Nel contesto della presidenza di Donald Trump, uno degli eventi che più ha diviso l'opinione pubblica americana è stata l'inchiesta condotta dal consulente speciale Robert Mueller. L'indagine, che si concentrava su presunti legami tra la campagna elettorale di Trump e la Russia, ha suscitato un dibattito acceso e controverso, non solo per le sue implicazioni legali, ma anche per l'effetto che ha avuto sulla percezione del pubblico riguardo alla politica e alla giustizia negli Stati Uniti.
Quando Mueller ha presentato la relazione finale, i suoi contenuti sono stati accolti con grande aspettativa. Tuttavia, la pubblicazione del rapporto, accompagnata dalla sintesi fuorviante del procuratore generale William Barr, ha portato a un distorcimento significativo del messaggio originale. Barr ha subito ribadito, ancor prima che il rapporto fosse reso pubblico, che non c'erano prove sufficienti per incriminare Trump per cospirazione o ostruzione alla giustizia, enfatizzando l'assenza di "collusione" tra il presidente e la Russia. Ma questo non rifletteva completamente la realtà dei fatti, come spiegato nel rapporto stesso di Mueller. Infatti, pur non trovando prove di una cospirazione criminale, Mueller ha riconosciuto che Trump aveva accettato l'aiuto della Russia per influenzare le elezioni, un atto che, pur non essendo illegale, ha avuto conseguenze scandalose e senza precedenti nella storia politica americana.
La pubblica difesa di Barr ha avuto il risultato di formare una narrazione che favoriva Trump, escludendo dal dibattito la gravità di alcune delle sue azioni. Nonostante il rapporto di Mueller mettesse in evidenza numerose problematiche, tra cui il tentativo di Trump di ostacolare l'indagine e l'incapacità di fornire testimonianze cruciali come la sua, il linguaggio stesso del rapporto si presentava in maniera passiva, lasciando la scena a interpretazioni ambigue. Inoltre, Mueller stesso ha evitato di difendere esplicitamente i contenuti del rapporto, facendo in modo che la sua testimonianza al Congresso il 24 luglio 2019 fosse una vera e propria delusione per i democratici, che speravano in un intervento più deciso e accusatorio da parte sua.
L'apparizione pubblica di Mueller ha messo in evidenza la sua condizione di uomo anziano, non più il protagonista della lotta contro Trump che molti si erano immaginati. La sua risposta monosillabica e la sua riluttanza a commentare direttamente le sue conclusioni hanno ridotto l'efficacia del suo intervento, trasformando quello che doveva essere un momento decisivo in un evento che ha avuto ben pochi effetti sulle sorti politiche di Trump. Piuttosto che indebolire la posizione del presidente, l'assenza di un'incriminazione chiara e l'insistenza su toni neutri hanno permesso a Trump di riappropriarsi del discorso pubblico, definendo l'inchiesta come una "farsa" e un "caccia alle streghe". Questo linguaggio di aggressiva negazione ha permeato le opinioni di molti americani, rafforzando la convinzione che l'inchiesta fosse motivata da motivazioni politiche e non da un interesse legittimo per la giustizia.
Ciò che è emerso, dunque, non è stato tanto un processo che avrebbe potuto portare all'impeachment del presidente, quanto piuttosto una realtà in cui la politica americana ha subito una distorsione narrativa. Il fallimento nell'articolare chiaramente le conclusioni legali dell'inchiesta e la scelta di non coinvolgere direttamente Trump nella testimonianza hanno reso l'indagine meno incisiva e più facilmente manipolabile da chi aveva un interesse a minimizzare le sue implicazioni.
In fondo, la questione centrale che emerge da questa vicenda è legata alla capacità di manipolare l'informazione politica in un contesto in cui la verità sembra diventare secondaria rispetto al potere e alla gestione della narrativa pubblica. L'inchiesta di Mueller, pur documentando numerosi episodi inquietanti, non ha mai prodotto l'effetto di svelare un crimine palese e conclamato, il che ha permesso a Trump di proseguire senza affrontare le sue responsabilità in modo concreto. L'incapacità di affrontare le sue azioni sotto giuramento ha rappresentato per il presidente una vittoria politica, un trionfo della sua narrativa contro l'istituzione.
L’aspetto che resta cruciale, tuttavia, è che, al di là delle speculazioni legali, l’inchiesta ha sollevato questioni fondamentali riguardanti la vulnerabilità del sistema politico americano e la sua capacità di affrontare sfide così gravi in maniera trasparente e senza interferenze politiche. L’abilità di Trump nel navigare queste acque e nella sua capacità di ottenere il controllo delle narrazioni attraverso una comunicazione aggressiva e focalizzata sullo sminuire la legittimità dell'inchiesta rappresenta un avvertimento per il futuro della politica negli Stati Uniti. L'indagine di Mueller, quindi, non solo ha avuto un impatto sulle dinamiche di potere interne, ma ha anche contribuito a cambiare per sempre il modo in cui il pubblico interpreta e reagisce agli eventi politici cruciali, complicando ulteriormente il rapporto tra giustizia e politica.
Qual è stata la reazione di Trump alla decisione di Angela Merkel di non partecipare al vertice G7?
Donald Trump esplose di rabbia quando Angela Merkel rifiutò di partecipare al vertice del G7 che il presidente statunitense aveva insistentemente voluto tenere a Washington. La cancellazione della presenza della cancelliera tedesca fu una frustrazione per Trump, che non tollerava il fatto che, a causa delle restrizioni legate alla pandemia di Covid-19, la Merkel avesse scelto di non venire. Le sue parole furono chiare: “No, non verrò. Abbiamo delle regole in Germania, abbiamo delle regole in Europa. Non voglio essere una leader che ignora le regole.” Un rifiuto secco e senza appello che indicava non solo una distanza diplomatica, ma anche un disinteresse crescente verso il presidente americano.
Nonostante i tentativi di Trump di cambiare idea a Merkel, includendo una telefonata al presidente francese Emmanuel Macron per convincere la cancelliera a partecipare, la decisione fu definitiva. Fu chiaro a Merkel che non c'era nulla da guadagnare dall'incontrare Trump di persona, vista la continua delusione e le promesse non mantenute in passato. Non solo lei, ma anche i suoi collaboratori avevano perso la speranza in una risoluzione positiva nelle sue interazioni con il presidente degli Stati Uniti.
Quando Merkel respinse definitivamente l'invito, Trump non esitò a cancellare l’intero summit del G7, definendo il gruppo degli alleati occidentali come "molto obsoleto". La sua risposta immediata fu l'invito alla Russia a rientrare nel gruppo, un passo che suscitò l’opposizione immediata dell'Europa, ma che non scalfì la determinazione di Trump. La sua vendetta non si fermò alla diplomazia. Il 2 giugno, il presidente diede istruzioni al Pentagono per ridurre drasticamente la presenza militare in Germania, con l’obiettivo di ritirare diecimila delle trentacinquemila truppe americane schierate nel paese.
La decisione di Trump, purtroppo, non passò attraverso il normale processo decisionale, con il segretario alla Difesa Mark Esper che si oppose immediatamente, ritenendo che un simile ordine fosse "irresponsabile". Nonostante ciò, la situazione si evolse in una serie di negoziazioni e azioni rapide, culminando in un piano che avrebbe ridotto la presenza americana, ma senza ritirare tutte le truppe. L’ordine del presidente segnò il culmine della sua rabbia verso la Merkel, ma anche una serie di difficoltà politiche e logistiche, visto che molte delle truppe non erano posizionate per difendere la Germania, ma per operazioni strategiche a livello globale.
La situazione si complicò ulteriormente quando, a causa di questo disaccordo, la presenza militare americana in Europa venne messa sotto una luce che rischiava di indebolire la posizione dell’America, soprattutto nei confronti della Russia. Il messaggio che Trump inviava alla comunità internazionale era chiaro: l'America non voleva più essere vista come la "pagatrice" dei costi della sicurezza europea, come lo aveva detto ripetutamente: “La Germania non paga. Non vogliamo più essere i fessi.”
Questa decisione non fu solo una rappresaglia nei confronti di Merkel, ma anche un passo verso una visione più isolazionista della politica estera americana, che avrebbe avuto ripercussioni più ampie sulla posizione geopolitica degli Stati Uniti in Europa. Con la crescente rivalità tra le grandi potenze e l’ascesa della Russia come principale sfidante, una mossa del genere rischiava di avere conseguenze destabilizzanti.
In parallelo a queste dinamiche, la figura della difesa americana veniva messa alla prova anche dalle nuove tensioni interne. Dopo la morte di George Floyd e le proteste contro il razzismo, Trump cercò di difendere il patrimonio simbolico dei confederati, opponendosi alla rimozione dei nomi di generali confederati da alcune basi militari. Una decisione che suscitò aspre critiche da parte dei suoi stessi collaboratori, come il generale Mark Milley, che si oppose apertamente, sottolineando la necessità di adattare le forze armate a una visione più inclusiva della società americana.
L’approccio di Trump alla politica estera e alla gestione della difesa non fu solo una serie di decisioni pragmatiche. Ciascuna di queste azioni sembrava far parte di un più ampio tentativo di alimentare una narrativa culturale, dove le scelte riguardanti la sicurezza e la presenza militare erano strettamente collegate alle sue ambizioni politiche interne, in vista delle elezioni.
È fondamentale comprendere che, dietro ogni mossa diplomatica e militare di Trump, c'era un continuo gioco di potere che mirava non solo a riaffermare l'autorità degli Stati Uniti nel mondo, ma anche a consolidare il supporto interno. La sua sfida a Merkel, e le sue azioni nei confronti della Nato e della Germania, vanno viste come un tentativo di rimodellare le alleanze internazionali secondo un nuovo ordine che rispecchiasse una visione molto personale degli interessi americani.
La lealtà in gioco: La crisi della transizione presidenziale e il confronto tra potere e verità
Il primo dicembre, Bill Barr, il procuratore generale degli Stati Uniti, fece una dichiarazione che non passò inosservata: "Ad oggi, non abbiamo visto frodi su scala tale da poter alterare il risultato delle elezioni", disse a Balsamo. Una dichiarazione che smontava le affermazioni infondate del presidente Donald Trump riguardo a presunti brogli elettorali. Barr sapeva perfettamente che quella frase sarebbe stata il fulcro delle notizie dei giorni successivi. Al suo arrivo alla Casa Bianca, Barr si trovò faccia a faccia con Trump, pronto a difendere la verità, ma consapevole delle ripercussioni che la sua posizione avrebbe avuto. La conversazione fu carica di tensione: Trump, visibilmente arrabbiato, lo accusò di odio personale, di mancanza di fedeltà, ma Barr rimase saldo. "Non ti odio, signor presidente," rispose, spiegando con fermezza che le accuse di frode erano del tutto infondate.
A quel punto, il presidente non sopportò la verità che veniva messa in discussione. Barr, come altri membri dell'amministrazione, sapeva che Trump si stava affidando a un gruppo di avvocati incapaci di fornire argomentazioni legali valide. Il presidente, tuttavia, non sopportava l'idea che qualcuno, anche all'interno della sua cerchia, non fosse disposto a condividere le sue stesse convinzioni. Questo creò un clima di crescente ostilità, e Barr, pur essendo disposto a dimettersi, decise di non farlo subito. La sua posizione era chiara: non avrebbe ceduto alla pressione.
Nel frattempo, altre figure di spicco, come Mike Pompeo e Mark Milley, navigavano tra l'estremo zelo politico e il realismo della situazione. Pompeo, pur continuando a sostenere pubblicamente Trump, condivideva le preoccupazioni di Milley riguardo alla stabilità del governo. In privato, entrambi erano consapevoli che Trump stava compiendo un “pericoloso passo” verso un autoritarismo sempre più incontrollato. Milley, che si trovava a gestire la situazione militare, aveva iniziato a mettere in atto misure di salvaguardia per garantire una transizione pacifica del potere, nonostante le crescenti tensioni. Nonostante il suo impegno per il mantenimento della stabilità, Milley era consapevole che l’amministrazione era ormai in una spirale fuori controllo, dove il potere politico stava cercando di sopraffare la verità dei fatti.
Anche se il contesto pubblico e privato di Pompeo sembrava inconciliabile, il suo comportamento rivelava una tensione tra il mantenimento del potere e il dovere di garantire che l'ordine costituzionale fosse rispettato. La sua posizione di equilibrio, tra l'agire come sostenitore di Trump e il mantenere la sua posizione nella speranza di evitare un esito catastrofico, era condivisa da molti altri all'interno della Casa Bianca. Ma alla fine, la separazione tra verità e potere divenne inevitabile, e la frattura tra il presidente e i suoi consiglieri più fedeli si amplificò.
Un aspetto cruciale in questo scenario è la distinzione tra le dinamiche interne alla Casa Bianca e la percezione pubblica degli eventi. Mentre Trump spingeva per continuare a sostenere le sue teorie del complotto, la maggior parte dei suoi consiglieri era ormai consapevole della fine politica del suo mandato. Tuttavia, il timore di una reazione violenta e imprevedibile lo teneva al centro di un sistema che non era più in grado di funzionare correttamente.
Questo periodo di transizione, carico di incertezze e di conflitti interni, ha messo in luce la fragilità delle istituzioni democratiche di fronte a un leader che non era disposto ad accettare la realtà della sconfitta. Il contrasto tra le parole e le azioni di Pompeo, Barr, Milley e altri attori chiave rifletteva un paese diviso, dove la lealtà politica e la difesa delle istituzioni si intrecciavano in modi complessi e spesso contraddittori.
Quello che è fondamentale comprendere è che, sebbene la verità fosse chiara per molti, le conseguenze di mantenerla e di affrontare il rifiuto della realtà da parte di un presidente in carica erano ben più gravi di quanto la maggior parte degli osservatori potesse immaginare. La lealtà, in questi frangenti, divenne una questione non solo politica ma esistenziale. E in un contesto del genere, la resistenza alla verità può avere implicazioni ben più ampie di quelle che appaiono in superficie, minando non solo la fiducia nelle istituzioni ma anche il principio stesso di giustizia.
L'Intervento Militare nella Democrazia Americana: La Strada Verso il 6 Gennaio
Il risultato delle elezioni, ormai certificato, appariva come l'ultimo ostacolo da superare per mantenere il potere, e i consiglieri più vicini al presidente Trump suggerivano un'azione decisiva. La via più diretta, a loro avviso, sarebbe stata quella di ricorrere alle forze armate. Flynn, ex consigliere per la sicurezza nazionale, propose di inviare la Guardia Nazionale, i marescialli federali, o una combinazione di entrambi, in sei contee decisive, al fine di sequestrare le schede elettorali, ricontarle in diretta televisiva e, qualora fossero emerse irregolarità, indire nuove elezioni prima del 20 gennaio. Anche se Flynn non utilizzò esplicitamente il termine "legge marziale", come aveva fatto il giorno precedente in una trasmissione di Newsmax, la proposta che avanzava rappresentava un intervento militare senza precedenti nel processo democratico degli Stati Uniti.
In questo scenario, Flynn avrebbe dovuto svolgere il ruolo di "maresciallo di campo" per Trump, supervisore dell’operazione per ribaltare i risultati delle elezioni. Powell, avvocato di Trump, sarebbe stata nominata procuratore speciale per condurre un'indagine governativa volta a dimostrare l'esistenza di una cospirazione internazionale che avrebbe sottratto la vittoria a Trump. Secondo Powell, le macchine di voto Dominion, manipolate da forze straniere, avrebbero rubato le elezioni. Il complotto avrebbe coinvolto vari paesi, tra cui Venezuela, Iran e Cina. Tuttavia, un punto fondamentale era che Rudy Giuliani, pur essendo il legale di Trump, non venne invitato a partecipare a questa riunione: le sue teorie, pur bizzarre, erano ritenute troppo timide rispetto alle ipotesi di Powell, che aveva già avanzato la possibilità di un'intrusione da parte di potenze straniere.
Il piano si concretizzava in un ordine esecutivo che Trump avrebbe dovuto firmare. L’ordine, datato 16 dicembre, citava l’"audit" di Antrim County e parlava di “prove di interferenze straniere e internazionali”. Esso prevedeva la nomina di un procuratore speciale, con Powell come probabile destinataria del ruolo, e l’autorizzazione al segretario alla Difesa di sequestrare, raccogliere, conservare e analizzare le macchine per il voto, con la stesura di una relazione finale dopo sessanta giorni. La proposta giunse anche al Dipartimento della Sicurezza Nazionale, che Trump aveva già cercato di coinvolgere. Tuttavia, il segretario ad interim Chad Wolf ribadì di non avere alcuna autorità per eseguire tali operazioni.
Nel corso della discussione, alcuni membri dello staff legale di Trump obiettarono fermamente. Eric Herschmann, uno degli avvocati, metteva in dubbio le affermazioni di Powell, accusandola di promuovere teorie infondate, mentre Flynn, pronto a difendere la causa, si scagliò contro Herschmann, urlando che era un "codardo" e non stava combattendo per Trump. La tensione nell'Ufficio Ovale crebbe al punto che il presidente, visibilmente turbato, arrivò a dichiarare che la riunione che stava vivendo probabilmente non aveva precedenti nella storia degli Stati Uniti. Infatti, Trump stesso sembrava comprendere che il percorso intrapreso si stava allontanando sempre di più dalle consuetudini democratiche americane.
Il clima di disperazione e confusione culminò quando, dopo la discussione, Trump, incapace di dormire, fece un ultimo tentativo per riprendere il controllo della situazione, convinto che il 6 gennaio fosse la sua ultima possibilità per mantenere il potere. A quell'ora, inviò un messaggio su Twitter esortando i suoi sostenitori a partecipare a una grande protesta a Washington, annunciando che sarebbe stato "wild", cioè "sconvolgente". Questo tweet, lanciato a un’ora insolita della notte, venne interpretato come un invito all’insurrezione, suscitando la mobilitazione di gruppi estremisti di destra come i Proud Boys e gli Oath Keepers. Il messaggio veniva letto come un chiaro invito a prendere d’assalto il Campidoglio, e questo segnò l'inizio di una spirale di violenza che culminò nei fatti del 6 gennaio.
Trump, in quel periodo, flirtava apertamente con gruppi radicali come QAnon, che lo considerava il "salvatore" chiamato a distruggere una presunta cospirazione mondiale di pedofili satanisti. Questo gruppo aveva già visto in Trump un eroe, e durante la campagna del 2020, il presidente aveva sostenuto apertamente candidati affiliati a QAnon, come Marjorie Taylor Greene. Nonostante le domande dirette, Trump si era rifiutato di prendere le distanze dal movimento, affermando di non saperne molto, ma che erano “grandi sostenitori” di lui.
L’analisi di questi eventi evidenzia come l'equilibrio delle istituzioni americane sia stato messo a rischio da un tentativo di sovvertire i risultati elettorali, sfruttando la manipolazione delle percezioni pubbliche e la mobilitazione di gruppi estremisti. Il coinvolgimento delle forze armate, il ricorso alla violenza e l’incitamento a un’insurrezione segnano un punto di rottura nelle normali dinamiche politiche, ponendo interrogativi cruciali sul futuro della democrazia negli Stati Uniti. Ciò che accadde il 6 gennaio è un monito sulle fragilità dei sistemi democratici, e dimostra come la manipolazione delle emozioni e la creazione di nemici immaginari possano spingere una nazione a un passo dal collasso istituzionale.
Come la Casa Bianca ha gestito la crisi: la politica tra caos e opportunismo
Donald Trump ha sempre avuto un modo personale di gestire la politica, spesso improntato all'improvvisazione e alla ricerca di soluzioni rapide a problemi complessi. Questo approccio ha avuto conseguenze significative durante il suo mandato, specialmente quando si è trattato di gestire le indagini sul Russiagate e le tensioni interne alla sua amministrazione. La dinamica tra Trump e i suoi collaboratori è stata caratterizzata da una continua alternanza tra decisioni impulsive e calcoli politici, spesso minando la stabilità stessa della sua presidenza.
Una delle situazioni più emblematiche fu la gestione della posizione di direttore dell'FBI, dopo la rimozione di James Comey. Trump sembrava determinato a trovare una persona che potesse controllare l'indagine sul Russiagate, ma la sua scelta di Joseph Lieberman come possibile successore di Comey non fu mai realizzata. Lieberman, durante un incontro con Trump, si trovò a dover affrontare un presidente visibilmente irritato, che alternava il suo tentativo di convincerlo a prendere il posto con lamentele feroci sull'inchiesta di Mueller e la gestione del suo procuratore generale, Jeff Sessions. Trump, esasperato, si fece dettare una dichiarazione contro Sessions, per poi rivederla dopo aver visto il tono eccessivamente aspro. Quando Lieberman si trovò a riflettere sulla possibilità di accettare il ruolo, un colpo di scena lo liberò dalla decisione: Trump aveva già incaricato Marc Kasowitz, il suo avvocato, di difenderlo nelle indagini, creando un conflitto di interessi che rendeva impossibile l’assunzione del nuovo direttore dell'FBI.
Nel frattempo, Jeff Sessions si trovava nel suo ufficio, incapace di decidere come rispondere alle richieste di Trump di rassegnare le dimissioni. La sua situazione rifletteva l'incertezza e la pressione costante che caratterizzavano la Casa Bianca. Nonostante la sua posizione di potere, Sessions sembrava essersi trovato in un vicolo cieco, e la sua risoluzione di scrivere una lettera di dimissioni che lasciasse la scelta a Trump, evidenziava la sua sottomissione alle dinamiche di potere della Casa Bianca. Quando Trump conservò la lettera, creando una sorta di "collare elettrico" per mantenere Sessions sotto controllo, si rivelò la natura della sua gestione del potere: un continuo gioco di manipolazione e minacce, dove il controllo psicologico era tanto importante quanto quello politico.
Anche altre figure, come Jared Kushner, si trovavano ad affrontare difficoltà simili, non comprendendo appieno la gravità della situazione politica. Kushner, infatti, credeva che la nomina di Mueller come procuratore speciale avesse risolto i problemi di Trump, convinto che l'inchiesta si sarebbe trasferita nei tribunali, allontanando i senatori dalle indagini. Mike Dubke, un veterano di Washington, non nascondeva la sua incredulità di fronte alla naivete del genero del presidente, mettendolo in guardia su quello che l'inchiesta avrebbe comportato. Il consiglio di Conway, un avvocato di Washington che aveva visto gli sviluppi di inchieste simili, suggeriva a Trump di seguire la strategia del "rope-a-dope", ovvero concentrarsi sull'essere presidente e lasciare che fossero gli avvocati a gestire la difesa legale. Ma Trump, sempre desideroso di essere al centro dell'attenzione, rifiutò quel consiglio, continuando a cercare soluzioni più aggressive.
Il comportamento di Trump durante questo periodo rivelava la sua continua ricerca di alleati e figure legali disposte a difenderlo, spesso con metodi controversi. La sua preferenza per avvocati di fama, come Brendan Sullivan e Theodore Olson, era motivata dal desiderio di avere figure legali di alto profilo al suo fianco. Tuttavia, la crescente difficoltà di ottenere supporto da parte degli avvocati più prestigiosi dimostrava quanto fosse deteriorato il suo rapporto con il sistema legale e con le figure politiche di Washington. Persino George Conway, che inizialmente aveva accettato di scrivere una memoria per il presidente, si ritirò dall'incarico, comprendendo l'entità della difficoltà politica in cui Trump si trovava.
Il conflitto e la mancanza di fiducia reciproca tra i membri dell’amministrazione di Trump divennero evidenti anche nelle sue relazioni personali. Una di queste dinamiche emerse durante il matrimonio di Steven Mnuchin, quando si scoprì che alcuni parenti del segretario al Tesoro disprezzavano apertamente Trump, accusandolo di essere un narcisista volgare. Questo episodio sottolineò la crescente frattura tra il presidente e molte delle figure chiave del suo stesso entourage, che non solo mettevano in discussione la sua leadership politica, ma anche la sua personalità.
Nonostante tutto, Trump riuscì a mantenere un controllo quasi totale sulla sua amministrazione, ma questo non era senza conseguenze. La sua continua manipolazione dei suoi alleati, la gestione autoritaria dei suoi collaboratori e la sua sfida costante contro le indagini legali, segnano un’era di incertezze e conflitti. La politica di Trump, così come la sua personalità e il suo approccio alla governance, influenzarono profondamente il panorama politico degli Stati Uniti, lasciando una scia di divisione che continua a caratterizzare il dibattito pubblico.
Al di là della pura narrazione degli eventi, è fondamentale comprendere come queste dinamiche abbiano inciso sulla percezione della politica americana a livello globale. La gestione del potere di Trump, dominata da personalismi e tattiche di controllo, ha lasciato un’eredità complessa per il futuro della politica statunitense. La sua volontà di governare non solo attraverso la legge ma anche con una gestione psicologica delle sue relazioni interne ha avuto un impatto devastante sulle strutture politiche tradizionali, creando discontinuità e diffidenza tra le varie istituzioni.
Prevenzione degli incidenti stradali tra i bambini: intervento alla riunione dei genitori, marzo 2015
Programma di Chimica: Piano Didattico Annuale con Attività Pratiche e Analisi Qualitativa
Esempi e descrizioni delle prove di valutazione federale (VPR) per le classi 11 in biologia, geografia, storia, chimica e fisica
Caratteristiche generali dei Platelminti: struttura, riproduzione e adattamenti al parassitismo

Deutsch
Francais
Nederlands
Svenska
Norsk
Dansk
Suomi
Espanol
Italiano
Portugues
Magyar
Polski
Cestina
Русский