La crescita e l'innovazione economica sono alimentate dalla tecnologia, ma anche dalla fiducia nella razionalità e nel rispetto per la scienza, che costituiscono la base per lo sviluppo del capitalismo. Tuttavia, tale sviluppo non è privo di contraddizioni, soprattutto quando si confrontano le forze razionali e quelle irrazionali che coesistono all'interno delle società capitaliste. Un chiaro esempio di ciò è dato dalle lotte storiche tra scienza e religione, o più specificamente tra razionalità e irrazionalità, che hanno modellato la società capitalista.

Molti dei leader dell'industria tecnologica, specialmente nella Silicon Valley, sono coscienti dell'importanza della scienza e della razionalità per il loro tipo di capitalismo. Tuttavia, lo stesso capitalismo ha sempre dovuto confrontarsi con forme di irrazionalità, come la fede quasi religiosa nel mercato e nei meccanismi economici. La nascita della "storia della sicurezza" nel contesto del capitalismo si inserisce in questo intreccio di razionalità e irrazionalità, come una narrazione che promette di proteggere dalla paura, di dare riscatto e di purificare la "tribù".

In questa narrazione, la religione assume un ruolo paradossale. Se Marx la definiva "l'oppio dei popoli", essa rappresenta un esempio lampante di irrazionalità, un modo di pensare che privilegia la fede piuttosto che la ragione. In un contesto medievale, la fede e l'emotività erano i pilastri della vita sociale, mentre il capitalismo ha scelto di privilegiare la scienza, l'evidenza empirica e la razionalità tecnologica come strumenti per costruire prosperità e verità. Tuttavia, anche il capitalismo ha le sue contraddizioni: la fede quasi mistica nel mercato e nella libertà economica si può paragonare a una sorta di religione economica, che a sua volta alimenta le emozioni irrazionali della paura e del rispetto.

La "storia della sicurezza", che si è evoluta nell'era moderna, trae forza principalmente da un appello alle emozioni: la paura e il desiderio di rispetto. In questo contesto, la sicurezza è presentata come la risposta a un pericolo esterno o interno, sia che si tratti di nemici stranieri o di individui considerati impuri o estranei alla "tribù". In questo modo, la storia della sicurezza fornisce una forma di purificazione, escludendo gli impuri per mantenere intatta la grandezza della tribù. Questi nemici interni, da espellere o purificare, sono generalmente le minoranze razziali, gli immigrati e coloro che, come i liberali, sfidano l'ordine tradizionale.

Questa retorica viene adottata da una parte della politica conservatrice per legittimare l'idea che la "tribù" di lavoratori bianchi e conservatori sia la vera espressione della nazione. In questo contesto, le frasi di leader come Hillary Clinton o le dichiarazioni di Barack Obama, che deridevano i lavoratori bianchi dell'America, sono state interpretate come una profonda mancanza di rispetto nei confronti delle sensibilità di questa parte della popolazione. La storia della sicurezza, dunque, si alimenta di un bisogno di dignità e rispetto che le classi lavoratrici sentono di aver perso nel corso degli anni.

Questa narrazione è emotivamente potente, proprio perché si appoggia su un sentimento universale di insicurezza e paura, che i leader politici sfruttano per accrescere il consenso tra le masse. La retorica della sicurezza e del rispetto funziona come un potente collante tra le classi sociali, dove il capitalismo "superiore" sembra allearsi con le emozioni più primordiali e irrazionali del popolo. Eppure, mentre questa narrazione acquisisce sempre più forza, diventa chiaro che essa minaccia la stessa sopravvivenza del capitalismo e della democrazia, dato che i principi razionali e scientifici vengono sacrificati in nome di un'unità emotiva che spinge verso un'autorità che può benissimo scivolare verso l'autoritarismo.

Un ulteriore aspetto da considerare riguarda l'evoluzione storica della "storia della sicurezza". Guardando al passato, al periodo medievale, possiamo vedere come l'assetto feudale fosse costruito su una struttura simile, dove la protezione e la sicurezza erano gestite dai signori nei confronti dei servi. Questa struttura, pur essendo un prodotto di un'epoca precedente al capitalismo, ha in sé elementi che si ripropongono nelle dinamiche moderne. Anche se il feudalesimo si è evoluto in un capitalismo che pretende di essere più razionale e democratico, molte delle sue radici irrazionali rimangono. Il conflitto tra razionalità scientifica e una crescente retorica emozionale sulla sicurezza non è quindi una novità, ma un'eredità che risale a secoli fa.

In ultima analisi, sebbene il capitalismo moderno si basi sulla razionalità e sulla scienza, deve fare i conti con le sue stesse contraddizioni: la necessità di conciliare le sue basi economiche con una crescente domanda di sicurezza emotiva e politica. Eppure, come nel caso del feudalesimo, questa ricerca di sicurezza non è mai stata priva di rischi: la "purificazione" della tribù, la repressione degli altri e l'autoritarismo sono pericoli che si celano dietro l'idea di sicurezza.

Come il racconto della sicurezza di Trump ha plasmato l'America dimenticata?

La narrazione di sicurezza proposta da Donald Trump si è sviluppata come un’evoluzione surreale eppure logica di un discorso che affonda le sue radici nel clima politico americano sin dagli anni ’80, in particolare con la rivoluzione Reagan. Questo racconto, che fa appello agli “upstairs” – le élite politiche e culturali – e agli “downstairs” – la popolazione bianca operaia e conservatrice – utilizza la paura e la difesa come strumenti per attrarre e conquistare consenso. La figura degli avversari diventa centrale, quasi una sceneggiatura di un thriller politico dove i nemici della nazione vengono identificati in modi spettacolari e spesso grotteschi: dai “bi-coastal elites” ai liberali, fino a Hillary Clinton, rappresentata come criminale da incastrare. Lo slogan “Lock her up” echeggiava nei raduni, evocando un senso di giustizia sommaria che trovava riscontro tra molti operai bianchi delusi, non solo per motivazioni ideologiche, ma per un sentito abbandono socioeconomico.

Questo sentimento di tradimento da parte dei democratici, che per anni avevano abbandonato gran parte delle politiche del New Deal e non avevano saputo rispondere alle ansie culturali di molti lavoratori bianchi, è stato abilmente strumentalizzato da Trump, che ha dipinto anche i democratici più moderati come nemici della nazione. In un discorso del 2018, egli stesso ha paragonato al “male assoluto” quei deputati democratici che non si sono alzati ad applaudire il suo discorso sullo Stato dell’Unione, arrivando a evocare perfino l’accusa di tradimento. Questa demonizzazione degli avversari era funzionale a consolidare l’identità di un “popolo dimenticato” da proteggere.

Il “Security story” di Trump è dunque un racconto di protezione, un patto con una parte dell’elettorato che si percepisce come minacciata e abbandonata. Protezione che si declina su più livelli: economico, culturale e fisico. L’elemento simbolico per eccellenza è il Muro, promesso come barriera insormontabile contro immigrati, musulmani e terroristi, una linea di difesa che incarna il bisogno di sicurezza e di appartenenza. Accanto a questo, la politica del “law and order” si traduce in un incremento di prigioni, polizia, giustizia severa e, in generale, nella volontà di reprimere quella che viene presentata come una minaccia interna, spesso rappresentata dalle minoranze urbane.

Parallelamente, il racconto si nutre di un sostegno religioso e divino, con figure evangeliche che interpretano la vittoria di Trump come un atto della provvidenza, una missione affidata da Dio per salvare l’America e i suoi “veri” cittadini. Questa intersezione tra politica e religione rafforza ulteriormente la narrazione della protezione e rende il discorso di Trump non solo un progetto politico, ma quasi un destino manifesto.

La militarizzazione della politica di sicurezza si manifesta nella minaccia di un uso “imprevedibile” delle armi nucleari e nella promessa di una guerra totale contro il terrorismo globale, mentre a livello interno la promessa di “drenare la palude” significa smantellare quelle istituzioni considerate complici di un sistema corrotto, dall’“deep state” alle università liberal fino ai media, visti come nemici interni da abbattere.

Il centro di questa storia è la figura del “popolo dimenticato”, gli “eroi americani” che Trump dichiara di voler proteggere: militari, veterani, poliziotti, piccoli imprenditori, operai del Rust Belt e bianchi evangelici. La promessa è di restituire loro dignità, lavoro, sicurezza e un futuro. La formula “America First” diventa così il vessillo di un nazionalismo protezionista, volto a ricostruire la grandezza perduta e garantire la sopravvivenza della “tribù” americana.

Oltre ciò che emerge dalla narrazione, è importante riconoscere che questo racconto ha un potere emotivo potente perché risponde a bisogni reali di riconoscimento e sicurezza, ma al tempo stesso può alimentare divisioni sociali profonde e politiche di esclusione. Comprendere la natura di questa narrazione permette di vedere come le paure, le speranze e le frustrazioni di una parte dell’elettorato siano state manipolate per fini politici, con conseguenze che riguardano non solo l’economia ma anche la coesione sociale, la cultura politica e la definizione stessa di cittadinanza e identità nazionale.

Meritocrazia e disuguaglianza: chi sale davvero le scale della casa sociale?

La narrazione meritocratica sostiene che il successo individuale dipenda esclusivamente dal talento, dall’impegno e dal carattere personale, relegando il posizionamento sociale a una questione di merito. Nella metafora della casa divisa in piani, gli abitanti del piano superiore sono i “meritevoli”, coloro che con le loro capacità e fatiche hanno conquistato il diritto di vivere nel benessere. Al contrario, chi resta “al piano di sotto” o in cantina viene implicitamente considerato meno capace, incapace o poco volenteroso, un destino che spesso viene interiorizzato come una propria colpa, alimentando un senso di stigma e esclusione. Questa giustificazione morale del sistema si presenta come “democratica”, differenziandosi nettamente dalle forme di disuguaglianza del passato basate su diritti di nascita o nobiltà divina, come evidenzia Thomas Piketty.

La meritocrazia moderna diventa così un potente racconto che scarica la responsabilità del fallimento sugli individui stessi, giustificando la dominazione e la disuguaglianza sociale attraverso presunte virtù morali e produttività. Questo approccio nasconde però una realtà più complessa: l’ineguaglianza non è semplicemente il risultato di meriti o capacità, ma è spesso il prodotto di vantaggi ereditati, reti di relazioni sociali e condizioni di partenza diseguali. Il rischio è che la società futura combini il peggiore delle disuguaglianze di epoche precedenti con le disparità salariali contemporanee, entrambe giustificate da un mito di giustizia meritocratica privo di fondamento.

Ayn Rand incarna con vigore l’etica individualistica che sostiene questo sistema, dipingendo la storia come la lotta eterna tra la mente indipendente e il collettivo oppressivo. La maggioranza che non riesce a “salire le scale” è considerata come un gruppo di “parassiti” senza diritto di pretendere altro che la loro posizione inferiore. Qualsiasi tentativo collettivo di risalire o resistere viene visto come una minaccia alla libertà individuale e al merito. La metafora della scala è cruciale: le scale sono ampie e accessibili a chi possiede “le qualità giuste” per ascendere, e le storie di successo, come quella del neurologo Ben Carson, sono invocate come prove della veridicità del sistema. Tuttavia, la stragrande maggioranza rimane ferma al piano inferiore, segno di un presunto deficit morale o personale.

La cosiddetta classe medio-professionale (PMC), collocata nel mezzanino, è interessante perché, pur incarnando in molti casi il mito meritocratico attraverso istruzione e mobilità sociale, spesso lavora a stretto contatto con il “piano di sotto” e promuove narrazioni culturali critiche verso la meritocrazia. Ciononostante, molti dei loro clienti di ceto operaio aderiscono comunque al racconto meritocratico, identificandosi più con la classe capitalista del piano superiore che con il mezzanino stesso, creando alleanze culturali sorprendenti che accentuano le divisioni sociali e culturali.

Il mito della “meritocrazia” si intreccia così con quello della “meritocrazia del merito”, cioè la convinzione che ciascuno sia responsabile solo delle proprie sorti, senza considerare le condizioni iniziali e i privilegi ereditati. Chuck Collins, nato in una famiglia benestante, ha raccontato come la metafora del vento a favore o contro nella sua esperienza personale abbia illustrato perfettamente questo meccanismo: molti credono di aver raggiunto il successo da soli, ignorando l’aiuto invisibile di fattori esterni come ricchezza, contatti e opportunità di partenza.

Questa illusione di uguaglianza delle opportunità e di assoluta responsabilità individuale è fondamentale per mantenere il sistema meritocratico e la sua legittimità sociale. Tuttavia, è necessario riconoscere che i vantaggi ereditati, le condizioni socio-economiche di origine e le reti di supporto giocano un ruolo decisivo nella distribuzione delle possibilità di successo. Ignorare questi fattori significa perpetuare un racconto che esclude la complessità delle dinamiche sociali e alimenta divisioni e disuguaglianze spesso insormontabili.

Importante è comprendere che, oltre al merito individuale, la struttura sociale, le condizioni economiche e culturali influenzano profondamente il percorso di ciascuno. Il mito meritocratico funziona da potente narrazione che può rafforzare l’ideologia dominante ma, allo stesso tempo, ostacola la consapevolezza critica necessaria per affrontare e ridurre le disuguaglianze reali. La mobilità sociale non è mai neutrale né slegata dai contesti di partenza, e la giustizia sociale richiede di tener conto di questi fattori in modo più realistico e meno ideologico.