La realtà politica contemporanea si caratterizza per una dinamica paradossale: i sostenitori di un leader, anche quando sono messi di fronte a evidenze che ne dimostrano la falsità, mostrano una sorprendente resilienza nel mantenere il loro supporto. Nel caso degli Stati Uniti, ciò è emerso in modo particolarmente marcato durante la presidenza di Donald Trump, il cui uso strategico delle cosiddette “backfires” – manovre di disinformazione che servono a ribaltare lo scandalo contro l’avversario – ha rappresentato un modello nuovo e significativo nella gestione delle crisi politiche.
Questa persistenza nel credere a un leader che mente non si limita a una semplice ignoranza o a una difesa acritica. Studi sperimentali indicano che i seguaci di Trump erano consapevoli dell’infondatezza delle sue affermazioni, eppure questo non ha intaccato il loro sostegno. Ciò suggerisce che la menzogna, anziché indebolire, può assumere la funzione di strumento politico efficace, soprattutto se inscritta in un quadro più ampio di advocacy transgressiva: una forma di difesa che giustifica la violazione delle norme morali in nome di un obiettivo percepito come superiore o condiviso.
L’identificazione del pubblico con il leader diventa dunque centrale: la credibilità non deriva dalla veridicità dei fatti, ma dalla percezione di autenticità. L’uso di un linguaggio diretto, a tratti volgare, contrapposto al linguaggio politicamente corretto, spesso percepito come freddo o ipocrita, conferisce un’impressione di sincerità e spontaneità che alimenta la fiducia. Così, le parole offensive o poco ortodosse, pur essendo socialmente stigmatizzate, risultano un segno di genuinità per molti elettori, rafforzando la fedeltà a prescindere dalla verità.
Il declino della fiducia nelle istituzioni tradizionali – giornali, media mainstream e altre fonti di informazione oggettiva – ha accentuato questa dinamica. L’emergere di media fortemente partigiani e di contenuti non verificati sui social network ha spostato l’ancoraggio della verità verso figure carismatiche e personalistiche, che si configurano come “oracoli” a cui affidarsi, anche contro prove oggettive. Tale fenomeno si collega a una più generale crisi delle norme politiche e democratiche, che nel tempo hanno portato all’aspettativa diffusa che i politici mentano e che questa menzogna sia un male tollerabile o addirittura necessario.
Un confronto con le crisi scandalo di presidenti precedenti, come Nixon e Reagan, rivela che solo Trump ha saputo sfruttare sistematicamente la strategia del backfire, con la consapevolezza che la verità poteva essere subordinata all’obiettivo politico. Mentre Nixon e Reagan si trovavano in contesti meno polarizzati e con media meno frammentati, Trump ha potuto contare su una divisione partigiana più accentuata e su una pluralità mediatica che amplifica la sua narrazione.
La forza della backfire risiede nel fatto che essa non tenta semplicemente di nascondere la menzogna, ma di trasformarla in una leva di potere, facendo sì che la menzogna stessa diventi parte di un progetto morale condiviso dal gruppo di riferimento. Questo sposta il terreno della politica dalla mera rappresentazione della realtà alla costruzione di narrazioni che legittimano l’azione politica al di là dei fatti. La menzogna diviene così strumento di coesione, polarizzazione e mobilitazione.
L’importanza di comprendere questo fenomeno sta nella consapevolezza che la verità, in un contesto politico frammentato e polarizzato, non è più un valore assoluto o una garanzia di consenso. Al contrario, la percezione di autenticità, l’appartenenza a una comunità ideologica e la condivisione di un fine superiore possono prevalere anche quando si sa che la realtà viene distorta. Le implicazioni per la democrazia sono profonde, perché il consenso non si basa più sulla trasparenza o sulla correttezza, ma su una dinamica emotiva e identitaria che rende difficile il confronto basato sui fatti.
Per il lettore è cruciale riconoscere come questa trasformazione non sia un fenomeno isolato, ma il risultato di una lunga erosione delle istituzioni e delle norme politiche. Comprendere la natura della “advocacy transgressiva” aiuta a interpretare il sostegno apparentemente irrazionale a leader controversi, mostrando che la politica contemporanea è sempre più un gioco di narrazioni e percezioni piuttosto che di verità oggettive. La sfida non è solo smascherare le menzogne, ma ripensare i modi in cui la società costruisce la fiducia e la legittimità nel discorso pubblico.
Qual è il vantaggio presidenziale negli scandali politici americani?
Nel sistema politico statunitense, il presidente occupa una posizione unica e strategicamente dominante rispetto ad altri attori istituzionali, soprattutto in tempi di crisi o scandalo. Questa posizione non deriva solo dal suo status formale come capo dell’esecutivo, ma anche dalla percezione pubblica, dalle risorse a sua disposizione, dalla centralità mediatica e dalla struttura stessa della presidenza come attore unitario. In un contesto politico dove il Congresso opera come corpo collettivo e spesso frammentato, la figura presidenziale appare come un “primo motore” nelle decisioni fondamentali, capace di dirigere l’attenzione, il discorso pubblico e l’agenda nazionale con rapidità e precisione.
L'episodio del Watergate del 1972, con la conversazione registrata tra Richard Nixon e il suo capo di gabinetto H. R. Haldeman, è emblematico non solo per ciò che rivela circa i tentativi iniziali di insabbiamento, ma anche per la consapevolezza interna allo Studio Ovale di un paradosso comunicativo: l’idea che l'incompetenza percepita nell'organizzazione del crimine avrebbe potuto essere usata come argomento difensivo. In altre parole, l'assurdità dell'evento stesso diventava uno scudo: “è stato fatto così male che nessuno potrebbe credere che siamo stati noi”.
Il presidente dispone di strumenti e poteri che possono essere impiegati per deviare, contenere o ridefinire la narrazione di uno scandalo. Statuti, precedenti, norme istituzionali e aspettative pubbliche convergono nell’attribuire al presidente un ruolo di guida, spesso caricato di simbolismo, rafforzando l'idea di una figura quasi onnipotente, capace di risolvere crisi o incarnare la nazione. Questa investitura simbolica può diventare un’arma a doppio taglio: se da un lato amplifica la sua autorevolezza, dall’altro intensifica la delusione e la rabbia quando emergono le sue colpe.
Nonostante ciò, il vantaggio presidenziale permane. La centralità della sua figura nei media, la capacità di dominare il ciclo delle notizie, l’accesso a informazioni privilegiate, la possibilità di impiegare strategicamente le istituzioni federali, e la facoltà di agire rapidamente senza necessità di mediazione politica lo pongono in una posizione favorevole rispetto ad altri attori coinvolti in scandali. Il danno politico di uno scandalo, per quanto grave, può essere modulato, deviato o riformulato. La complessità del sistema presidenziale consente margini di manovra significativi: la gestione della crisi può trasformarsi in una dimostrazione di leadership, la colpa può essere spostata su collaboratori, e l’opinione pubblica può essere distratta o reindirizzata verso altri temi.
È proprio per questo che l’analisi comparata degli scandali presidenziali è metodologicamente problematica. Le variabili in gioco – dalla durata del mandato, al tipo di scandalo (di potere, sessuale, finanziario), al livello di coinvolgimento diretto o indiretto del presidente – sono numerose e difficilmente comparabili, soprattutto considerando il numero limitato di casi postbellici. Mentre le analisi quantitative mostrano limiti intrinseci nel fornire generalizzazioni affidabili, l’approccio qualitativo, in particolare lo studio di casi singoli, si rivela più utile per cogliere la complessità e le dinamiche contestuali che caratterizzano ogni scandalo.
L’utilizzo della misdirection, ovvero di strategie di deviazione e distrazione, emerge come uno strumento centrale nella risposta presidenziale allo scandalo. Che si tratti di uno scontro diretto come nell’era Trump, dove lo scandalo diventa arma d’attacco e difesa in una guerra politica permanente, o di casi più ambigui come le vicende di Clinton o Nixon, la gestione dello scandalo da parte del presidente riflette non solo il suo stile personale, ma anche la natura del sistema politico e mediatico che lo circonda.
È essenziale comprendere che la risposta presidenziale a uno scandalo non è solo una questione di colpa o innocenza, ma anche un esercizio di potere comunicativo, controllo istituzionale e lettura del contesto politico. Il presidente, più di ogni altro attore, può modellare la crisi a sua immagine e tentare di ridefinirne i confini.
In questo quadro, la distinzione tra il comportamento individuale del presidente e le caratteristiche sistemiche che gli consentono di reagire allo scandalo è cruciale. La presidenza moderna non è solo una carica: è un sistema istituzionale, un fenomeno mediatico e una costruzione culturale. Analizzarla richiede non solo attenzione ai fatti, ma anche agli strumenti simbolici, alle strategie retoriche e alle dinamiche strutturali che ne definiscono la portata.
Importante, infine, è riconoscere che lo scandalo politico presidenziale non è mai un evento isolato: è il prodotto di relazioni di potere, della cultura politica dominante, delle aspettative del pubblico e della capacità del presidente di manipolare – o subire – la macchina narrativa del sistema democratico. Studiare questi scandali non serve solo a comprendere le debolezze dei singoli leader, ma anche a interrogare la natura del potere stesso nella democrazia americana contemporanea.
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