Nel contesto dell’impeachment di Donald Trump, le dinamiche politiche interne agli Stati Uniti si mescolano con le azioni geopolitiche a livello internazionale. Il presidente, sempre più messo sotto pressione per le sue politiche interne, si trova a fronteggiare il procedimento di impeachment con una serie di azioni politiche e militari che mirano a consolidare il suo supporto tra i repubblicani e a distogliere l’attenzione pubblica dalle accuse a suo carico. A partire dal momento in cui il Senato iniziò a discutere la possibilità di un processo di impeachment, Trump si rese conto che la sua posizione non fosse completamente sicura, e ciò lo portò a cercare supporto tra i moderati del suo partito, come Susan Collins, Lisa Murkowski e il suo ex rivale Mitt Romney. La decisione di non escludere nessun repubblicano dal suo schieramento rivelò come, anche a fronte di un probabile verdetto di assoluzione, l’unità interna al partito fosse di vitale importanza.

All’interno della Casa Bianca, i consiglieri di Trump non si facevano illusioni su quale fosse la sfida maggiore: non tanto le accuse contro di lui, quanto il rischio di perdere il sostegno di alcuni senatori repubblicani chiave. Per Trump, ogni singolo voto sarebbe stato fondamentale, anche se ciò significava un compromesso con coloro che, seppur appartenenti al suo stesso partito, avevano sempre mantenuto una posizione di moderazione rispetto alle sue politiche più radicali.

La tensione politica aumentò quando Trump chiese di sospendere il processo di impeachment senza procedere con un vero e proprio processo, una proposta che non trovò il favore dei moderati. Ma, come accade frequentemente nella politica di Trump, la situazione cambiò rapidamente, e il presidente decise di richiedere un processo completo, comprendente l’ascolto di testimoni, manifestando perfino la volontà di partecipare personalmente al dibattito. Questa oscillazione tra decisioni ferme e improvvisi ripensamenti fu una costante durante tutta la sua presidenza, riflettendo il suo stile di governo impulsivo e non convenzionale.

Nel frattempo, Mitch McConnell, il leader della maggioranza al Senato, si trovava in una posizione ambigua. Pur avendo ottenuto significativi successi sotto l’amministrazione Trump, come la nomina di due giudici della Corte Suprema, McConnell non poteva ignorare l’aumento della polarizzazione all'interno del suo partito. I senatori repubblicani più ferventi, come Rand Paul e Josh Hawley, stavano guidando una visione sempre più populista che sfidava le tradizioni del partito. La possibilità che l'impeachment diventi un processo decisivamente politico, anziché giuridico, cominciò a emergere chiaramente quando McConnell dichiarò che non intendeva essere un “giurato imparziale” nel processo contro Trump, ma piuttosto un attore politico che avrebbe gestito la situazione per garantire un risultato favorevole al presidente.

Questo contesto politico si intrecciò con un altro aspetto della presidenza di Trump: la geopolitica. Durante il periodo dell’impeachment, Trump ordinò un attacco aereo che portò all’uccisione del generale iraniano Qassim Suleimani, un'azione che suscitò molte preoccupazioni. Sebbene il presidente giustificasse il suo gesto come una misura necessaria contro un pericolo imminente per gli Stati Uniti, molti videro in questa mossa una strategia per ottenere il sostegno dei repubblicani in vista del processo al Senato. In effetti, la decisione di Trump di intraprendere un'azione militare in un momento di crisi politica interna non era una novità. In passato, anche Bill Clinton aveva autorizzato attacchi militari durante il suo impeachment, cercando di spostare l'attenzione dal processo nei suoi confronti. Ma a differenza di Clinton, Trump non si preoccupò di nascondere le sue motivazioni politiche, manifestando apertamente come l'attacco a Suleimani fosse destinato a rafforzare la sua posizione tra i repubblicani.

Tuttavia, le ripercussioni di questa azione furono profonde. L’assassinio di Suleimani rischiava di innescare una risposta violenta da parte dell’Iran, potenzialmente portando gli Stati Uniti in un conflitto su vasta scala. Sebbene i membri della sua squadra di consiglieri, come il senatore Lindsey Graham, avessero approvato l'azione, il timore di un’escalation militare fu palpabile. La mossa dimostrò chiaramente come Trump utilizzasse le politiche estere, non solo per ragioni strategiche, ma anche come parte di un gioco politico interno, dove ogni mossa aveva come obiettivo ultimo l'acquisizione e il mantenimento del potere.

L'importanza di questo periodo non può essere sottovalutata. Non si trattava solo di un impeachment, ma di un momento in cui le sfide interne alla politica americana si intrecciavano con il suo ruolo nel panorama internazionale. Gli eventi mostrarono come le decisioni politiche all'interno degli Stati Uniti potessero influenzare e venire influenzate dagli sviluppi geopolitici globali. In questo contesto, l’interazione tra la politica interna e le azioni all’estero è un tema che merita attenzione, poiché offre una visione profonda sulle strategie che i leader mondiali mettono in atto per proteggere e consolidare il proprio potere.

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Come la politica estera degli Stati Uniti si è evoluta con l'ascesa di MBS e l'era Trump

L'ascesa di Mohammed bin Salman (MBS), principe ereditario dell'Arabia Saudita, ha segnato un punto di svolta nella politica internazionale, non solo per il suo ruolo centrale nel Medio Oriente, ma anche per l'influenza che ha avuto sugli Stati Uniti, in particolare durante l'amministrazione Trump. MBS, pur essendo un giovane di soli trent'anni e ancora ufficialmente vice principe ereditario, è diventato una delle figure più potenti della politica saudita, un modernizzatore autoproclamato con una visione ambiziosa per il futuro del suo paese, ma con un lato autoritario che non tollerava dissenso. La sua visione ha incluso la lotta per trasformare la società saudita, ridurre alcune delle normative religiose più oppressive e attrarre investimenti internazionali, pur mantenendo saldamente il controllo sul potere.

Nel periodo precedente all'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, le relazioni tra i sauditi e gli Emirati Arabi Uniti con l'amministrazione Obama erano diventate sempre più fredde. Obama era visto come troppo simpatetico nei confronti dei Fratelli Musulmani e troppo morbido nei confronti dell'Iran, considerato il nemico mortale dei paesi del Golfo. Con l'elezione di Trump, tuttavia, MBS e i suoi alleati hanno colto l'opportunità di avvicinarsi alla nuova amministrazione, nella speranza di un allineamento con le loro ambizioni politiche ed economiche.

Attraverso l'intermediazione di Tom Barrack, un investitore libano-americano e stretto amico di Trump, i sauditi hanno avuto accesso diretto a Jared Kushner, genero di Trump e consigliere principale. La connessione tra MBS e Kushner si è sviluppata rapidamente, con i due che hanno lavorato dietro le quinte su un'idea che nessun altro presidente americano avrebbe preso in considerazione: far fare a Trump il suo primo viaggio ufficiale all'estero in Arabia Saudita. Questa proposta avrebbe rappresentato un affronto alle tradizioni diplomatiche americane, poiché ogni presidente da Ronald Reagan in poi aveva scelto il Canada o il Messico come destinazione per il suo primo viaggio all'estero.

L'incontro diretto tra MBS e Kushner ha segnato un momento cruciale nell'evoluzione della politica estera americana. A differenza di qualsiasi altra amministrazione precedente, la gestione delle relazioni internazionali non seguiva il protocollo tradizionale; le decisioni venivano influenzate non solo dai membri ufficiali del governo, ma anche da vecchi amici, consulenti esterni, e influenti donatori politici. Il governo Trump, infatti, si è distinto per una gestione delle relazioni internazionali più casuale e imprevista, caratterizzata da una continua negoziazione tra interessi diversi, spesso lontani dalle pratiche diplomatiche consolidate.

Una delle implicazioni più rilevanti di questo nuovo approccio è emersa con l'indagine su Tom Barrack, accusato di aver condotto attività di lobbying straniero non dichiarato per modellare la politica americana nei confronti del Medio Oriente, incluse le politiche favorevoli verso la giovane leadership saudita. La gestione della politica estera da parte di Trump era sempre più caratterizzata da un "libero per tutti", in cui chiunque avesse avuto accesso alla Casa Bianca poteva influenzare direttamente le decisioni presidenziali.

Questa dinamica ha portato a risultati inaspettati. Ad esempio, uno degli episodi più emblematici di questa gestione è stato l'incontro tra Trump e Sheldon Adelson, uno degli sponsor più generosi della campagna repubblicana, che aveva forti opinioni sulla politica israeliana. Durante un incontro con Trump, Adelson ha sollecitato il trasferimento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, una questione che, nonostante fosse parte della politica ufficiale americana, era stata evitata dalle amministrazioni precedenti per le implicazioni politiche e diplomatiche. Trump, tuttavia, ha abbracciato subito l'idea, rendendola una delle sue prime azioni significative durante il mandato.

Un altro esempio significativo di questa politica estera improvvisata è stato il bombardamento aereo contro la Siria nel 2017, un'azione che ha sorpreso molti, data la posizione inizialmente isolazionista di Trump. L'attacco, una reazione a un attacco chimico da parte del regime di Bashar al-Assad, ha rappresentato un cambio di rotta radicale per un presidente che fino ad allora aveva mostrato scetticismo verso l'intervento in Medio Oriente. Questo episodio ha dimostrato come la politica estera di Trump fosse spesso guidata non solo da interessi geopolitici a lungo termine, ma anche da impulsi emotivi e dalla volontà di soddisfare immediatamente le richieste dei suoi alleati più influenti.

Questo approccio non convenzionale ha avuto un impatto notevole sulle dinamiche internazionali, alterando il modo in cui gli Stati Uniti hanno interagito con le potenze del Medio Oriente e con i loro alleati globali. Tuttavia, va sottolineato che questa gestione caotica della politica estera non è priva di conseguenze. Le decisioni improvvise e spesso non ponderate possono provocare incertezze, indebolire la posizione degli Stati Uniti nella diplomazia internazionale e rendere le alleanze meno stabili.

In definitiva, l'ascesa di MBS e l'amministrazione Trump hanno rappresentato un nuovo paradigma nella politica estera degli Stati Uniti, dove l'imprevedibilità, l'influenza di interessi esterni e la centralità di relazioni personali hanno sostituito le strutture diplomatiche tradizionali. È cruciale comprendere come questa evoluzione abbia modificato gli equilibri internazionali, influenzando non solo il Medio Oriente ma anche le future interazioni degli Stati Uniti con il resto del mondo.

La gestione della sicurezza nazionale sotto Trump: conflitti e sfide tra i leader militari

Durante i primi mesi del mandato di Donald Trump, la relazione tra i leader del Pentagono e il presidente emerse come una questione cruciale per la sicurezza nazionale. La sua condotta, descritta da alcuni come irrazionale e imprevedibile, ha messo alla prova la capacità di gestione delle figure militari chiave come James Mattis, John Dunford e H. R. McMaster, e ha rivelato la complessità delle dinamiche interne tra il comando militare e la Casa Bianca.

James Mattis, Segretario della Difesa, e John Dunford, Capo di Stato Maggiore, erano entrambi uomini d'esperienza che avevano servito in contesti complessi e avevano una visione chiara delle proprie responsabilità. Mattis, in particolare, aveva una visione ferma sui principi fondamentali della sicurezza nazionale e sulla necessità di mantenere una certa distanza tra i militari e il presidente. Nonostante la sua lealtà istituzionale, Mattis era consapevole della necessità di essere cauti nel modo in cui si relazionava con Trump. Il rispetto della gerarchia e il mantenimento di un certo distacco, come dimostrato dalla sua reazione a un'eventuale familiarità tra lui e il presidente, erano essenziali per evitare che le decisioni strategiche venissero influenzate da un'inappropriata intimità.

Questa cautela, tuttavia, non impediva i conflitti tra i membri più alti del governo. Mattis e McMaster, entrambi generali con una solida carriera militare, si trovarono spesso in disaccordo non solo con Trump ma anche tra di loro. McMaster, che aveva un forte impegno verso la questione afgana, non solo contrastò l'approccio di Trump nel voler ritirare le truppe americane, ma ebbe anche divergenze con Mattis e il Segretario di Stato Rex Tillerson su come gestire la politica estera e la sicurezza nazionale. La tensione tra Mattis e McMaster crebbe rapidamente quando McMaster pianificò un viaggio in Afghanistan nel 2017, dove intendeva proporre soluzioni che riteneva vitali per la sicurezza degli Stati Uniti. Mattis e Tillerson cercarono di ostacolare il suo piano, temendo che un cambio di rotta troppo drastico avrebbe potuto indebolire ulteriormente la posizione americana.

In parallelo, Rex Tillerson, nominato Segretario di Stato, si trovò a fronteggiare difficoltà simili con la sua gestione della politica estera, soprattutto nei confronti di McMaster, che guidava il Consiglio di Sicurezza Nazionale. Il problema non era solo un disaccordo su questioni di politica estera, ma riguardava anche una questione di gerarchia e competenza. Tillerson, abituato a un ruolo di leadership autonoma come CEO di ExxonMobil, non comprendeva appieno il funzionamento del Consiglio e la necessità di lavorare sotto il coordinamento di McMaster. La sua frustrazione portò a una progressiva disconnessione tra i membri dell’amministrazione, rendendo sempre più difficile una collaborazione efficace. Tillerson, da parte sua, cercò di esercitare un'influenza diretta sulla politica estera senza il dovuto coordinamento con McMaster, arrivando persino a ritirare alcuni funzionari del Dipartimento di Stato dal Consiglio di Sicurezza Nazionale, un passo che accentuò ulteriormente le divisioni interne.

La visione di McMaster riguardo alla situazione in Afghanistan, che sosteneva fosse necessario un maggiore impegno militare e una strategia a lungo termine, si scontrò con quella di Mattis e Tillerson, che ritenevano che un intervento americano prolungato fosse insostenibile e pericoloso. Questi disaccordi emersero pubblicamente durante il periodo di revisione della politica afgana, in cui McMaster cercava di presentare al presidente un piano che prevedeva un incremento delle truppe, ma Tillerson, rifiutandosi di appoggiare la proposta, la respinse con forza.

La tensione tra le diverse fazioni dell'amministrazione Trump evidenziò una verità fondamentale: l'incapacità di gestire le differenze interne e la mancanza di un processo decisionale coeso portarono a un contesto di conflitti incessanti. Sebbene la divisione tra Mattis, Tillerson e McMaster non fosse solo una questione di disaccordi politici, ma anche di personalità e rivalità professionali, i loro sforzi per mantenere l'ordine e la stabilità nella politica estera americana sembravano sempre più fallire. Le divergenze tra loro e la crescente frustrazione con la conduzione del presidente segnarono un periodo di costante crisi per l’amministrazione.

In questo contesto, Mattis, Tillerson e McMaster si trovarono a fronteggiare una sfida senza precedenti, quella di proteggere gli interessi americani e la sicurezza nazionale in un momento in cui la Casa Bianca sembrava in balia delle decisioni impulsive e spesso contraddittorie di Trump. La loro lotta per mantenere la stabilità e la responsabilità in un sistema che sembrava sfuggire di mano dimostrò la complessità della leadership in tempi di incertezze geopolitiche. Ma il vero conflitto, come emerso dalla storia di queste tensioni interne, non era solo tra il presidente e i suoi consiglieri, ma anche tra coloro che cercavano di preservare un certo ordine internazionale e quelli che volevano distruggerlo per un bene più immediato e egoistico.

Quando si analizza questa dinamica, è fondamentale comprendere che le sfide che si presentano non riguardano solo le strategie politiche, ma anche le personalità che le guidano. La lotta per il potere tra i leader dell'amministrazione Trump ha messo in luce le difficoltà nel mantenere l’unità e l'efficacia, nonostante le migliori intenzioni e la competenza individuale.

Perché Donald Trump non capiva la separazione tra democrazia e autoritarismo

Nel 2017, durante la sua presidenza, Donald Trump si trovò di fronte a un disaccordo radicale con i suoi generali riguardo a una delle sue richieste più emblematiche: una parata militare imponente in onore del Giorno dell'Indipendenza. L'idea, ispirata dalla visita in Francia per la festa della Bastiglia, sembrava un sogno per Trump: una grande esibizione di potenza, simile a quella di Parigi, con carri armati, aerei da combattimento e una dimostrazione della forza militare americana. Questo, secondo lui, avrebbe mostrato il suo ruolo di leader forte, un simbolo di potenza capace di impressionare il mondo intero.

I generali, tuttavia, furono contrari a questa idea. James Mattis, allora Segretario alla Difesa, la liquidò con un'osservazione brusca: "Preferirei ingoiare acido". Ma la resistenza non riguardava solo le questioni pratiche, come il costo della parata o i danni che avrebbe provocato alle strade di Washington. La vera divisione stava nella visione del mondo tra Trump e i suoi generali. Mentre i leader militari erano radicati nei principi della democrazia e nel rispetto della tradizione, Trump vedeva la politica come una competizione per dimostrare la propria forza. Non si trattava semplicemente di vincere battaglie, ma di mostrare la superiorità in modo ostentato, come in un regime autoritario.

Questa differenza di vedute emerse in modo drammatico durante una conversazione tra Trump e il suo capo di gabinetto, John Kelly, riguardo alla parata. Trump espresse chiaramente il suo disprezzo per la partecipazione di soldati feriti, come quelli presenti nella parata della Bastiglia, affermando che sarebbe stato dannoso per la sua immagine. Kelly, un veterano della Marina, rimase senza parole e rispose che i soldati feriti erano "gli eroi" e che in una società come la loro, l'unico gruppo più eroico era quello sepolto ad Arlington. Ma Trump non cambiò idea, dichiarando semplicemente che non voleva questi soldati nella parata perché "non sembrava bene".

Il disaccordo tra il presidente e i suoi generali non si limitava a questioni superficiali. Riguardava la natura stessa del potere e della democrazia. Per Trump, il potere era una manifestazione di forza fisica e visibilità. La sua concezione di leadership somigliava di più a quella di un dittatore che a quella di un presidente eletto in una democrazia. I generali, d'altra parte, erano più preoccupati per il simbolismo di una tale manifestazione, che avrebbe potuto evocare il ricordo di parate da regime e minare la percezione di una democrazia forte, dove la forza militare è al servizio della libertà e non il contrario.

Quando il generale Paul Selva, vice presidente della Joint Chiefs of Staff, spiegò a Trump la sua opinione sulla parata, sottolineando che in Portogallo, dove era cresciuto, le parate erano tipiche dei regimi dittatoriali, Trump rispose incredulo, non riuscendo a capire il parallelo. “Non è chi siamo,” gli disse Selva, cercando di fargli capire che in America i poteri militari e civili erano separati e che la libertà non si manifestava con una dimostrazione di potenza, ma con la protezione dei diritti civili.

Nonostante queste obiezioni, Trump non abbandonò l'idea. La sua insistenza sul tema della parata dimostrò non solo una visione del potere priva di comprensione dei principi democratici, ma anche una continua ricerca di legittimazione attraverso la visibilità e la forza. L’incapacità di Trump di cogliere la differenza fondamentale tra una democrazia e un regime autoritario rimase una costante durante tutto il suo mandato. La sua adesione all'idea di una parata nonostante il disaccordo dei generali mostra come la sua visione della leadership fosse orientata più verso un simbolismo di potere visibile che alla preservazione dei valori democratici.

Nel frattempo, la gestione della Casa Bianca da parte di John Kelly non fu meno complicata. La sua esperienza come Marine lo spinse a cercare di imporre ordine in un ambiente che era, secondo molti, più simile a un campo di battaglia politico che a un’istituzione governativa funzionale. Nonostante i suoi sforzi, Kelly si trovò a fare i conti con un'istituzione ancora invasa da conflitti interni, un clima di caos alimentato da un presidente che manipolava e divideva il suo staff per garantirsi maggiore controllo. Ma Kelly non aveva alcuna illusioni sulla possibilità di cambiare Trump. Il suo obiettivo principale divenne quello di gestire l'accesso alle informazioni, cercando di prevenire che il presidente fosse influenzato da informazioni errate o da consiglieri troppo disinvolti.

Il contrasto tra Trump e i suoi generali, tra l'ambizione di potere visibile e il rispetto per i principi democratici, è uno degli aspetti più inquietanti del suo mandato. La ricerca incessante di Trump di dimostrare la sua forza e la sua mancanza di comprensione per i valori che differenziano una democrazia da una dittatura è stata una costante fonte di tensione all'interno della Casa Bianca e ha avuto un impatto duraturo sulla percezione della sua leadership da parte del mondo.