Era difficile credere che fossimo davvero lì, fuori dalla navetta, in un luogo che non somigliava a nulla che avessimo mai visto. Il freddo, l’aria rarefatta, e quel silenzio opprimente che ti penetrava nelle ossa. Ma qui non c’erano film, né effetti speciali, solo la realtà di un ambiente che sfidava ogni legge della natura come la conoscevamo. Il suono della porta dell’airlock che si apriva sembrava l’unica cosa viva, un rumore sordo che risuonava nel silenzio del vuoto. E poi, la paura. Non sapevamo cosa aspettarci.
Siamo usciti nell’aria, ancora densa di quella sensazione irreale. La luce era pallida, di un turchese che sembrava assorbirsi nel vuoto circostante. A terra, qualcosa che somigliava a neve cadeva, poco e distante, quasi sospesa, come se l'aria fosse troppo rarefatta per farla scendere velocemente. La nostra realtà era molto lontana da quella che avevamo visto nei film o nei documentari. Questo non era un paesaggio alieno come altri che avevamo visto in immagini straordinarie: qui non c’erano città da esplorare, né navette spaziali in attesa di essere rianimate. Solo un paesaggio desolato, il bianco e il nero in contrasto, un mondo che sembrava congelato nel tempo.
“Guarda!” disse Paul, i suoi occhi brillavano dietro la visiera del casco. “Un geyser di azoto, come su Tritone!” Il suo entusiasmo era palpabile, ma non riuscivo a ignorare quella sensazione di vuoto, di qualcosa che non riuscivo a comprendere. Non avevamo mai parlato davvero della solitudine, della paura di non sapere se saremmo riusciti a sopravvivere a quella condizione.
Non avevamo fatto i conti con la perdita. Non solo quella fisica, ma anche quella psicologica. Il nostro posto nel mondo, i legami che avevamo con la Terra, sembravano lontanissimi, come se fossimo diventati esseri di un altro tempo. Oggi, però, la realtà non perdonava. Quel paesaggio non dava spazio all’emozione. Era solo una lotta per la sopravvivenza, giorno dopo giorno.
Abbiamo camminato su terreno sconosciuto, provando a capire cosa fosse successo, a cercare indizi nel caos che ci circondava. L'idea che la nostra navetta fosse solo un pezzo di metallo abbandonato in mezzo alla neve impallidiva di fronte alla necessità di trovare qualcosa di utile, qualcosa che potesse darci una speranza. Un'esperienza simile ad un naufragio su un’isola sconosciuta: la solitudine, la disperazione, ma anche quella piccola scintilla di resistenza che non riuscivamo a spegnere.
Il nostro pensiero non andava alla bellezza del paesaggio alieno, né al potenziale delle scoperte scientifiche. Pensavamo solo a come farcela. “Possiamo farcela,” ripetevo mentalmente. Eppure, quando ci fermammo per la prima volta dopo aver percorso chilometri con il veicolo di fortuna, ci rendemmo conto che nessun piano, nessuna preparazione, nessuna scienza avrebbe potuto prepararti completamente a vivere in quelle condizioni.
C’era una costante sensazione di tensione, di un pericolo imminente, ma anche quella forza primitiva che ci spingeva a non arrenderci. Sopravvivere non era solo una questione di risorse: c’erano emozioni, dubbi, paura e un senso crescente di impotenza. Ogni tanto, riuscivo a sentire la paura ribollire dentro di me, ma cercavo di non mostrarla. La paura di un mondo che non ci apparteneva, di un ambiente che ci stava facendo a pezzi.
In quelle ore di viaggio in quel mezzo rozzo e traballante, ci rendemmo conto che non avevamo solo bisogno di ossigeno e cibo, ma anche di un piano psicologico, qualcosa che potesse aiutarci a restare lucidi, a non perdere la speranza. A volte pensavo che fossimo come Robinson Crusoe, ma non in una casa di legno su un’isola tropicale. Qui, la sopravvivenza non era solo una questione di vita o morte, ma di far fronte a una condizione che ci costringeva a mettere in discussione ogni parte di noi.
Alla fine, ci trovammo a rotolare giù per una collina. Non riuscivo a capire cosa fosse successo. Paul stava guidando, Connie navigava, e la tensione ci sovrastava. Eppure, in mezzo al caos, c’era quella sensazione che la fine non fosse ancora arrivata. La nostra lotta per sopravvivere era ancora in corso, tra paure fisiche e psicologiche che sembravano non finire mai.
La cosa che più ci spaventava non era solo la solitudine o il freddo. Era quella sensazione che il mondo fosse cambiato per sempre, e che forse eravamo gli ultimi a ricordare come fosse una volta. Un po’ come se ci fossimo dimenticati chi eravamo, mentre cercavamo di capire cosa fossimo diventati.
Sopravvivere su un pianeta straniero non è solo una questione di tecnologie, di strumenti avanzati o di strategie. È una questione di equilibrio psicologico. E, soprattutto, è un continuo confronto con la propria umanità, con quella parte di noi che non cambia mai, anche quando il mondo intorno a noi è irriconoscibile.
Il Caofa: Un Commercio che Riguarda la Sostenibilità e la Sensibilità Sociale nella Repubblica di Venezia
Il commercio di caofa, in particolare la sua distribuzione e il prezzo di vendita, ha sempre costituito una linea sottile che determinava il ruolo di Matteo, come patrono o come semplice mercante. L'equilibrio tra la qualità e la quantità del prodotto era cruciale. Una volta salito al piano superiore, dopo due ore di riflessione, Matteo trovò una copia de Il Gentiluomo, che suo padre gli aveva dato quando aveva quindici anni. Un passaggio segnato con un nastro, senza neppure bisogno di sfogliarlo, gli fece subito pensare a quel brano in cui Muzio spiegava che un gentiluomo non doveva mai fare nulla con le proprie mani, ma affidare ogni compito ai suoi agenti. Matteo, però, non si fece intimorire dalle convenzioni, scagliando il libro con rabbia per terra e poi chiamando con impazienza il suo mantello. Questo episodio, seppur piccolo, evidenziava già un elemento importante del carattere di Matteo: l’indifferenza verso le formalità che ostacolano l’efficienza e la pragmatismo, caratteristiche che avrebbero reso il suo commercio di caofa unico.
La caofa, una bevanda tanto ricca da sembrare tangibile, portava con sé un sapore che non solo stimolava il gusto ma che penetrava nel corpo con la stessa intensità di un'esperienza sensoriale fisica. La sua complessità, un vero e proprio tripudio di sensazioni, sembrava essere stata creata apposta per interpellare non solo la lingua, ma anche l'anima, un po' come un’opera d’arte che non si limitava ad appagare il desiderio del palato, ma diventava un veicolo di status e una dichiarazione sociale.
Quando Matteo iniziò a distribuire la caofa, comprese presto che il suo commercio doveva far leva su un aspetto cruciale: la freschezza. La caofa, che si esauriva rapidamente, doveva essere servita appena preparata, in modo che i clienti potessero gustarne la qualità più alta senza il rischio che il sapore svanisse. I mercanti, i tedeschi al Fondaco dei Tedeschi, iniziarono a mostrare interesse, sebbene con un atteggiamento scettico, convinti che la caofa non sarebbe mai riuscita a competere con la birra. Ma la curiosità e il desiderio di appartenenza alla nuova moda spingeva anche loro ad acquistare, seppur discretamente, una tazza della bevanda.
Il commercio del caofa, inizialmente visto con scetticismo, cominciò a guadagnare terreno tra i cittadini veneziani, i mercanti stranieri e persino tra gli accademici. La caofa divenne una moda, un simbolo di raffinatezza e di gusto per l’estravaganza, e anche se le reazioni iniziali avevano fatto pensare a un mercato di nicchia, ben presto si scoprì che la bevanda aveva un pubblico molto più ampio di quanto Matteo avesse potuto immaginare. La vendita non avveniva più solo in grandi quantità, ma veniva adattata a un formato più accessibile, con sacchetti piccoli destinati ai singoli consumatori, permettendo così una diffusione capillare tra i cittadini di Venezia.
C’era, tuttavia, un altro aspetto che Matteo doveva affrontare con una certa cautela: l’effetto della caofa sul corpo. Gaspare, il suo collaboratore, gli mostrò un trattato in latino intitolato De Flatus Caofae, che trattava della natura dei "flatulenti" causati dal consumo di caofa. Un dettaglio apparentemente trascurabile, ma che in realtà parlava della realtà di una bevanda tanto potente da non essere semplicemente un piacere gastronomico, ma anche una realtà fisica che, seppur trascurata dai più, non poteva passare inosservata.
La discussione sul consumo di caofa non riguardava solo la sua accettabilità sociale, ma anche la capacità di Matteo di navigare il delicato equilibrio tra tradizione e innovazione. La caofa, venduta durante i mesi estivi, sembrava non essere adatta a quelle calde giornate veneziane, ma Matteo non si fece intimidire dalla stagionalità del prodotto. Con astuzia, ricordò ai suoi colleghi che anche nei paesi turchi si consumava caofa sotto il sole ardente, e che il suo potere benefico era evidente anche in condizioni di caldo estremo. Così, in estate, il caldo e la sete divennero un’occasione per un consumo meno tradizionale, ma comunque affermato, della bevanda.
Il successo di Matteo non passò inosservato. Un giorno, una lettera dell'Avogadori di Comun gli notificò un’accusa grave: quella di aver causato discordia nella Repubblica, mettendo in pericolo l'ordine pubblico. L'accusa sembrava infondata, ma il suo potere commerciale e la crescente influenza di Casa Benveneto lo ponevano sotto la lente di ingrandimento delle autorità. La risposta alle sue azioni non si limitò al semplice commercio, ma riguardava la sua stessa posizione nella società veneziana.
Un aspetto importante che Matteo dovette riconoscere era che la sua attività non si limitava a una mera operazione economica. Ogni passo nel suo commercio, ogni decisione presa, aveva un impatto sociale e politico. La caofa, in quanto prodotto di nicchia, ma anche simbolo di un certo stile di vita, non solo ha sfidato le convenzioni sociali, ma ha messo in luce le tensioni tra la tradizione e l’innovazione, il privato e il pubblico, l’individuo e la collettività. L’equilibrio che Matteo riuscì a mantenere nel suo commercio non riguardava solo la distribuzione della caofa, ma anche la gestione delle relazioni sociali, dei rischi e dei benefici che ne derivavano.
Perché Matteo è stato interrogato? La Verità nascosta dietro le sue ricerche
Era il sessantatreesimo giorno quando lo vennero a prendere. "Alzati", chiamò il secondino mentre la porta si apriva, una figura centrale nella luce fioca ma pungente. I due guardie passarono oltre e condussero Matteo via senza dire una parola. Avevano percorso due corridoi e stavano salendo una scala – la richiesta su muscoli non abituati potrebbe aver risvegliato qualcosa – quando Matteo si rese conto che forse lo stavano portando al giudizio o, peggio ancora, alla esecuzione sommaria. Ma c’era anche la possibilità che gli stessero dando la chance di spiegarsi, per la quale aveva impazzito attraverso lunghe ore buie. Un interlocutore che gli avrebbe chiesto cosa avesse fatto, dato che non avrebbe mai confessato le accuse raccolte contro di lui. La verità evidente delle sue parole, la loro giustizia e ragione, avrebbe spazzato via l’illogicità compatta delle accuse contro di lui, che dovevano contraddirsi tra loro e con i fatti stabiliti in numerosi punti sanguinanti.
La piccola stanza in cui fu spinto era appena più grande della sua cella, sebbene più luminosa. Matteo si accasciò sulla panca stretta e guardò la seconda porta (da cui si udivano lievi mormorii) con sollievo: le camere di tortura non hanno sale d'attesa. Il funzionario che aprì la porta, tuttavia, guardò Matteo con uno sguardo così cupo che lui sussultò. Il fatto che non fosse una guardia a farlo entrare era ancora più allarmante. Dove si trovava, che i prigionieri non avessero più bisogno di guardie?
La stanza oltre era grande, sebbene il soffitto alto e le finestre oscurate (Matteo non aveva realizzato che fosse notte) si trovassero oltre la debole illuminazione di alcune lampade. I cinque uomini in abiti talari sedevano non dietro una scrivania, ma su sedie rialzate contro la parete opposta, la figura centrale incorniciata da un pannello rosso. I segretari e gli avvocati occupavano i tavoli contro la parete opposta alle finestre. Matteo si avvicinò lentamente, guardandosi intorno con incredulità. "Cosa cerchi?" chiese uno di loro. La sua voce portò chiaramente l'eco dietro Matteo. "La mia grazia, Eccellenza", disse con voce roca. Da quanto tempo non parlava? "Mi aspettavo di vedere un Inquisitore presente."
"Questo è un tribunale del Consiglio dei Dieci, non l'Inquisizione!" rispose bruscamente un altro giudice. "Ci hai già creato problemi coinvolgendo l'Ufficio Santo in questa faccenda."
"Chiedo scusa", sussurrò Matteo. Cercò di concentrarsi su questa frase, ma i suoi pensieri giravano senza controllo, come ingranaggi che non si ingranano più. Il Consiglio dei Dieci! Nessuna delle precedenti interviste era stata un vero processo, e forse nemmeno questa lo sarebbe stata, ma con i Dieci non sempre ottenevi un processo formale. Sarebbe stato fatale non dire nulla, quindi aggiunse: "L'ultima volta che fui prelevato dalla mia cella, fui interrogato da un Inquisitore. Non sono stato informato riguardo alla natura dei procedimenti contro di me e devo scusarmi per la mia ignoranza."
Uno dei giudici si mosse. "Non è colpevole, secondo la legge, per un cittadino complicare innocentemente un'indagine subendo le attenzioni di terzi", osservò. "Che ciò abbia causato inconvenienti in questa inchiesta non può essere uno degli addebiti contro Ser Benveneto."
"Abbiamo già abbastanza", rispose bruscamente un altro giudice. Indicò Matteo con il dito. "Tu! Cosa stavi facendo tra i libri segreti? E perché ti sei interessato agli scritti del napoletano Giovanni Battista della Porta?"
"Della Porta?" Per un attimo Matteo si sentì, in modo insensato, come se fosse interrogato da dei tutori. "Scrisse Pneumatica, uno studio sul potere del vapore."
"È interessante che tu l'abbia cercato nell'Archivio dei Documenti, dove avevi un permesso per cercare scritti sul vapore provenienti dalle terre turche."
Matteo sbatté le palpebre. "Con rispetto, Eccellenza, avevo il permesso dall'ufficio del Senatore Domenico per cercare libri sul vapore. Certo, eravamo interessati agli scritti dei filosofi arabi, ma se ci fossero stati nuovi studi pubblicati da cristiani, li avrei letti lo stesso."
"Tuttavia, hai anche preso l'opportunità di cercare scritti su caofa, non è vero?"
"Non parliamo ancora di caofa", suggerì il giudice presiedente. Matteo guardava da un giudice all'altro, stupito. "Va bene", disse il giudice che aveva indicato Matteo. "Questo napoletano è anche l'autore di un altro trattato, De Furtivis Litterarum Notts, in cinque libri. Stavi esaminando anche quel volume. Perché tanto interesse per un autore che scrive di codici e crittografia?"
Matteo fissò il giudice. "Ma quello fu scritto più di quarant'anni fa! Della Porta scrisse quel libro quando era molto giovane."
"Questo poco importa", disse il quarto giudice, quello più a destra. Due degli altri annuirono. "Il prigioniero ha mostrato un modello di ingresso in luoghi riservati e poi un interesse eccessivo per ciò che vi si trovava. Mi interessa capire perché stava curiosando nel seminterrato della casa."
Il giudice che aveva esitato prima alzò una mano. "Dovremmo fare attenzione a non pronunciare segreti davanti al prigioniero. È ancora possibile che possa essere assolto e rilasciato."
"Non sembra probabile", rispose il giudice presiedente. Si inclinò leggermente in avanti per parlare al collega alla sua destra. "Vuoi chiedere del seminterrato? Quel piccolo ebreo dall'Arsenale non ci ha detto nulla, neppure sotto il cordello."
"Ti suggerisco di provare il cordello ora."
"A che scopo?" chiese il terzo giudice. "Il misero converso ha spillato tutto ciò che poteva, e non abbiamo imparato nulla che non fosse già evidente dai loro documenti. Tutto ciò che abbiamo sentito finora suggerisce due giovani che non sanno quando non esibire curiosità. A meno che le risposte del prigioniero non mostrino dissimulazione, il cordello sarebbe un ricorso ingiustificato."
Matteo seguiva l'incredibile scambio, ma un freddo crescente sembrava aver paralizzato ogni sua facoltà, anima, umori e tutto. Come il ghiaccio in un condotto, le parole che sentiva avevano bloccato il flusso del pensiero, che rimase immobilizzato davanti ai suoi occhi.
"Va bene", disse il giudice presiedente. "Passiamo quindi a questioni che sono meglio documentate. Prigioniero: parlaci dei tuoi rapporti con gli ebrei del ghetto. E sappi che alla prima menzogna, sarai appeso al cordello."
Matteo respirò lentamente. Anche una scultura di ghiaccio potrebbe muoversi se lo ordinassero così, dai Dieci. "Eccellenze", iniziò. "Se avete preso i documenti miei e del mio socio Gaspare Treviso, saprete certamente dei miei tentativi di trovare investitori per un piano per importare fagioli caofa dall'Egitto, con l'intento di venderli in tutta Europa, arricchendo così la mia famiglia e beneficiando la nostra Repubblica. Trovare investimenti è stato difficile: i mercanti prosperi ora affidano il loro capitale alle case genovesi e fiorentine, che garantiscono ritorni sicuri; mentre le famiglie nobili di Venezia hanno collocato la loro ricchezza nelle loro terre continentali." Si fermò, aveva appena offeso i suoi giudici? Il ghiaccio lo aveva intorpidito; non gli importava.
I giudici si guardarono tra loro. "E cosa ti ha detto l'ebreo Zacuto a riguardo?" chiese uno.
"Era cauto", rispose Matteo. Cercava di ricordare cosa avesse scritto. Il ghiaccio si stava sciogliendo; le parole dette un attimo prima iniziavano a riaffiorare. "Aspetta—pensavate che Gaspare fosse coinvolto in questo? No, è solo..."
"Silenzio!" urlò il giudice presiedente, distratto. Un avvocato si era avvicinato con un foglio, che prese e studiò. Un silenzio calò mentre il foglio veniva passato da un giudice all
Come la narrativa di Laumer ha prefigurato il futuro della fantascienza
Laumer, uno degli autori più apprezzati della fantascienza del ventesimo secolo, ha incantato i lettori con la sua scrittura che non solo ha intrattenuto, ma ha anche offerto una riflessione critica sulla natura dell'uomo e sull'evoluzione della tecnologia. La sua prosa, sebbene non sfoggi ostentazione o abbellimenti, possedeva una qualità che non passava inosservata: la capacità di condurre il lettore attraverso un turbine di azioni mozzafiato senza mai perdere di vista la sostanza. L'universo che Laumer crea nelle sue opere è segnato da eroi che vivono secondo un codice netto e rigoroso, un'etica di ferro che li guida e li distingue, proprio come i protagonisti dei racconti più amati della letteratura di fantascienza.
Il suo personaggio più iconico, il super-spia John Bravais, è una figura che incarna il meglio di questi principi. Impegnato in un’avventura che lo porta ad affrontare un complotto alieno in Algeria, Bravais si trova a dover affrontare sfide tanto fisiche quanto psicologiche. In un contesto in cui esseri umani e alieni si alleano per raccogliere cervelli umani da utilizzare come unità di guida per armi interstellari, la guerra diventa il palcoscenico perfetto per un eroismo che non conosce compromessi.
Un aspetto interessante della scrittura di Laumer è la sua capacità di maneggiare tematiche complesse con una narrazione tanto semplice quanto incisiva. Le sue storie ruotano attorno a idee consolidate del genere, ma riescono a dare loro un’energia nuova, come nel caso dei "Bolos", i giganteschi carri armati cibernetici, veri protagonisti della guerra futura. Questi "Bolos", rappresentazioni perfette della guerra tecnologica, sono esseri dotati di intelligenza artificiale, ma anche di una spietata capacità di adattarsi ai cambiamenti del campo di battaglia, un concetto che oggi suona incredibilmente moderno, quasi profetico. È in queste riflessioni che la fantascienza di Laumer prefigura molte delle dinamiche che oggi vediamo nel mondo delle IA e dei conflitti tecnologici.
La capacità di Laumer di intrecciare storie avvincenti con riflessioni sulle implicazioni morali e sociali della tecnologia lo rende un autore che non solo intrattiene, ma provoca anche una riflessione sul nostro rapporto con la macchina e sulla nostra stessa umanità. In "Test to Destruction", per esempio, il protagonista Mallory, soggetto a torture fisiche e interrogatori psichici da parte degli alieni, emerge come una figura complessa: un eroe che, pur superando i propri limiti umani, rischia di diventare un tiranno. Questa trasformazione suggerisce una critica alle utopie dell'individualismo estremo, richiamando l'attenzione sui pericoli di un potere senza controllo.
Le opere di Laumer sono anche un terreno fertile per esplorare il tema della lotta tra classi, un elemento che permea molti dei suoi racconti. In "Of Death What Dreams", ad esempio, si affronta il divario tra le élite e le classi oppresse, un tema che trova eco in molte altre opere di fantascienza distopica. Sebbene Laumer non fosse un pioniere di concetti completamente nuovi, la sua abilità nel rielaborare temi già presenti nella narrativa del genere, come l’individualismo o la lotta contro un ordine dominante, lo ha fatto diventare una figura chiave nella sua evoluzione.
La sua scrittura, infatti, è segnata dalla capacità di utilizzare archetipi e temi del passato per affrontare le sfide del presente. L'eroe che deve sacrificarsi per il bene più grande, come nel caso di "Thunderhead", non è un personaggio nuovo, ma è trattato con una profondità che lo rende unico nel panorama della fantascienza. Nonostante ciò, Laumer riesce a mantenere un equilibrio tra la tradizione del genere e l'innovazione, senza mai scadere nell'autocitazione.
Un altro aspetto fondamentale del suo lavoro è la costante tensione tra l'umanità e la tecnologia. La scienza e la tecnologia sono strumenti, ma al contempo, nelle mani sbagliate, possono diventare minacce per l’umanità stessa. Questo è evidente non solo nei racconti più tecnologici come quelli con i "Bolos", ma anche in quelli che esplorano la psicologia dei personaggi, come "Test to Destruction" e "End as a Hero". In questi racconti, la tecnologia diventa un simbolo della lotta interiore del protagonista, una metafora della sua evoluzione o, in alcuni casi, della sua corruzione.
Infine, è interessante notare come Laumer, pur non inventando concetti completamente nuovi, sia riuscito a trarre il meglio dalle idee esistenti e a infondere loro nuova vita. La sua capacità di manipolare i tropi della fantascienza con una scrittura chiara, concisa e avvincente ha fatto sì che le sue opere continuassero a influenzare autori più giovani, in particolare nel campo del cyberpunk. Laumer potrebbe non aver scritto i manuali della fantascienza, ma ha sicuramente scritto alcuni dei capitoli più affascinanti.
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