Il 6 gennaio 2021, un attacco violento al Campidoglio degli Stati Uniti da parte dei sostenitori del presidente Donald Trump ha sconvolto la politica interna americana e scatenato una serie di reazioni a livello mondiale. Due giorni dopo, il generale Mark Milley, capo dello Stato Maggiore congiunto degli Stati Uniti, ha effettuato una chiamata urgente al suo omologo cinese, il generale Li Zuocheng, per rassicurarlo sulla stabilità della nazione americana. L’immagine televisiva dell’assalto al Congresso aveva gettato i vertici cinesi in un profondo stato di confusione e preoccupazione, con il timore che gli Stati Uniti, un superpotere globale, fossero sull'orlo di un collasso politico. Il generale Milley ha cercato di mitigare il panico di Li, rassicurandolo sul fatto che, pur essendo il sistema democratico americano complesso e a volte disordinato, la nazione era stabile e sotto controllo. Tuttavia, la conversazione ha messo in luce una realtà pericolosa: una comprensione reciproca limitata tra le due superpotenze nucleari, un pericolo che, in tempi di alta tensione, può portare a disastri globali.
La reazione cinese non è stata affatto isolata. Il 30 ottobre 2020, poco prima delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, i servizi di intelligence avevano intercettato informazioni che suggerivano come la leadership cinese temesse che Trump potesse scatenare una crisi internazionale per manipolare il risultato elettorale. Nonostante queste paure fossero infondate, Milley aveva già preso misure per disinnescare la tensione, cercando di rassicurare la Cina che non ci sarebbero stati attacchi improvvisi da parte degli Stati Uniti. Tuttavia, gli eventi successivi, con l'assalto al Campidoglio e la crescente instabilità interna, avevano solo intensificato le preoccupazioni di Pechino. “Non ci capiamo,” ha detto Milley al suo staff senior, concludendo che questa incomprensione reciproca rappresentava un rischio tangibile di escalation.
In questo scenario, la preoccupazione di Milley non riguardava solo la sicurezza nazionale, ma anche la condizione mentale del presidente Trump, che, dopo la sconfitta elettorale, sembrava aver perso il contatto con la realtà. La sua risposta irrazionale e a tratti maniacale, con urla e accuse senza fondamento riguardo a presunti brogli elettorali, ha sollevato timori in tutti coloro che erano vicini al potere. Milley e altri membri dell’amministrazione erano consapevoli che Trump, pur non cercando una guerra, avrebbe potuto intraprendere azioni militari impulsive come quelle già avvenute in Iran, Somalia, Yemen e Siria. La concentrazione del potere nelle mani di un solo individuo, prevista dalla Costituzione americana, consente al presidente di ordinare attacchi militari in qualsiasi momento, senza la necessità di un consenso parlamentare o di una valutazione approfondita.
L’assalto al Campidoglio ha rappresentato non solo un momento di crisi politica domestica, ma ha anche esposto gli Stati Uniti a un rischio internazionale senza precedenti. In un ambiente internazionale teso, dove gli errori di comunicazione e le interpretazioni sbagliate possono rapidamente sfociare in conflitti, la situazione sembrava estremamente fragile. Questo scenario è stato paragonato ai momenti più critici della Guerra Fredda, come durante la Crisi dei Missili di Cuba, quando una semplice incomprensione o una mossa impulsiva avrebbero potuto spingere il mondo sull’orlo di una guerra nucleare.
In tale contesto, il presidente degli Stati Uniti, anche se non intenzionato a scatenare una guerra, aveva il potere di farlo con un semplice ordine, senza che nessuno in grado di fermarlo. Milley stesso aveva l’obbligo di prepararsi a una possibile crisi, non solo per proteggere gli interessi nazionali, ma anche per prevenire una catastrofe mondiale derivante dall'instabilità interna.
Questo periodo di “pericolo”, come definito dalla situazione, ha rivelato non solo il rischio legato a un governo instabile e a una leadership politica imprevedibile, ma anche le potenzialità distruttive di una democrazia che, nonostante la sua forza, può essere vulnerabile in tempi di crisi. La lotta interna per il potere, la polarizzazione crescente e la disinformazione hanno il potenziale di destabilizzare non solo una nazione, ma anche l’equilibrio internazionale, con ripercussioni per la sicurezza globale. La comunità internazionale deve capire che una democrazia in pericolo, come quella degli Stati Uniti, può trasformarsi rapidamente in una minaccia non solo per sé stessa, ma per il mondo intero.
Come le decisioni politiche di Trump sono influenzate dalla sua base elettorale e le sfide legali in un periodo di incertezze globali
La politica di Donald Trump durante la sua presidenza è stata fortemente influenzata dalle sue interazioni con la sua base elettorale. La sua visione del mondo, plasmata dalle preoccupazioni e le richieste dei suoi sostenitori più fedeli, ha spesso determinato le sue decisioni, anche quando queste si scontravano con la realtà politica e legale. In particolare, una serie di conversazioni con i suoi consiglieri più stretti, come l'allora procuratore generale William Barr, rivela il contrasto tra la sua retorica da "combattente" e la necessità di affrontare le questioni politiche con maggiore cautela.
Uno degli episodi più emblematici di questa dinamica è la discussione sull'indagine sul Russiagate e sulle indagini legali relative a figure come James Comey. Trump, nonostante i suggerimenti dei suoi consiglieri, era concentrato sul soddisfare la sua base elettorale, che chiedeva che i suoi avversari fossero puniti. Barr cercò di spiegargli che la maggior parte degli americani, fuori dal suo nucleo di sostenitori, non si preoccupava delle sue "lamentele", ma delle sfide immediate che il paese stava affrontando, come la pandemia di Covid-19. "La gente si preoccupa del futuro, della salute, dell'economia", disse Barr. Invece di concentrarsi su un'agenda che rispondesse ai bisogni immediati degli americani, Trump sembrava fissato a rivendicare vittorie passate e a sfogare le proprie frustrazioni personali.
Nonostante le difficoltà politiche e le sfide interne, Trump non mostrò segni di voler cambiare il suo approccio. La sua insistenza sulla "lotta" per difendere i suoi sostenitori lo spinse a rimanere incentrato su ciò che la sua base voleva sentire. Barr, tuttavia, avvertì che la fluidità dell'elettorato del 2016 non sarebbe stata replicata nel 2020: gli americani avevano ormai preso posizione e non erano più disposti a dargli una chance solo per la novità. La visione del presidente come un "genio politico" lo portò a ignorare i consigli degli esperti e a non adattarsi ai cambiamenti del panorama politico.
Un altro tema che evidenziò la tensione tra la sua base e la gestione delle politiche nazionali fu la questione dell'Affordable Care Act, noto come Obamacare. Nonostante gli avvertimenti legali di Barr sul fatto che una battaglia legale contro la legge sanitaria sarebbe stata perdente, Trump, incalzato dalla sua base conservatrice, voleva continuare a combattere contro una legge che forniva assistenza sanitaria a milioni di americani. Barr cercò di persuaderlo a dichiarare vittoria sulla questione della penale individuale e a focalizzarsi su altre priorità politiche, ma il presidente era convinto che non poteva arrendersi. "Questo è il mio elettorato", ripeteva, insistendo sul fatto che la sua strategia doveva restare incentrata sui desideri e le aspettative dei suoi sostenitori, anche a costo di rischiare l'impopolarità tra altri gruppi di elettori.
La domanda su come affrontare il tema della cittadinanza alla nascita, legato al 14° emendamento, rappresentò un altro punto di attrito tra Trump e i suoi consiglieri legali. Trump cercava di emanare un ordine esecutivo che negasse la cittadinanza ai bambini nati negli Stati Uniti da genitori privi di documenti, ma Barr gli spiegò che tale azione era impossibile senza il supporto del Congresso. L'insistenza di Trump su una soluzione rapida e unilaterale, rispondente alle richieste della sua base più conservatrice, rifletteva il suo approccio ideologico, che non voleva cedere nemmeno su questioni legali delicate.
Oltre a queste problematiche politiche e legali, è essenziale comprendere come Trump fosse costantemente impegnato a rafforzare il legame con la sua base, anche se questo comportava sfidare le convenzioni politiche e la logica della buona governance. La sua personalità e il suo stile comunicativo, spesso provocatori e polarizzanti, erano in sintonia con le esigenze di un elettorato che cercava un leader forte e capace di sfidare l'establishment. Tuttavia, questo stesso approccio ha comportato una crescente divisione tra lui e il resto della popolazione, portando a una contrapposizione sempre più netta tra il suo nucleo di sostenitori e gli altri segmenti della società americana.
Per i lettori italiani, la lezione che emerge da queste vicende politiche è che la politica moderna, soprattutto in contesti di forte polarizzazione, spesso si concentra meno sulle soluzioni concrete e più sulla retorica e sulla gestione dell'immagine pubblica. La difficoltà di bilanciare le esigenze di una base elettorale radicale con le necessità più ampie di un paese, che richiede politiche inclusive e responsabili, è un tema ricorrente anche nella politica italiana e europea. La gestione della percezione pubblica, la comunicazione diretta e l'approccio alla leadership sono temi centrali che influenzano in modo decisivo il successo o il fallimento di un politico.
Come Biden e McConnell hanno gestito il conflitto politico e la negoziazione durante la pandemia
La rielezione di Susan Collins nel 2020 fu sostenuta da un ingente investimento democratico, ben 180 milioni di dollari, ma lei vinse con un margine di nove punti. Collins percepiva gli attacchi dei democratici come troppo personali e sporchissimi, definendola una “frode controllata da Trump e McConnell”. Di fede cattolica, scherzava con gli amici dicendo che, per la Quaresima, aveva rinunciato alla rabbia verso Chuck Schumer, preferendo piuttosto il suo bicchiere di vino serale. Dopo un incontro con Biden, si confrontò con McConnell durante il consueto pranzo dei repubblicani al Senato, un momento informale e chiuso riservato ai membri del partito, in cui spesso si servivano piatti tipici delle regioni di provenienza.
Collins riferì a McConnell che l’incontro con Biden era stato positivo, ma era rimasta sorpresa dall’annuncio improvviso di Schumer sulla riconciliazione, che aveva colto di sorpresa anche lei e che giudicava una mossa di cattiva fede. Ottenere l’accordo di dieci senatori repubblicani su un aumento della spesa pubblica di 618 miliardi di dollari non era stato affatto semplice. McConnell, da parte sua, non era sorpreso dalla rapidità con cui Biden e Schumer avevano messo sul tavolo la loro proposta, ma prevedeva che avrebbero giocato questa carta in tempi brevi. Definì Biden una persona affabile, con una personalità da “A+”, ma sottolineò che non bisognava considerarlo un centrista; il suo staff lo stava infatti spingendo sempre più a sinistra.
La linea repubblicana prese forma attorno a questa convinzione: Biden era un uomo gentile e amico di molti, ma politicamente incline a un progressismo spinto, con una visione per l’America che differiva da quella di McConnell. L’obiettivo di Biden non era solo il compromesso ma un progetto storico, un sogno di trasformare radicalmente il paese, seguendo la tradizione dei grandi presidenti democratici, aspirando a lasciare un segno monumentale. McConnell spiegava che per un politico di lungo corso, dopo l’iniziale euforia di poter diventare presidente, il pensiero successivo è quello di essere ricordato come un grande presidente.
Durante il pranzo, Collins descrisse ai colleghi repubblicani l’atteggiamento contraddittorio all’interno della delegazione democratica, con alcuni consiglieri del presidente che manifestavano evidente disappunto con gesti plateali, come scuotere la testa in segno di disapprovazione, ritenuti da Collins maleducati e poco rispettosi, soprattutto nei confronti dello stesso Biden e dei repubblicani presenti. Quando Biden chiamò McConnell per un confronto, anche su altri temi come la situazione in Myanmar, McConnell fu diretto nel far capire che i repubblicani non avrebbero appoggiato un ulteriore pacchetto di spesa di così grande portata. Tale posizione, espressa con garbo ma fermezza, era condivisa anche dalla sua fidata capo di gabinetto, Sharon Soderstrom, che in conversazioni private sottolineò come i repubblicani fossero preoccupati dall’effetto che una nuova assicurazione contro la disoccupazione avrebbe avuto sulle imprese e sull’incentivo a tornare al lavoro.
Biden non possedeva poteri magici per persuadere McConnell, come qualcuno lo aveva definito in passato, ma conosceva bene le dinamiche della negoziazione: piuttosto che cercare di cambiare idee radicate, chiedeva di comprendere quali fossero le condizioni per raggiungere un accordo, per poi offrire le proprie. Tuttavia, all’interno della Casa Bianca cresceva il sospetto che i repubblicani stessero facendo ostruzionismo, fidandosi del fatto che Biden avrebbe avuto difficoltà a mantenere unito il fragile equilibrio tra i diversi gruppi democratici, da Manchin ai progressisti, tutti con visioni spesso divergenti. Questa era la vera prova di forza: se Biden non fosse riuscito a far passare il piano nella sua interezza, sarebbe stato costretto a tornare a negoziare un compromesso più ridotto.
Nonostante ciò, il piano di Biden godeva di un certo favore pubblico, persino tra alcuni elettori repubblicani, il che complicava ulteriormente la posizione del GOP. All’interno della West Wing, Klain teorizzava che il successo del piano avrebbe permesso di “premiare” chi aveva contribuito al suo passaggio e lasciato da parte chi si era opposto. McConnell prevedeva invece che il momento per un reale dialogo sarebbe arrivato solo se e quando il piano di Biden avesse fallito, allora i repubblicani sarebbero tornati al tavolo con una posizione più forte.
In questo scenario, McConnell riteneva che l’economia stesse lentamente migliorando, grazie anche alla diffusione del vaccino, e che quindi i repubblicani potessero permettersi di mantenere una posizione ferma senza sembrare insensibili agli occhi degli elettori in vista delle elezioni del 2022. Diversamente dai primi momenti della pandemia o dalla crisi finanziaria del 2008, la situazione appariva più sotto controllo, dando ai repubblicani un margine di manovra più ampio.
È importante comprendere che la dinamica tra Biden e McConnell non si limitava a uno scontro personale o ideologico, ma rappresentava un complesso gioco politico in cui entrambe le parti cercavano di anticipare mosse e contromosse, utilizzando il consenso pubblico e le fragilità interne dei rispettivi schieramenti. La negoziazione politica, specie in tempi di crisi, richiede non solo capacità di dialogo ma anche una profonda lettura delle intenzioni, delle strategie e dei limiti dell’avversario. La politica americana è così fatta: un continuo equilibrio tra collaborazione e conflitto, in cui la forza delle idee deve spesso confrontarsi con la realtà delle alleanze e delle concessioni.
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