La differenza fondamentale tra un movimento sociale e un partito di massa risiede nei loro scopi e metodi. Un partito di massa è fondamentalmente orientato a vincere elezioni e a mobilitare un numero sufficiente di rappresentanti politici per tradurre in leggi le aspettative dell’elettorato. I movimenti sociali, invece, non cercano di conquistare una maggioranza prossima, ma puntano a stimolare una minoranza appassionata, capace di spingere verso cambiamenti profondi nel modo in cui il potere viene esercitato. Il loro compito è quello di articolare visioni audaci e alternative, dando voce a domande di riforma radicale.

La vittoria elettorale del 2020 per i Democratici negli Stati Uniti rappresentò un sollievo più che una soluzione al problema di costruire una nuova maggioranza stabile. Nonostante un’affluenza straordinaria, il successo di Joe Biden fu netto ma non travolgente, con una maggioranza risicata al Senato e perdite significative alla Camera. L’elettorato rimase diviso quasi quanto in epoche precedenti, con un equilibrio precario che poteva ribaltarsi con poche decine di migliaia di voti in alcuni Stati chiave. La coalizione che riuscì a sconfiggere Donald Trump era essenzialmente la stessa che quattro anni prima aveva fallito per un soffio: cittadini istruiti, metropolitani di diverse etnie e lavoratori neri e latini furono sufficienti per conquistare il voto popolare e trasformare alcuni Stati rossi in blu.

Dall’altra parte, milioni di americani bianchi rurali o di piccole città, impiegati in settori tradizionali come l’industria manifatturiera, l’estrazione mineraria e l’agricoltura, rimasero fedeli al partito repubblicano. Molti percepivano gli attivisti democratici come una minaccia culturale ed economica, portatori di un’agenda estranea che avrebbe distrutto i loro mezzi di sostentamento e la loro identità. Questo conflitto culturale e sociale si intreccia inestricabilmente con le scelte politiche e rende la costruzione di una coalizione progressista stabile un’impresa complessa e sfidante.

Nel dibattito interno ai Democratici si confrontano due strategie: quella di un progressismo deciso e radicale che propone politiche come Medicare for All o un Green New Deal, con la speranza di superare le divisioni razziali e culturali appellandosi all’interesse economico degli elettori bianchi; e quella di un approccio più moderato, che punta a proposte meno controverse come l’aumento del salario minimo o un’opzione sanitaria pubblica, per mantenere un’alleanza fragile senza rischiare accuse di “socialismo” che potrebbero alienare una parte dell’elettorato.

La forza storica del Partito Democratico risiedeva nella sua capacità di presentarsi come il difensore dei lavoratori e delle piccole imprese contro l’élite economica. Dal New Deal in poi, questa visione si tradusse in riforme sociali e economiche radicali, come la protezione del diritto di contrattazione collettiva, la creazione di un salario minimo e il consolidamento di un welfare state capace di offrire sicurezza e sostegno a fasce sempre più ampie della popolazione, inclusi i gruppi minoritari. Questa retorica populista, che si richiamava a un capitalismo morale, aveva profonde radici nella storia democratica, da Andrew Jackson a Franklin D. Roosevelt.

Tuttavia, con l’ascesa del centrismo pro-corporate negli anni ’90 e il declino della base operaia tradizionale, il messaggio democratico si attenuò, perdendo parte della sua forza mobilitante. Barack Obama, pur riconoscendo la crisi del ceto medio, non riuscì a tradurre questa consapevolezza in riforme radicali, limitandosi a interventi come l’Affordable Care Act. Da allora, gli Stati Uniti non hanno più avuto un partito dominante in grado di incarnare e realizzare una visione coerente ed egemone. L’attuale stallo politico, in vigore da decenni, sembra perdurare senza una soluzione evidente.

Joe Biden ha espresso l’ambizione di essere il presidente più progressista dopo Roosevelt, ma per realizzare tale obiettivo occorrerebbe un partito che riesca a costruire una coalizione ampia ed energica, simile a quella che governò durante le grandi crisi del Novecento. Il destino della sua amministrazione potrebbe indicare se si è inaugurata una nuova fase di “ricostruzione” politica o se invece la divisione profonda e persistente negli Stati Uniti continuerà a paralizzare il governo di una superpotenza in declino.

Oltre ai dati elettorali e alle strategie politiche, è essenziale comprendere come le dinamiche culturali e sociali influenzino la costruzione delle coalizioni politiche. L’identità, la percezione di minacce culturali ed economiche, e la divisione tra centri urbani prosperi e periferie in declino sono elementi che plasmano il consenso e il dissenso. La sfida per i progressisti è riuscire a formulare un progetto politico che parli sia alla ragione economica sia alla dimensione culturale e identitaria degli elettori, senza rinunciare alla chiarezza delle proprie visioni e obiettivi.

Come la Politica Ambientale di Trump ha Trasformato il Dibattito sul Clima negli Stati Uniti

Nel corso della sua presidenza, Donald Trump ha intrapreso una serie di azioni politiche che hanno avuto un impatto diretto sulla gestione ambientale e sulla lotta contro il cambiamento climatico, provocando una reazione tanto dentro quanto fuori dal governo. Sebbene le sue politiche abbiano ricevuto un ampio sostegno da parte dei suoi elettori più fedeli, molte di esse hanno alimentato una crescente opposizione sia tra gli scienziati che tra i gruppi ambientalisti, alimentando conflitti politici e legali che hanno segnato gran parte della sua amministrazione.

Uno dei primi atti simbolici dell'amministrazione Trump è stato l'annullamento del Clean Power Plan di Obama con un ordine esecutivo, il 27 marzo 2017. Questa mossa segnava un chiaro segno di rottura con la politica ambientale precedente, mirata a ridurre le emissioni di gas serra nel settore energetico. Il Trump-Presidente ha anche approvato il controverso Keystone XL Pipeline, progettato per trasportare il petrolio dalle sabbie bituminose dell'Alberta, in Canada, fino alla costa del Texas, aggirando l'opposizione di lungo corso degli ambientalisti. In parallelo, l'amministrazione ha aumentato i permessi per l'esplorazione petrolifera offshore, ampliando significativamente l'accesso delle industrie estrattive alle terre pubbliche.

Un altro intervento significativo è stato il ridimensionamento del Bear’s Ears National Monument, una vasta area protetta che è stata oggetto di una disputa politica che ha visto il Dipartimento degli Interni aprire milioni di acri di terra alla produzione di petrolio e gas. La politica ambientale di Trump è stata accompagnata da una retorica apertamente scettica nei confronti della scienza del cambiamento climatico, che ha portato alla rimozione di dati relativi al clima dai siti web governativi e al cambiamento delle funzioni di molte agenzie federali, considerato da alcuni come un intervento politico nelle ricerche scientifiche.

Queste azioni non sono passate inosservate. A livello internazionale, il 2017 ha visto gli Stati Uniti decidere di ritirarsi dall'Accordo di Parigi, con Trump che annunciava che la decisione sarebbe entrata in vigore nel novembre 2020, un timing che ha dato nuova visibilità alla questione in occasione delle elezioni presidenziali. A livello interno, la reazione è stata forte, con scienziati che hanno organizzato la Marcia per la Scienza, mobilitandosi in difesa delle politiche ambientali e contro il negazionismo scientifico, soprattutto in relazione ai cambiamenti climatici. Le dimissioni di importanti figure politiche all'interno dell'amministrazione Trump, come Scott Pruitt, ex-amministratore dell'EPA, accusato di violazioni etiche, e di Ryan Zinke, ex-segretario agli Interni, hanno ulteriormente messo in luce l'incapacità dell'amministrazione di consolidare la sua politica ambientale.

Durante il mandato di Trump, anche la sua legislazione fiscale, il Tax Cuts and Jobs Act, ha incluso una disposizione che autorizzava la vendita di concessioni per l'estrazione di petrolio e gas nel rifugio naturale di Alaska (ANWR), un’area oggetto di intense controversie politiche sin dagli anni '80. Tuttavia, la sua strategia deregolatoria ha incontrato ostacoli legali significativi, con numerosi tribunali federali che hanno annullato politiche chiave, come l'autorizzazione all'uso di idrofluorocarburi, un potente gas serra, e il permesso di costruire il Keystone XL Pipeline.

Nonostante l'intensa opposizione e il ricorso a strategie legali da parte di gruppi ambientalisti e scienziati, Trump ha continuato con la sua agenda di deregolamentazione, nominando dirigenti pro-industriali come Andrew Wheeler, ex-lobbista del carbone, come amministratore dell'EPA, e portando avanti politiche che favorivano l'industria energetica e mineraria. Nel 2019, l'amministrazione ha ordinato un aumento del 30% nel disboscamento delle terre pubbliche, ha allentato le normative sulla sicurezza delle perforazioni offshore e ha consolidato il potere presidenziale per approvare nuovi oleodotti.

Il contrasto tra la politica ambientale di Trump e le crescenti preoccupazioni globali sul cambiamento climatico ha reso la questione sempre più divisiva. Mentre Trump minimizzava l'urgenza del riscaldamento globale, negando in gran parte l’esistenza di una crisi climatica, le politiche europee e le azioni di movimenti giovanili, come il Sunrise Movement, hanno messo l'accento sulla necessità di un Green New Deal. Questo piano proponeva di affrontare il cambiamento climatico non solo come un problema ambientale, ma anche come un'opportunità per creare nuovi posti di lavoro nel settore delle energie rinnovabili.

Il contrasto tra la visione di Trump e quella dei suoi oppositori ha avuto anche conseguenze elettorali. Alle elezioni di metà mandato del 2018, i democratici, spinti dalla crescente preoccupazione per il cambiamento climatico, sono riusciti a riconquistare il controllo della Camera dei Rappresentanti, in parte grazie all’appoggio di giovani candidati che hanno fatto del clima una delle principali cause politiche. Tuttavia, nonostante questi segnali di cambiamento, Trump ha continuato a ostacolare qualsiasi progresso legislativo sul clima, mantenendo una visione favorevole alle politiche estrattive e contro la regolamentazione ambientale.

Nel contesto di queste politiche, è cruciale comprendere non solo la portata delle azioni di Trump, ma anche la loro influenza sull'opinione pubblica e sulle politiche future. Le reazioni della società civile, la mobilitazione dei gruppi ambientalisti e l'intervento delle corti hanno avuto un ruolo fondamentale nel determinare l'efficacia delle politiche ambientali dell'amministrazione Trump, dimostrando quanto il cambiamento climatico sia ormai un tema centrale nel dibattito politico globale.