Quando Mike Pompeo si rivolse al personale del Dipartimento di Stato con lo slogan “team, one mission”, il messaggio era chiaro non tanto per i diplomatici, quanto per il presidente: la missione non era più il Paese, ma l'uomo al vertice. Pompeo, ex cadetto di West Point, modellava la sua immagine pubblica come quella di un capitano dell’esercito, fedele esecutore degli ordini del comandante in capo, piuttosto che un generale indipendente. L’identificazione con Trump era totale: il Dipartimento di Stato, una delle più antiche istituzioni federali, veniva ridefinito come “l’agenzia principale al servizio del presidente degli Stati Uniti”.
Questo approccio contrastava radicalmente con quello di John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale, che pur avendo corteggiato Trump per ottenere l’incarico, mantenne poi una distanza crescente. Invece di adattarsi al linguaggio della lealtà personale, Bolton si muoveva in autonomia, perseguendo agende che spesso non coincidevano con quelle del presidente. Sotto la sua influenza, l’amministrazione si ritirò da storici accordi internazionali: il Trattato INF, il Trattato Open Skies, e il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.
Uno degli obiettivi prediletti da Bolton era il cambiamento di regime in Venezuela. Con la crisi in pieno sviluppo e l’auto-proclamazione di Juan Guaidó come presidente ad interim, gli Stati Uniti guidarono un riconoscimento internazionale su larga scala, sostenuto da figure come Bolton, Marco Rubio e dallo stesso Trump, attratto dal valore elettorale del tema in Florida. Ma al di là delle dichiarazioni pubbliche, gli strumenti per realizzare tale cambio mancavano. Guaidó non aveva il sostegno militare necessario, e Maduro, pur screditato, conservava il controllo del potere coercitivo dello Stato.
La tensione si acuì quando il team di Bolton iniziò a premere sul Pentagono per trovare opzioni che potessero esercitare pressione su Maduro. La proposta: formare un esercito in esilio con disertori venezuelani rifugiatisi in Colombia, addestrarli e tenerli pronti per un’eventuale azione. Il generale Paul Selva, vicepresidente dei Capi di Stato Maggiore Congiunti, reagì con furia. In un acceso scontro durante una riunione alla Casa Bianca, denunciò l’illegittimità e la pericolosità dell’iniziativa, accusando il Consiglio di Sicurezza Nazionale di voler trasformare uno strumento militare in un veicolo di propaganda politica.
Non era solo una questione di legalità – il Leahy Amendment vieta l’addestramento di forze straniere sospettate di violazioni dei diritti umani – ma di principio: il Pentagono non era disposto a diventare il braccio operativo di una crociata ideologica senza basi concrete. L’incontro terminò bruscamente, lasciando l’impressione di una frattura insanabile tra i livelli operativi della sicurezza nazionale.
Intanto, Bolton e Pompeo continuavano a rilasciare dichiarazioni muscolari: “tutte le opzioni sono sul tavolo”, “l’intervento militare è possibile”. Ma la retorica non si tradusse in azione. Quando, pochi giorni dopo, Guaidó lanciò un appello finale alla mobilitazione, tutto si spense in un nulla di fatto. Maduro restò al potere, le minacce si dissolsero e Trump – da sempre cauto riguardo ai conflitti armati – attribuì la responsabilità del fallimento a Bolton, accusandolo di aver sottovalutato la determinazione dell’avversario.
Questo episodio mette a nudo una realtà fondamentale della politica estera trumpiana: al di là dei proclami, la coerenza strategica era spesso sacrificata sull’altare della comunicazione immediata, della lealtà personale e del calcolo politico interno. Il Dipartimento di Stato, ridotto a strumento personale del presidente, perdeva la sua funzione istituzionale. Il Consiglio di Sicurezza Nazionale diventava un’arena di scontri tra legalità e ambizione, tra visione strategica e esecuzione impulsiva.
Il punto più critico che emerge non riguarda solo la gestione della crisi venezuelana, ma l’evoluzione del ruolo delle istituzioni nell’era della personalizzazione del potere. Quando la diplomazia smette di servire lo Stato e si orienta esclusivamente verso la figura del leader, l’equilibrio costituzionale vacilla. E quando le strutture militari vengono spinte a giustificare piani illegittimi sotto pressione politica, ciò che è in gioco non è solo una politica estera, ma l'integrità dell’intero sistema democratico.
Qual è stato il ruolo di Mick Mulvaney nella politica estera e nelle decisioni di Trump riguardo l’Ucraina?
Mick Mulvaney, durante il suo periodo come capo di gabinetto della Casa Bianca, ha avuto un ruolo determinante nel centralizzare le decisioni politiche e di bilancio. Egli non solo ha assunse il controllo su aspetti cruciali della politica interna, ma ha anche avuto una grande influenza nelle scelte riguardanti la politica estera, in particolare nel caso della Ukrainegate. Un elemento chiave della sua gestione è stato l'uso delle risorse della Casa Bianca per esercitare pressioni su paesi esteri, come l’Ucraina, affinché venissero avviate indagini su Joe Biden, ritenuto un potenziale avversario alle elezioni presidenziali del 2020.
Mulvaney, allineato con la visione di Trump, ha cercato di centralizzare la gestione delle politiche estere, aggirando spesso canali tradizionali come il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. La relazione tra Mulvaney e Bolton era tesa, con Mulvaney che criticava l’approccio diplomatico di Bolton, ritenendo che quest'ultimo non fosse disposto a seguire gli ordini del presidente in merito alla politica estera. Le tensioni culminarono in un episodio emblematico: l'ormai famoso colloquio telefonico del 25 luglio 2019 tra Trump e il presidente ucraino Zelensky, che alla fine sarebbe diventato un elemento centrale nell'indagine di impeachment.
Mulvaney si schierò apertamente con la posizione di Trump, sostenendo che il presidente avesse il diritto di utilizzare gli aiuti militari come leva per ottenere quello che voleva in cambio da un paese straniero, una pratica che era già stata attuata in precedenza da Trump in altre occasioni. Il suo supporto incondizionato a Trump si rifletteva anche nelle sue interazioni con altri membri del governo, come Russell Vought, che aveva nominato come direttore ad interim dell'Office of Management and Budget (OMB). La sua centralizzazione dei poteri nelle mani della Casa Bianca, pur essendo efficace per l'amministrazione Trump, ha generato numerosi conflitti con altri membri della squadra presidenziale.
Mulvaney, durante una conferenza stampa disastrosa, rivelò accidentalmente le dinamiche dietro l’uso degli aiuti come strumento di coercizione politica, affermando che non c'era nulla di sbagliato nel collegare gli aiuti a una richiesta di indagine. Queste dichiarazioni suscitarono un'ondata di indignazione, costringendo Mulvaney a fare marcia indietro in fretta e furia. Il presidente Trump, nonostante avesse inizialmente sostenuto le affermazioni di Mulvaney, si ritrovò a fare una dichiarazione pubblica di rettifica, minimizzando la questione.
Nel contesto delle indagini sull'impeachment, Mulvaney cercò di difendere l’operato della Casa Bianca, ma la sua visione venne messa sotto esame pubblico quando testimonianze cruciali, come quella di Bill Taylor, dimostrarono che la richiesta di Trump a Zelensky per l’apertura di un’inchiesta su Biden era effettivamente legata alla concessione degli aiuti militari. La divisione tra i membri del Congresso e le visioni contrastanti riguardo l'impeachment rivelarono la polarizzazione crescente all'interno della politica americana, con i repubblicani che cercavano di sminuire l’importanza dei fatti, mentre i democratici li consideravano prove fondamentali per l'impeachment.
Mulvaney, nel suo ruolo di consigliere e capo di gabinetto, è stato, quindi, una figura chiave nella strategia di Trump, anche se il suo comportamento e la sua gestione delle situazioni più delicate hanno suscitato non poche polemiche. La sua gestione della politica estera, specie riguardo l’Ucraina, e la sua volontà di sovvertire il processo decisionale tradizionale all'interno della Casa Bianca evidenziano una volontà di centralizzare il potere e di soddisfare direttamente gli interessi del presidente, a dispetto delle consuetudini e delle procedure governative.
Un elemento da considerare quando si riflette su questa dinamica è che le azioni di Mulvaney non sono state isolata, ma inserite in un contesto più ampio di decisioni politiche che mettevano in discussione l’integrità delle istituzioni e delle politiche estere statunitensi. Il modo in cui Mulvaney ha esercitato il suo potere potrebbe essere visto come un tentativo di forzare il sistema per adattarlo agli obiettivi della presidenza Trump, minando così la fiducia nelle procedure e nelle normative che regolano l’interazione con paesi stranieri. La sua figura rimane centrale nel processo di impeachment, poiché le sue azioni riflettono la visione e le pratiche politiche adottate dalla Casa Bianca durante quel periodo.
Come la politica e la difesa legale si intrecciano in un processo di impeachment
Nel corso del processo di impeachment, i membri della difesa di Donald Trump, tra cui i suoi avvocati principali come Jay Sekulow e Alan Dershowitz, si trovarono costantemente a fronteggiare pressioni e ostacoli di diversa natura. Le difficoltà fisiche e emotive che affrontavano durante le lunghe sessioni processuali non facevano che aumentare la tensione. Sekulow, ad esempio, si trattava la gola con lidocaina, mentre altri membri del team, come John Roberts, si trovavano a dover combattere con raffreddori o dolori insopportabili, come quello ai denti di Adam Schiff. Nonostante il dolore fisico e il clima stressante, l'obiettivo rimaneva quello di non lasciare spazio a dubbi nelle argomentazioni, con una difesa che si faceva sempre più intransigente e, talvolta, provocatoria.
Adam Schiff, in particolare, cercava di rafforzare il suo argomento con toni sempre più partigiani, ben consapevole che pochi senatori si sarebbero lasciati influenzare dalle sue parole. In effetti, il suo obiettivo era un altro: cercare di colpire quei senatori repubblicani che ancora restavano indecisi. Durante le pause, tornava nel suo angolo strategico per ricordare al suo team l'importanza di un messaggio mirato. “Parliamo ai quattro e ai 40 milioni”, ripeteva, riferendosi a quegli esigui senatori repubblicani ancora dubbiosi e agli oltre 40 milioni di americani che non avevano ancora deciso da che parte schierarsi.
Nonostante il suo impegno, Schiff si trovò in difficoltà quando provò a sollevare il tema di un presunto avvertimento di Trump ai senatori: "Votate contro il presidente e la vostra testa sarà sulla forca". Quella dichiarazione provocò indignazione tra i senatori repubblicani, in particolare Susan Collins, che reagì subito, definendo la notizia "falsa". Schiff, accorgendosi della reazione, cercò di ritrattare, ma l'immagine di un confronto tra lealtà e indipendenza politica divenne ancora più evidente. Questa dinamica non fece che esacerbare le fratture interne tra le varie fazioni politiche.
Nel frattempo, un imprevisto cambiò radicalmente l’andamento del processo: la pubblicazione di un estratto dal libro di John Bolton, ex consigliere per la sicurezza nazionale. In questo, Bolton affermava che Trump avesse condizionato l'aiuto alla sicurezza per l'Ucraina alla promessa di un'inchiesta su Joe Biden. Questo nuovo sviluppo apriva un possibile varco per nuove testimonianze, ma nonostante l'emozione e l'urgenza della situazione, Mitch McConnell, leader della maggioranza repubblicana, suggerì prudenza, cercando di aspettare che la tempesta mediatico-politica si placasse. Come spesso accaduto nella presidenza Trump, l'onda emotiva sembrava destinata a svanire nel giro di pochi giorni.
I legali di Trump, infatti, ignorarono del tutto la nuova rivelazione, proseguendo la loro difesa come se nulla fosse cambiato. Sekulow ribadì che non c’era stato alcun testimone che avesse confermato un legame diretto tra l’indagine e l’aiuto militare. Ma l’elemento che più sorprese fu la presenza di Ken Starr, il cui coinvolgimento nel processo, sebbene simbolico, sembrava un chiaro paradosso. Starr, che aveva condotto l’impeachment di Bill Clinton, ora difendeva Trump, sostenendo che la sua condotta non fosse tale da giustificare una condanna.
La difesa legale di Trump, purtroppo, sembrava non limitarsi a contesti giuridici concreti, ma si spingeva anche a ridefinire il concetto di abuso di potere. Secondo Alan Dershowitz, se un presidente agisce in modo da favorire la propria rielezione, ma lo fa convinto che ciò sia nel miglior interesse del paese, tale azione non costituisce un crimine perseguibile. Questo argomento sollevò molte polemiche, in quanto appariva una distorsione delle precedenti posizioni giuridiche espresse dallo stesso Dershowitz, che in passato aveva sostenuto una visione diversa sull'impeachment di Clinton.
Sebbene la questione legale fosse al centro della battaglia, la politica restava l’elemento decisivo. La posizione dei senatori repubblicani divenne sempre più un campo di battaglia tra lealtà a Trump e l’immagine di indipendenza politica. La tenacia di alcuni senatori, come Mitt Romney e Lisa Murkowski, si scontrava con il peso della fedeltà al presidente, ma anche con l’urgenza di non perdere il favore dell’opinione pubblica.
La strategia di McConnell di aspettare, sperando che la rivelazione di Bolton non cambiasse gli equilibri, era una dimostrazione della natura effimera delle crisi politiche in epoca Trump. Come sempre, i giorni passavano e i riflettori sembravano distogliersi dal cuore del dibattito. Tuttavia, nonostante la strategia di stallo, la politica e la giurisprudenza si intersecavano in un modo che raramente avevano fatto in passato, trasformando il processo di impeachment in un evento di natura totalmente diversa rispetto a quelli precedenti.
Il lettore deve comprendere che, al di là delle tecnicalità legali e dei dettagli processuali, ciò che caratterizzava questo impeachment era l’eccezionalità del contesto. Non si trattava solo di determinare la colpevolezza o l'innocenza di Trump, ma di assistere a un rinnovamento delle regole politiche, dove le ideologie e le alleanze influenzavano pesantemente la narrazione, oscurando talvolta la verità giuridica in favore di quella politica. Ciò che emergeva in modo chiaro, infatti, era che il processo d’impeachment non fosse solo una questione di diritto, ma anche una battaglia culturale e simbolica, in cui ogni mossa era ponderata per le sue implicazioni sul lungo periodo.
Come il Trattato di Abramo Ha Modellato la Diplomazia Mediorientale: Un'Analisi dei Distorcimenti e delle Dinamiche di Potere
Il Trattato di Abramo, firmato nel settembre 2020, è stato uno dei momenti cruciali nella diplomazia mediorientale recente. A prima vista, sembrava un passo storico verso la pace tra Israele e i paesi arabi, ma dietro la facciata diplomatica si nasconde una serie di compromessi, giochi di potere e calcoli politici che hanno segnato l'approccio unico della Casa Bianca di Trump alla politica estera.
La negoziazione che ha portato alla firma di questo accordo è stata tutt'altro che semplice. Le discussioni si sono incentrate su dettagli minimi, come la terminologia utilizzata per descrivere l’impegno di Israele a non dichiarare immediatamente la sua sovranità su territori contesi. Le parole "sospendere" e "postporre" sono state analizzate scrupolosamente, con la ricerca di una connotazione che sembrasse più temporanea, meno permanente, per facilitare l’accordo. Questi piccoli ma significativi dettagli dimostrano come, spesso, le negoziazioni politiche possano essere influenzate da questioni semantiche che rischiano di nascondere la complessità dei problemi reali.
La parte più significativa della trattativa, tuttavia, non era la questione dei territori contesi, ma la necessità di soddisfare gli interessi geopolitici degli Emirati Arabi Uniti. Infatti, uno degli obiettivi principali per gli Emirati era quello di ottenere l'accesso agli aerei da combattimento F-35, ma la loro richiesta si scontrava con le preoccupazioni di Israele riguardo alla perdita di un vantaggio militare. La normalizzazione delle relazioni con Israele, quindi, ha avuto come contropartita un accordo sull'armamento avanzato, una dinamica che non solo ha trasformato la diplomazia regionale, ma ha anche influenzato la politica interna degli Stati Uniti, portando a un consistente pacchetto di armi venduto agli Emirati.
Nonostante i tentativi di Netanyahu di ritardare l'accordo, preoccupato delle possibili reazioni interne e della possibilità di coinvolgere altri stati arabi, alla fine l'accordo è stato concluso senza ulteriori ritardi. Il nome "Accordo di Abramo" fu scelto in un’ultima sessione di brainstorming, un’idea proposta dal generale Miguel Correa, funzionario del Consiglio di Sicurezza Nazionale, che ebbe il suo momento di gloria nel definire il marchio diplomatico che sarebbe stato il simbolo di una nuova era di relazioni israeliano-arabe.
A dispetto delle difficoltà tecniche e dei ritardi, l’accordo fu firmato e rapidamente accolto da altri stati arabi come il Bahrein, il Sudan e il Marocco. Ciascuno di questi paesi aveva i propri interessi e, come nel caso del Marocco, la normalizzazione dei legami con Israele era strettamente legata alla questione della sovranità sul Sahara Occidentale. Le dinamiche interne americane, con Trump che mirava a "punire" alleati politici come il senatore Jim Inhofe, hanno influenzato le scelte diplomatiche. Nonostante le obiezioni da parte di esperti e diplomatici, la decisione di Trump di riconoscere la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale era in gran parte motivata da calcoli politici interni più che da reali considerazioni strategiche in Medioriente.
In un certo senso, l’Accordo di Abramo ha rivelato una strategia inedita nella politica estera degli Stati Uniti: un approccio che cercava di ottenere risultati rapidi e misurabili a fronte di un conflitto complesso. Ma non c’era solo la diplomazia a giocare un ruolo; c’erano anche le dinamiche politiche interne, con l’amministrazione Trump che sfruttava il processo per ottenere vantaggi in vista delle elezioni presidenziali.
In definitiva, l'Accordo di Abramo non è stato semplicemente un passo verso la pace in Medio Oriente, ma piuttosto il risultato di una serie di compromessi dettati da calcoli politici, interessi nazionali e dinamiche di potere a livello internazionale. Nonostante le apparenze, la pace in Medioriente rimane un obiettivo lontano, mentre la realpolitik, alimentata da una miscela di diplomazia e giochi politici, continua a essere il motore principale di questi accordi. Ogni firmatario, da Israele agli Emirati Arabi Uniti, fino al Marocco e al Sudan, ha visto l'accordo come un mezzo per risolvere le proprie crisi interne e esterne, piuttosto che come una fine dei conflitti nella regione.
In un mondo dove la diplomazia è influenzata da fattori economici, strategici e politici, è fondamentale comprendere che anche un trattato di pace può essere una strada per raggiungere obiettivi di potere, più che una risoluzione definitiva di vecchie ostilità. La vera sfida per la regione, e per le potenze mondiali, rimane quella di costruire ponti duraturi e non solo accordi momentanei che, spesso, sono il risultato di compromessi più politici che pacificatori.
Cosa succede quando un presidente mina la sicurezza internazionale? L'eredità di Trump nelle relazioni con l'Europa e la Russia.
La visione politica di Donald Trump ha lasciato un’impronta indelebile nelle dinamiche internazionali, in particolare nel modo in cui gli Stati Uniti interagiscono con alleati storici come la Germania e con potenze rivali come la Russia. Le sue azioni hanno avuto ripercussioni che hanno attraversato vari settori, dalla sicurezza nazionale alla geopolitica, mettendo alla prova la stabilità delle alleanze internazionali. La frizione tra Trump e la cancelliera tedesca Angela Merkel, un punto culminante del suo mandato, non era solo una questione di divergenze politiche, ma un segno tangibile di come la sua visione del mondo fosse radicata in una scarsa comprensione delle dinamiche politiche interne dei suoi alleati. Trump, infatti, non sembrava riuscire a comprendere la struttura parlamentare della Germania, dove il potere esecutivo non era concentrato nelle mani di una sola persona, ma distribuito tra vari attori politici. Questo disinteresse per le specificità interne dei suoi alleati minava la capacità degli Stati Uniti di operare come una nazione leader all'interno della NATO.
Un altro esempio significativo è la relazione di Trump con la NATO stessa. Il suo attacco alle alleanze tradizionali, le sue minacce di ritirare le truppe americane dalla Germania e dall'Europa, seppur non concretizzate, hanno messo in pericolo la coesione dell'Alleanza Atlantica. La decisione segreta di ordinare al Pentagono di redigere un piano per il ritiro delle forze americane dalla Germania è stato un chiaro segnale della volontà di Trump di ridisegnare il sistema di sicurezza europeo, a prescindere dalle conseguenze internazionali. Questo ha creato preoccupazione tra i suoi consiglieri, i quali vedevano in tale mossa un potenziale indebolimento della sicurezza degli Stati Uniti e un'ulteriore apertura per l'influenza di Putin in Europa.
La strategia di Trump ha diviso anche la sua amministrazione. Jim Mattis, il suo Segretario alla Difesa, ha cercato più volte di spiegare al presidente l'importanza di alleanze come quella con la Germania, usando analogie complesse per fargli comprendere le implicazioni delle sue scelte. Nonostante gli sforzi di Mattis e di altri, Trump sembrava più concentrato su obiettivi a breve termine, spingendo per un approccio che molti vedevano come più favorevole agli interessi russi che a quelli occidentali. Le conseguenze di questa visione si sono viste più chiaramente dopo i vertici di Singapore e Helsinki, quando le politiche di Trump hanno messo sotto pressione la stabilità della politica estera degli Stati Uniti, in particolare nei confronti della Russia.
John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale, ha adottato un approccio diverso rispetto ai suoi predecessori. Invece di cercare di allinearsi con le opinioni del presidente, Bolton ha cercato di aggirarlo, stringendo alleanze con membri del Congresso e leader stranieri per mitigare le sue decisioni più rischiose. Questo ha portato a una frattura significativa tra la Casa Bianca e il suo team di consiglieri, che doveva, a volte, cercare di far approvare politiche dure nei confronti della Russia nonostante l’opposizione di Trump. La sua amministrazione è riuscita a spingere Trump ad approvare misure dure contro Mosca, come la dichiarazione che non avrebbero mai riconosciuto l’annessione della Crimea da parte della Russia. Tuttavia, la resistenza di Trump a condannare apertamente Mosca e il suo rifiuto di sostenere completamente le politiche occidentali nei confronti dell’Ucraina e delle elezioni americane dimostrano come la sua visione geopolitica fosse, a volte, in contraddizione con gli obiettivi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
L’influenza di Trump su questioni internazionali non si è limitata alla sola Europa o alla Russia, ma ha toccato anche il conflitto coreano e la situazione in Afghanistan. L'approccio di Trump alla Corea del Nord, con la sua insistenza su un accordo di pace che includeva concessioni significative, ha creato preoccupazione tra i suoi consiglieri e alleati, che temevano che un accordo avesse potuto indebolire la posizione degli Stati Uniti nell'area. Inoltre, la sua tendenza a prendere decisioni senza consultare appieno i suoi consiglieri, come nel caso della politica sull'Afghanistan, ha sollevato dubbi sul suo approccio alla politica estera.
Queste dinamiche hanno messo in evidenza il conflitto intrinseco tra il desiderio di Trump di ridurre l'impegno militare degli Stati Uniti all'estero e le necessità di sicurezza globale. Mentre alcuni dei suoi alleati nel Congresso cercavano di contenere le sue azioni, come nel caso del senatore Dan Sullivan, che cercò di limitare il ritiro delle truppe dalla Corea del Sud, il presidente rimaneva fermo sulla sua visione di una politica estera più isolazionista.
Importante per comprendere questa fase della politica estera degli Stati Uniti è la consapevolezza che, nonostante le controversie e le difficoltà interne, la figura del presidente ha avuto un impatto diretto sulle dinamiche di potere globale. Anche se la sua amministrazione ha dovuto affrontare sfide interne e critiche pubbliche, molte delle sue decisioni hanno avuto conseguenze durature sul futuro della politica internazionale, in particolare per quanto riguarda le relazioni con potenze come la Russia, la Cina e l'Europa.
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