Nella sontuosa sala da ballo del Waldorf-Astoria Hotel di New York, Richard Nixon proclamò che il motto del suo mandato presidenziale sarebbe stato “Bring Us Together”. Ma dietro quella promessa di unione si nascondeva una visione politica costruita sulla paura, sul sospetto e sulla manipolazione delle divisioni più profonde della società americana. Nixon, salito al potere sfruttando il malcontento di un’America spaccata, non cercò di guarirne le ferite: vi scavò più a fondo, trasformandole in strumenti di dominio politico.

La sua presidenza incarnò la contraddizione tra retorica centrista e pratica divisiva. Da un lato, varò programmi sociali di stampo liberale e promosse iniziative diplomatiche di portata storica, come l’apertura verso la Cina. Dall’altro, consolidò un linguaggio politico fondato sull’idea di “Law and Order”, una retorica che tradiva un sottotesto di controllo e repressione verso le minoranze e i movimenti di contestazione. L’America che Nixon evocava era una nazione assediata da nemici interni: studenti ribelli, neri in rivolta, intellettuali “disfattisti”. La paranoia che egli stesso aveva alimentato negli anni Cinquanta durante il maccartismo divenne la lente attraverso cui interpretava ogni dissenso.

La “Southern Strategy” fu la chiave della sua ascesa e della sua eredità politica. Nixon comprese che il risentimento bianco, soprattutto nel Sud ma anche nelle periferie industriali del Nord, poteva trasformarsi in una nuova coalizione elettorale. La desegregazione, il welfare, i diritti civili: tutto poteva essere reinterpretato come un attacco ai valori della “maggioranza silenziosa”. Il messaggio non era mai apertamente razzista, ma si esprimeva attraverso allusioni, sguardi d’intesa, un linguaggio di “strizzate d’occhio” — come lo definirono alcuni dei suoi collaboratori.

Le nomine alla Corte Suprema rivelarono la logica sottostante. Quando Nixon propose giudici come Haynsworth e Carswell, accusati di simpatie segregazioniste, la loro sconfitta venne presentata non come una vittoria dei diritti civili ma come un atto di “discriminazione regionale” contro il Sud. L’abilità del presidente stava nel trasformare il discorso sul razzismo in un tema di vittimismo bianco, un’inversione morale che parlava direttamente alle paure e alle frustrazioni di milioni di elettori.

Persino le riforme sociali riflettevano questo calcolo. Il progetto di ristrutturazione del welfare, presentato come un atto di equità, avrebbe spostato i benefici dalle famiglie nere monoparentali a quelle bianche della classe lavoratrice. La misura fallì per l’opposizione dei politici del Sud, ma l’intento politico rimase chiaro: ampliare la “Southern Strategy” fino a includere i ceti medi del Nord, unendo i risentimenti etnici e sociali in un unico fronte di rancore.

Nixon costruì così un lessico politico dell’esclusione, dove “ordine” significava controllo sociale, “governo di legge” significava repressione del dissenso, e “unità nazionale” diventava sinonimo di omologazione. I suoi discorsi sulla criminalità, sull’integrazione forzata, sulla “maggioranza silenziosa” prepararono il terreno a una cultura politica che avrebbe dominato per decenni: la politica della paura, della divisione e del sospetto.

Ciò che rende questa stagione storica inquietante non è solo la manipolazione consapevole delle tensioni razziali, ma la capacità di tradurle in un linguaggio rispettabile, moderato, apparentemente razionale. Nixon non urlava come Wallace, non brandiva la retorica suprematista in modo esplicito; ma, come annotò uno dei suoi consiglieri, il messaggio era “chiaro e difficile da non cogliere”. La differenza tra la violenza esplicita e la violenza insinuata fu ciò che rese la sua politica tanto efficace quanto corrosiva.

È importante comprendere che la “Southern Strategy” non fu solo un’operazione elettorale, ma una trasformazione psicologica del corpo politico americano. Essa consolidò una cultura del risentimento che sopravvive ancora oggi, radicata nella convinzione che la giustizia sociale sia una forma di privilegio altrui e che la coesione nazionale richieda l’esclusione di qualcuno. Nixon non inventò il razzismo politico, ma lo elevò a principio di ingegneria elettorale, travestendolo da pragmatismo.

Come Donald Trump ha capitalizzato sulla rabbia della base repubblicana e sull'identità politica

Nel corso della sua campagna presidenziale del 2016, Donald Trump ha sfruttato un sentimento di rabbia e frustrazione crescente tra una parte significativa degli elettori repubblicani. La sua capacità di canalizzare l'indignazione verso le élite politiche, l'immigrazione e le minoranze etniche e religiose ha cambiato radicalmente il panorama politico degli Stati Uniti, facendo emergere un nuovo tipo di politica identitaria.

Trump, fin dall'inizio della sua corsa, ha rotto con la tradizione del politicamente corretto, presentandosi come un candidato in grado di dire apertamente ciò che gli altri pensavano, ma non avevano il coraggio di dire. La sua retorica era spesso cruda e provocatoria. Durante il primo dibattito repubblicano, Trump ha denigrato i suoi avversari politici, definendo Jeb Bush come "energia bassa" e Rand Paul come "brutto", mentre ha paragonato Ben Carson, noto neurochirurgo, a un molestatore di bambini. Le sue dichiarazioni non solo shockavano, ma attrassero anche un ampio seguito tra quegli elettori che si sentivano emarginati da una politica che sembrava ignorare i loro disagi.

Trump ha sfruttato il malcontento radicato contro le politiche dell'establishment repubblicano e democratico, appellandosi a chi percepiva di essere stato tradito dalla politica. Negli Stati Uniti, la sua retorica si nutriva di una crescente paura dell’immigrazione, della perdita di identità nazionale e del crescente pluralismo culturale e religioso. La sua strategia si basava su un concetto di "noi contro loro", in cui i "loro" erano i migranti, le minoranze etniche, i musulmani, e una classe dirigente che, secondo lui, li proteggeva e li favoriva. Trump ha amplificato paure irrazionali, come la convinzione che Obama fosse musulmano o che l'America fosse sull'orlo di una crisi di identità.

La sua campagna è stata una combinazione di populismo, nativismo, e nazionalismo che si mescolavano con tendenze razziste e un forte sostegno da parte della destra religiosa. Trump non ha solo amplificato paure razziali, ma le ha legittimate e promosse, rendendo l'estremismo e la xenofobia temi principali della sua offerta politica. Un esempio evidente di questa strategia è stata la sua proposta di chiudere le moschee negli Stati Uniti dopo l'attacco terroristico di Parigi del 2015, o la richiesta di sospendere completamente l'ingresso dei musulmani nel paese, un'idea che sebbene illegale, trovava un significativo supporto tra gli elettori repubblicani.

Il fatto che la sua popolarità non venisse scalfita dalle critiche dei media o dai commenti controverse era indicativo di un fenomeno più profondo. Trump non stava solo parlando con una base elettorale delusa dalla politica, ma rispondeva a un malcontento secolare che ha radici in un senso di perdita culturale e sociale. Gli elettori che lo sostenevano si sentivano ormai incapaci di riconoscersi nell'America che stava cambiando rapidamente, e Trump, con la sua retorica aggressiva, era la risposta a queste paure.

A quel punto, non era solo una questione di economia o di politica interna, ma di identità americana. In un periodo in cui il razzismo e la xenofobia venivano stigmatizzati dalla maggior parte della società, Trump ha abbracciato apertamente questi sentimenti, trasformandoli in un punto di forza. Il suo appello era semplice e diretto: lui rappresentava l'America "vera" contro chi cercava di cambiarla, contro chi cercava di rendere l'America "non più sua". La sua campagna si nutriva di una narrazione secondo cui la società americana stava per essere sopraffatta da forze esterne, e lui, in qualità di uomo d'affari outsider, era l'unico capace di proteggere l'America da tale minaccia.

Quello che è emerso chiaramente durante tutta la campagna è stato un diffuso desiderio di molti repubblicani di vedere un leader che non solo parlasse loro, ma che fosse disposto a infrangere le convenzioni politiche per raggiungere gli obiettivi più radicali. Il fatto che molte delle sue proposte fossero palesemente illegali o contrarie alla costituzione non ha impedito che la sua popolarità crescesse tra una parte della base repubblicana. Trump aveva capito come parlare alla rabbia, all'insoddisfazione e al senso di emarginazione che alcuni americani provavano nei confronti di una società che percepivano come sempre più distante dalle loro convinzioni e valori.

La sua capacità di manipolare e capitalizzare su queste emozioni e percezioni ha portato alla creazione di una realtà alternativa, alimentata da notizie false, teorie del complotto e un costante attacco alle istituzioni. La destra conservatrice, invece di combattere questa visione distorta, l'ha validata, permettendo così a Trump di diventare il volto della resistenza contro un mondo che sentiva minacciato da ogni cambiamento.

L'importanza di comprendere come Trump sia riuscito a incanalare questa rabbia risiede nel riconoscimento che il suo successo non è stato un incidente o una reazione momentanea, ma piuttosto il risultato di un profondo cambiamento nella società americana. La sua capacità di rispondere a un'America che si sentiva minacciata dal multiculturalismo, dalla globalizzazione e dalla diversità ha alimentato un ciclo di divisione che ancora oggi segna la politica americana.