplicità.
La forza del candidato Trump risiedeva nella capacità di canalizzare un grido di dolore, quello stesso “I want my country back!” che già nel 2010 animava gli aderenti del Tea Party. Era un lamento identitario, nostalgico e rabbioso, pronunciato da uomini bianchi che si sentivano traditi dal proprio Paese. Con Trump, si illudevano, sarebbe tornato tutto com’era prima: il lavoro ben pagato, la centralità del cittadino “ordinario”, il predominio bianco mai nominato ma sempre sottinteso.
La costruzione narrativa di Trump è abilmente radicata in un “senso comune” che, pur impregnato di razzismo, appariva logico e intuitivo ai suoi sostenitori. L’ossessione con la nascita di Obama ne è un esempio emblematico: una menzogna plateale – la teoria del “birtherism” – facilmente confutabile, ma efficace proprio perché faceva leva su una verità viscerale per molti americani: chi si chiama Barack Hussein Obama e ha la pelle scura non può, non deve, rappresentare “noi”. Il punto, come spiegò Bernie Sanders, non era criticare Obama – diritto democratico – ma delegittimarlo in quanto primo presidente afroamericano, perché il fatto stesso della sua elezione metteva in crisi una gerarchia razziale interiorizzata.
Questo sentimento di espropriazione si riflette in slogan come “To Hell with Diversity: Keep America American”. È un rifiuto esplicito dell’inclusione e una riaffermazione di un’identità bianca, maschile, anglosassone, minacciata da messicani spacciatori, musulmani terroristi e dalle élite liberali delle coste. La narrazione di Trump è quella di una nazione assediata da “altri”, interni ed esterni, nemici che hanno rubato il sogno americano.
Lo slogan “Make America Great Again”, benché non originale, è stato reso più crudo e divisivo da Trump rispetto alla versione reaganiana del 1980. Là dove Reagan diceva “Let’s Make America Great Again”, un invito collettivo, Trump impone un recupero aggressivo della grandezza perduta, attribuendo la colpa del declino a soggetti ben precisi: immigrati, minoranze, burocrati, intellettuali. Il problema non è il capitalismo globale e le sue contraddizioni interne, ma l’altro, il diverso, il parassita.
La sua retorica si è rivelata straordinariamente efficace perché semplice, ripetitiva e costruita sul registro emozionale. Gramsci, da una cella fascista, aveva già osservato il potere pedagogico della ripetizione nella formazione del senso comune. Trump parla con un linguaggio elementare, quasi infantile, e rifiuta le convenzioni linguistiche del discorso educato. Il risultato non è povertà espressiva, ma un’apparente autenticità. La sua voce “rozza ma sincera” sembra l’unica che dica la verità, e ogni attacco dei media mainstream o degli
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