Durante l’amministrazione Trump, la politica americana nel Medio Oriente ha assunto connotazioni particolarmente marcate, rivelando un approccio strategico orientato alla discontinuità rispetto alle amministrazioni precedenti. Il fulcro di questa trasformazione è stato l’abbandono del multilateralismo in favore di un’unilateralità aggressiva, fondata su interessi economici immediati, sul rafforzamento delle alleanze con regimi autoritari amici e su un netto allineamento con Israele.
Il ritiro degli Stati Uniti dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), noto come Iran Nuclear Deal, ha rappresentato un momento spartiacque. Sottoscritto nel 2015 da Stati Uniti, Iran, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania, il patto aveva lo scopo di limitare il programma nucleare iraniano in cambio della revoca graduale delle sanzioni economiche. Trump ha definito l’accordo come "il peggiore mai negoziato", ritirandosi formalmente nel 2018 e reimponendo severe sanzioni contro Teheran. Questo gesto ha contribuito a destabilizzare ulteriormente la regione, minando la credibilità diplomatica degli Stati Uniti e rafforzando le posizioni più oltranziste all’interno dell’establishment iraniano.
Parallelamente, l’amministrazione Trump ha rinsaldato i legami con Israele attraverso decisioni simboliche e dirompenti. Il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme ha infranto un tabù diplomatico e violato il consenso internazionale sulla natura contesa della città. Ancora più significativo è stato il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan, un territorio siriano occupato da Israele dal 1967. Queste mosse hanno consolidato il sostegno dell’elettorato evangelico statunitense e rafforzato la figura di Benjamin Netanyahu sul piano interno, ma hanno anche compromesso ogni prospettiva realistica di negoziato con i palestinesi.
Il cosiddetto "Accordo del Secolo", presentato da Jared Kushner, genero e consigliere del presidente, ha rappresentato l'apice della visione unilaterale americana. Il piano prometteva investimenti economici per i territori palestinesi in cambio della rinuncia a qualsiasi aspirazione sovrana. L’iniziativa è stata accolta con favore da parte di Israele e da alcuni Stati del Golfo, ma rigettata da Ramallah e da larga parte del mondo arabo, che l’ha vista come una legittimazione definitiva dell’occupazione.
L’amministrazione ha inoltre sostenuto la creazione di un'alleanza strategica regionale, la Middle East Strategic Alliance (MESA), pensata per contrastare l'influenza iraniana attraverso la cooperazione tra Stati sunniti, come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein. Sebbene il progetto non si sia concretizzato nella forma prevista, esso ha comunque incentivato una dinamica di polarizzazione che ha aggravato le fratture settarie già esistenti nella regione.
Anche il riconoscimento da parte degli Stati Uniti di nuovi equilibri diplomatici, come la normalizzazione delle relazioni tra Israele e diversi paesi arabi nel quadro degli Accordi di Abramo, ha rappresentato un’importante novità. Tuttavia, se da un lato tali intese hanno favorito la cooperazione economica e militare, dall’altro hanno ulteriormente marginalizzato la questione palestinese, riducendola a un elemento secondario nei rapporti geopolitici regionali.
L'approccio americano al Medio Oriente durante l'amministrazione Trump è stato quindi caratterizzato da un pragmatismo selettivo, che ha privilegiato alleanze tattiche, investimenti economici e scelte di forte impatto mediatico. L'accento è stato posto sul contenimento dell'Iran, sul rafforzamento della presenza israeliana e sulla contrapposizione netta al multilateralismo dell'era Obama. Questa visione ha generato effetti contraddittori: se da un lato ha consolidato alcune alleanze e prodotto risultati a breve termine in termini di influenza strategica, dall’altro ha indebolito la posizione americana come mediatore credibile e ha contribuito a una maggiore instabilità di lungo periodo.
Va inoltre considerato il ruolo delle risorse energetiche nella regione. Il controllo dei giacimenti petroliferi e delle vie di transito del gas ha continuato a rappresentare un elemento essenziale della strategia americana. La retorica anti-interventista di Trump non ha impedito interventi militari mirati, come l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, che ha acuito le tensioni tra Washington e Teheran. Inoltre, la lotta contro l’ISIS, pur declinata con meno enfasi pubblica rispetto all’era Obama, è proseguita attraverso l’uso di droni, operazioni speciali e collaborazioni con attori locali.
Un elemento essenziale da comprendere è che le scelte dell’amministrazione Trump in Medio Oriente non sono nate nel vuoto, ma sono state l’evoluzione di una lunga traiettoria storica che ha visto l’America oscillare tra interventismo e disimpegno. Tuttavia, la loro radicalità, spesso priva di coordinamento con gli alleati tradizionali, ha accelerato la trasformazione di un ordine regionale già fragile. Inoltre, il peso delle decisioni mediatiche e simboliche ha finito per sovrastare ogni tentativo di costruzione politica duratura, spingendo gli attori regionali verso strategie autonome o alternative, talvolta in aperta competizione con l’egemonia statunitense.
Come il Misinformazione ha Influenzato la Politica Americana e il Ruolo dei Media di Destra
Nel 2017, un episodio decisivo scosse la scena politica americana: il famoso incontro tra i membri di Antifa e gruppi di estrema destra a Charlottesville, in Virginia. Da quel momento, i media di destra e l'amministrazione Trump hanno ingiustamente presentato Antifa come una minaccia terroristica. Questa narrazione fu costruita per distogliere l'attenzione dalla crescente violenza di matrice fascista, che negli anni successivi è diventata una delle minacce più persistenti e letali negli Stati Uniti, come sottolineato dal Dipartimento per la Sicurezza Nazionale. Nonostante l'amministrazione Trump avesse dichiarato che la violenza legata all'estrema destra e al suprematismo bianco fosse il pericolo più grande per il paese, i media di destra continuarono a distorcere la realtà per evitare di affrontare questa verità scomoda.
Il 2020, con la sua elezione e le sue conseguenze, portò una nuova ondata di crisi. I media conservatori, ormai strettamente allineati alla campagna di Trump, giocarono un ruolo fondamentale nella diffusione di disinformazione. Fin dall'inizio, cercarono di costruire una teoria del complotto attorno al figlio di Biden, Hunter, prendendo spunto dal libro "Secret Empires" di Peter Schweizer, collaboratore di Breitbart. Questo libro, incentrato sulla presunta corruzione di Hunter Biden e, per estensione, di Joe Biden, fu il seme della teoria che accusava il vicepresidente Biden di aver utilizzato il suo potere per proteggere il figlio da azioni legali.
Le teorie promosse da Breitbart e da altri media di destra trovarono terreno fertile anche tra i membri dell'amministrazione Trump. Queste accuse si svilupparono ulteriormente, alimentando l'idea che Biden fosse coinvolto in uno scandalo internazionale legato all'Ucraina, fino a portare al famoso colloquio telefonico di Trump con il presidente ucraino, Zelensky, nel luglio 2019, che portò all'impeachment del presidente. Sebbene Trump non fosse stato condannato, il processo di impeachment rivelò come la campagna di Trump avesse utilizzato la disinformazione per influenzare l'elezione del 2020.
Quando apparve la storia del "laptop di Hunter Biden" nelle ultime settimane della campagna elettorale, i media di destra ne diffusero immediatamente il contenuto, senza alcuna prova di autenticità. Questo episodio divenne uno degli esempi più lampanti di disinformazione, con la New York Post che pubblicò la storia e i social media che ne bloccarono la diffusione. Sebbene i media di destra diedero ampio spazio alla notizia, gli altri giornalisti, pur investigando sulla questione, rimasero scettici riguardo alla veridicità delle informazioni, limitando la copertura.
Man mano che le elezioni si avvicinavano, e i sondaggi preelettorali dimostravano un margine di vantaggio per Biden, la campagna di Trump intensificò i suoi attacchi contro il sistema elettorale. La narrazione che i Democratici stessero cercando di rubare le elezioni, amplificata dai media conservatori, prese piede tra i sostenitori di Trump. Le modifiche al sistema di voto dovute alla pandemia furono presentate come un complotto da parte dei Democratici per truccare le elezioni. L'idea che la democrazia fosse in pericolo divenne una delle bandiere della campagna di destra.
Il giorno delle elezioni, la situazione si complicò ulteriormente con i risultati che non corrispondevano alle previsioni dei sondaggi. I risultati venivano comunicati in modo caotico, con differenze nei metodi di voto che creavano confusione e alimentavano la diffusione di teorie del complotto. Ma fu una chiamata di Fox News a stravolgere completamente il quadro: la rete, infatti, dichiarò prematuramente la vittoria di Biden in Arizona, una mossa che, se confermata, avrebbe reso quasi impossibile per Trump ottenere la rielezione.
Il ruolo del "Decision Desk" di Fox News, che da tempo cercava di mantenere una certa imparzialità, fu cruciale in questa fase. La rete, tuttavia, si trovò sotto forti pressioni politiche, non solo da parte della campagna di Trump, ma anche dai suoi alleati all'interno del partito repubblicano. Quando Fox si rifiutò di ritrattare la sua chiamata, Trump scatenò una vera e propria guerra contro la rete, dando vita a una nuova divisione tra le emittenti di destra.
Dopo la chiamata elettorale, Fox News iniziò a perdere terreno nei confronti di altri canali di destra come Newsmax, che, per attrarre gli spettatori delusi dalla decisione di Fox, intensificarono la diffusione di teorie complottistiche. Tra le personalità di destra, la linea non era più quella di raccontare i fatti, ma di sostenere senza riserve le teorie del furto elettorale. L'obiettivo era mantenere la fedeltà dei loro spettatori a qualunque costo, anche a dispetto della verità.
Tuttavia, la perpetuazione di queste teorie e la crescente sfiducia nel sistema elettorale non avrebbero avuto un impatto immediato sul risultato finale. Nonostante le proteste e le continue accuse di frode, la sconfitta di Trump fu sancita. Ma l'effetto a lungo termine fu evidente: il discorso della "frode elettorale" si radicò profondamente nella cultura politica di destra, alimentando un clima di polarizzazione che avrebbe avuto conseguenze per gli anni a venire.
Nel contesto di questo scenario, è fondamentale comprendere che la disinformazione e la manipolazione dei media non si limitano a una sola elezione o a un solo periodo storico. La loro influenza è un fenomeno sistemico che attraversa le varie fasi politiche, modificando la percezione della realtà e creando narrazioni alternative che possono minare la fiducia nel sistema democratico. La crescente dipendenza da media che amplificano le teorie del complotto, invece di promuovere il dibattito informato, è un rischio che va oltre l'elezione di un singolo presidente. È un problema che coinvolge la libertà di informazione, la stabilità democratica e la coesione sociale, con ripercussioni che potrebbero avere effetti devastanti sul futuro politico del paese.
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