L’intervista iniziò con leggerezza, una chiacchierata distratta tra un registratore tascabile e una colazione americana. Smog, traffico, raffinerie: “Cosa non c’è da amare?” disse lui, mentre lei addentava un rotolo alla cannella grande quanto uno stadio. Ma bastarono poche domande sul passato per dischiudere un mondo incerto e scivoloso, in cui i confini tra mito e realtà sembravano sovrapporsi in modo disarmante. Le Sette Città di Cibola – città d’oro, illusioni perdute, miraggi o realtà inafferrabili?
Lei era certa: Coronado era arrivato in Colorado, nonostante le fonti ufficiali lo tracciassero altrove – in Kansas, New Mexico, Oklahoma. “Era qui,” disse con fermezza, battendo il dito sul tavolo. Ma “qui” poteva significare molte cose: il Colorado, certo, ma anche semplicemente il bar in cui si trovavano.
Si parlava di El Turco – lo schiavo indigeno che aveva guidato Coronado verso promesse d’oro e città leggendarie. La sua storia, frammentaria e deformata dal tempo, si riempiva di vuoti e ambiguità. Secondo lei, El Turco aveva portato Coronado fino a Cibola, ma Coronado non l’aveva trovata. L’aveva poi fatto uccidere, accusandolo di aver mentito. Eppure lei affermava con naturalezza che Cibola esisteva. “Ma allora perché non l’ha vista?” chiese il giornalista. “Perché non era lì,” rispose lei. Non era un miraggio, perché un miraggio non esiste. Le città erano reali, ma non c’erano. Nessuna contraddizione le sembrava insormontabile.
Ciò che traspariva dal racconto non era tanto la ricerca storica, quanto una diversa percezione della realtà. L’assurdo logico si trasfigurava in logica interna, in una visione del mondo che rifiuta il binarismo tra essere e non essere. Le città d’oro non erano “invisibili”, non “nascoste”, semplicemente non erano là. Eppure esistevano. “Vuoi vederle?” chiese lei. “Ti ci porto domani mattina. Alle sei.”
Denver, con la sua geografia dilatata e le sue strade senza fine, diventava il teatro di un racconto sospeso tra ordinario e fantastico. Il giornalista, ormai intrappolato in una spirale di eventi senza coerenza apparente, si trovava costretto a inseguire un’illusione dichiaratamente reale. Come se la realtà avesse smesso di funzionare secondo i parametri convenzionali.
Le udienze pubbliche sulla costruzione dei grattacieli – un evento ben più concreto e misurabile – si perdevano anch’esse in digressioni insensate: vetri riflettenti, decentramento urbano, aeroporti inutili. Anche lì, il discorso sembrava deragliare da ogni struttura logica, riflettendo una collettiva incapacità di ancorarsi a ciò che è. Persino l’oroscopo, nella sua banalità stampata, sembrava commentare l’assurdità del giorno: “Ogni incarico oggi si rivelerà diverso da quanto ti aspettavi.”
Nessun articolo su quando osservare le città perdute dell’oro. Solo la neve – quindici pollici caduti durante la notte – e la determinazione inspiegabile del giornalista a presentarsi all’appuntamento. Lei non era la discendente di El Turco, e probabilmente nessuna parte del suo racconto era verificabile. Ma qualcosa in quella voce, in quella sicurezza illogica, lo spingeva a seguirla. A credere – non tanto alle città d’oro – ma alla possibilità che esistano cose che non sono dove dovrebbero essere, e tuttavia ci sono.
È essenziale comprendere che la leggenda delle Sette Città di Cibola non riguarda solo la sete di ricchezza e conquista, ma riflette una tensione più profonda tra ciò che si cerca e ciò che si è disposti a vedere. Il fallimento di Coronado non fu solo geografico, ma epistemologico: cercava città d’oro visibili, tangibili, mappabili – e quindi non poté riconoscere ciò che non coincideva con la sua idea di esistenza. L’intera narrazione si muove su una sottile linea tra il reale e il percepito, dove la conoscenza non deriva da prove, ma da una forma più primitiva di adesione: quella al racconto stesso, alla possibilità che il mondo sia più vasto – e più ambiguo – di quanto si voglia credere.
La Resistenza dell'Umanità: Sopravvivenza e Evoluzione in un Mondo in Continuo Cambiamento
A soli quattro anni, aveva assistito all'arrivo di una luce più potente sulla Terra, una luce che aveva cambiato il destino del pianeta. Dopo il periodo di Jaal, il ghiaccio tornò più volte, ritirandosi finalmente per sempre. Fu un periodo di grande trasformazione. Le terre un tempo coperte da ghiacci si liberarono delle tracce lasciate da questa massa gelata: discendenti di gatti, roditori e uccelli, cresciuti forti e sicuri di sé grazie alla temporanea assenza dell'umanità. Poi gli esseri umani tornarono, cacciarono e coltivarono, costruirono complessi sistemi di commercio e cultura, e svilupparono tecnologie raffinate, fatte di legno, pietra e ossa. Le profondità del mare, lontane dal raggio d'azione dell'uomo, erano però teatro di un continuo turbinio evolutivo. Eppure, nonostante il passare dei millenni, gli esseri umani rimasero invariati, come se il tempo non avesse avuto presa su di loro. Per trentamilioni di anni, quel pomeriggio equabile si prolungò, imperturbato.
I genitori di Pala gli cantavano canzoni antichissime. Ma poi arrivò l'incursione di una cometa, un altro impatto catastrofico che avrebbe segnato un cambiamento irreversibile. Circa cento milioni di anni dopo l'evento che aveva cancellato l'estate dei dinosauri, la Terra sarebbe stata colpita di nuovo da un potente corpo celeste. Pala e i suoi genitori, rifugiatisi fortuitamente in una montagna piena di caverne, sopravvissero ai fuochi, alla pioggia di rocce fuse e al lungo inverno oscuro. Come in passato, l'ingegno e l'adattabilità degli esseri umani, uniti alla loro capacità di nutrirsi di praticamente qualsiasi cosa, consentirono loro di prosperare nuovamente su un mondo distrutto.
Un tempo si pensava che la sopravvivenza dell'umanità dipendesse dalla colonizzazione di altri mondi, dato che la Terra sarebbe sempre stata vulnerabile a disastri simili. Ma gli esseri umani non si erano mai spinti troppo lontano da casa: lo spazio, silenzioso e vuoto, non offriva nulla di interessante. E benché la popolazione umana non fosse mai stata più numerosa di pochi milioni, la loro diffusione e capacità di adattamento rendevano quasi impossibile l'annientamento totale. Era facile uccidere molte persone, ma molto più difficile ucciderle tutte.
Nel corso degli anni, l'umanità continuò a sopravvivere, evolvendosi e adattandosi, anche se lentamente. Quando Pala divenne l'ultimo essere umano a ricordare il mondo che precedeva il grande incendio, la sua morte segnò la fine di una memoria lunga trenta milioni di anni. La sua morte, seppur simbolica, rappresentò l'ineluttabile fine di un ciclo storico. Il suo corpo fu abbandonato su un altopiano, mentre la caccia riprendeva, per completare ciò che era stato iniziato.
La figura di Urlu emerge in questo contesto di resilienza. Sopravvissuta al grande incendio, si nutre di serpenti, scorpioni e altre creature resistenti, una dieta che riflette le condizioni estreme in cui si trova a vivere. In una notte di disperazione, quando il destino sembra segnato, Urlu, ormai priva della sua verginità, trova un'inaspettata libertà nella sua scelta. La sua esistenza è un testamento alla capacità della vita di adattarsi alle circostanze più dure.
Nel frattempo, lontano da quel paesaggio di desolazione, una catamarano solca le acque di un mare calmo, portando con sé una popolazione di uomini e donne abituati alla vita sulle zattere. Cale, un ragazzo di undici anni, è il primo della sua gente a mettere piede su quella che pensavano fosse un'isola, ma che presto scopriranno essere un intero continente. Questo mondo è stato rimodellato dalla lenta danza dei continenti e dal riscaldamento incessante del sole. Anche se i cambiamenti geografici sono enormi, le persone sono rimaste in gran parte uguali a quelle dei tempi passati. Cale, come tutti i suoi compagni, è destinato a confrontarsi con un mondo che, pur essendo nuovo, è in qualche modo anche molto familiare.
La scoperta di una Terra rinnovata, come quella che Cale e la sua gente incontrano, è simbolica. Si tratta di un nuovo inizio, ma anche di un ritorno alle origini. Le vecchie cicatrici lasciate dai disastri del passato sono ancora visibili, ma la vita continua a fiorire in modi impensabili. Le foreste tropicali, con la loro vegetazione lussureggiante, nascondono tracce di un mondo preistorico, segni del passato che sfidano la memoria umana. Cale si trova ora a camminare su un terreno che, pur essendo ancora in gran parte sconosciuto, è destinato a diventare la sua nuova casa.
La resilienza dell'umanità di fronte alle catastrofi è un tema che pervade tutta questa narrazione. Non importa quante volte la Terra venga scossa da eventi cataclismici, la capacità dell'uomo di adattarsi, di sopravvivere e, infine, di ricostruire è ciò che alla fine prevale. La forza della vita, la sua capacità di rinnovarsi, è l'elemento che fa la differenza, non solo per gli esseri umani, ma per tutte le forme di vita che abitano questo mondo travagliato.
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