Nel cuore delle discipline geografiche contemporanee si è instaurato un dibattito profondo e tutt’altro che risolto sulla natura della realtà e su come essa venga conosciuta, rappresentata e, infine, utilizzata nei processi di potere. Da una parte, vi sono i geografi realisti, eredi dell’illuminismo e della fiducia nel progresso attraverso la conoscenza oggettiva, convinti che esista una realtà "là fuori", accessibile grazie al rigore metodologico e alla razionalità scientifica. Dall’altra parte, i geografi costruttivisti sociali sostengono che ciò che chiamiamo “realtà” non sia altro che il prodotto di una rete di rappresentazioni elaborate da fonti ritenute autorevoli, spesso senza interrogarsi sulla natura di tale autorità.
Il conflitto tra questi due paradigmi non è solo epistemologico, ma profondamente politico. I costruttivisti hanno evidenziato come i realisti, nel loro intento apparentemente neutrale di descrivere il mondo, abbiano spesso partecipato — consapevolmente o meno — alla legittimazione di narrazioni dominanti, funzionali al colonialismo e all’imperialismo. Le rappresentazioni spaziali, le carte geografiche, le descrizioni di popoli e territori non sono mai state innocenti: esse hanno storicamente contribuito alla costruzione di un immaginario che giustificava la conquista, l’amministrazione e lo sfruttamento di terre straniere. Non si tratta dunque di un semplice esercizio accademico, ma di un nodo in cui si intrecciano potere, conoscenza e ideologia.
Nonostante le divergenze iniziali, il confronto tra queste due visioni ha portato a un parziale riavvicinamento: la posizione oggi più diffusa è quella del realismo critico. Questo approccio riconosce l’esistenza di una realtà esterna, ma ammette che ogni tentativo di conoscerla è inevitabilmente filtrato dalla posizione culturale e ideologica del ricercatore. Allo stesso tempo, i costruttivisti hanno ammorbidito le proprie posizioni più radicali, accettando che esistano processi materiali — come il cambiamento climatico — che agiscono indipendentemente dalla nostra percezione, pur essendo sempre interpretati e articolati attraverso il linguaggio e la rappresentazione.
Negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, questa nuova consapevolezza ha portato a un’intensa stagione di studi sulla rappresentazione nello spazio geografico. Non a caso, è proprio in questo periodo che emerge la geopolitica critica, come risposta alle derive essenzialiste e deterministe della geopolitica classica. Ma proprio quando sembrava che il concetto di rappresentazione avesse raggiunto una posizione egemonica nel pensiero geografico, nuove critiche hanno iniziato a emergere.
La cosiddetta “teoria non rappresentazionale”, proposta da Thrift, non nega l’importanza della rappresentazione, ma contesta la centralità che essa ha assunto a discapito di altre forme di esperienza e conoscenza del mondo. Due sono le critiche principali. Primo, lo studio della rappresentazione tende a posizionare lo studioso in una posizione di distacco critico, quasi sopraelevata, capace di vedere “la verità” dietro le illusioni, reiterando la stessa postura oggettivante che i costruttivisti avevano inizialmente criticato nei realisti. Secondo, questa prospettiva privilegia il cognitivo, il testuale e il visivo, marginalizzando altre modalità di relazione con il mondo, come l’affettivo, il corporeo e il performativo.
Nonostante ciò, la rappresentazione resta centrale. La sua pervasività nella vita quotidiana, nei media, nella cultura popolare e nella politica impedisce di archiviarla come un concetto superato. I prodotti culturali, come le serie televisive o i film a contenuto geopolitico, continuano a modellare la percezione collettiva dello spazio e dell’“altro”. Ignorare tali dinamiche equivarrebbe a rinunciare a una delle funzioni più rilevanti dell’analisi critica: smascherare i meccanismi ideologici attraverso cui il potere si traveste da realtà naturale.
In questo contesto si inserisce lo studio dell’Impero britannico come caso emblematico di rappresentazione del luogo finalizzata al dominio. L’Impero, nella sua lunga durata, ha generato un vastissimo corpus di testi, immagini e discorsi che non solo descrivevano i territori coloniali, ma ne definivano anche la legittimità dell’appropriazione. L’idea stessa di “colonialismo” — inteso come invasione, occupazione e amministrazione di un territorio straniero per fini economici — non può essere separata dal modo in cui tali terre e i loro abitanti venivano rappresentati come esotici, arretrati, o bisognosi di civilizzazione. Il mercantilismo, teoria economica dominante nei secoli XVII e XVIII, forniva la giustificazione economica: il valore di una nazione era legato al suo bilancio commerciale positivo, e il controllo delle colonie era visto come uno strumento per garantirlo.
Ma l’evoluzione storica ha portato a una forma più sottile e diffusa di dominio, definita “imperialismo”: non più solo controllo diretto di territori, ma mantenimento di relazioni economiche ineguali, spesso mascherate da cooperazione, sviluppo o alleanza. In entrambi i casi, la rappresentazione del luogo — e, soprattutto, dell’altro — ha avuto un ruolo strutturale nella costruzione e nel mantenimento del potere imperiale.
Ciò che va compreso è che il problema non sta nella rappresentazione in sé, ma nella sua pretesa di oggettività, nella sua capacità di occultare la propria costruzione e nel suo uso strategico all’interno di relazioni di potere. Ogni rappresentazione è un atto politico. Ogni mappa, ogni fotografia, ogni descrizione etnografica è il prodotto di un contesto storico, ideologico e materiale che ne determina le forme e le finalità. Pretendere di “vedere il mondo com’è” senza interrogarsi su chi guarda, da dove guarda e perché, significa perpetuare il privilegio epistemico che ha giustificato secoli di disuguaglianza.
Importante è comprendere che l’esperienza del luogo non è mai neutra: essa è sempre situata, mediata, parziale. Ma è proprio in questa parzialità che si apre lo spazio per una geografia etica, consapevole de
Come l’assemblaggio e il patrimonio modellano la cultura popolare e la memoria collettiva
La letteratura di genere—horror, thriller, romanze—viene esplicitamente nominata in base alle emozioni che intende suscitare nel lettore o spettatore. Tuttavia, non è solo il pubblico a essere trasformato dalle dimensioni affettive dell’assemblaggio. Abbiamo già discusso come i significati della cultura pop siano coprogettati dall’incontro tra testo e fruitore. Ma ci sono anche le dimensioni materiali—l’elettricità consumata, l’usura delle apparecchiature o dei libri, i dati aggiuntivi elaborati dagli algoritmi, e così via. L’impatto affettivo della cultura popolare non è sempre evidente o misurabile, ma è comunque sempre presente.
Gli assemblaggi sono in continuo mutamento, sempre diventando qualcos’altro, e questo induce a considerarli in termini simultanei o “presenti”. Tuttavia, gli assemblaggi inglobano molteplici passati e futuri. Un esempio emblematico è l’Universo Cinematografico Marvel, dove i singoli film si collocano in sequenze tradizionali ma fanno parte di un insieme più ampio che costruisce un universo complesso. Film come Iron Man 3 presuppongono in parte che lo spettatore conosca la storia dei film precedenti; in caso contrario, essi devono richiamarla o suggerirla nel racconto stesso per evitare la perdita del senso narrativo. Il passato viene quindi reso materialmente presente, sia nel film sia nella memoria dello spettatore. Allo stesso modo, la consapevolezza di un universo più vasto induce i fan a prevedere sviluppi futuri, evidente soprattutto nel comportamento degli spettatori che restano in sala fino alla fine dei titoli di coda per cogliere anticipazioni.
La complessità di tracciare un assemblaggio—comprendere i suoi passati, futuri e le componenti materiali che lo costituiscono—è parte dell’interesse suscitato da questo concetto. Pensare attraverso l’assemblaggio permette di collegare la cultura popolare consumata con i nostri corpi che esistono nello spazio. In questo senso, la cultura popolare non si limita alla fruizione mediatica ma comprende le pratiche culturali e i rituali quotidiani. Per esempio, visitare un museo può essere considerato parte della cultura popolare se si supera la visione ristretta alla mera produzione mediatica.
Questa visione inclusiva suscita però critiche: come tracciare efficacemente tutte queste relazioni? Quando si deve fermare la catena di connessioni? Passare da un pubblico passivo a uno attivo, e poi all’assemblaggio, aumenta esponenzialmente la complessità dell’analisi. Per questo molti studiosi esitano ad adottare la prospettiva dell’assemblaggio, sebbene essa offra strumenti preziosi per indagare la geopolitica popolare del patrimonio.
Il patrimonio è un concetto centrale per comprendere come il passato si renda rilevante nel presente. Non tutto ciò che è accaduto conta allo stesso modo: molte vicende sono dimenticate o considerate superate. Tuttavia, altri elementi del passato possono ancora esercitare un’influenza se resi visibili o percepibili. Le controversie politiche sulle festività, ad esempio, riflettono tentativi di plasmare una narrazione collettiva, di definire cosa debba essere celebrato e come.
I geografi, in particolare quelli storici e culturali, hanno indagato il paesaggio come forma di patrimonio, riflesso delle dinamiche di potere e identità nel tempo. Un esempio emblematico è il paesaggio monumentale di Washington, DC, con memoriali come quelli dedicati a Lincoln, Jefferson e ai veterani del Vietnam. Questi monumenti non sono solo storie narrate, ma strutture materiali—pietra, acqua, metallo—che orientano lo sguardo e imprimono nella mente una narrazione condivisa del passato nazionale. La loro ubicazione pubblica, il peso economico e politico investito e la percezione di permanenza conferiscono a questi spazi un’autorità e un’apparente immutabilità, che danno la sensazione che la vera storia sia lì, a portata di mano.
Tuttavia, il patrimonio va oltre statue e monumenti. Può essere inteso anche come testo culturale, un sistema di segni che alcune persone producono e altre consumano. Questa dimensione testuale apre a una visione della memoria e dell’identità come processi dinamici, continuamente rinegoziati attraverso pratiche sociali e discorsive. La materialità del patrimonio è cruciale perché le sue tracce concrete—che siano monumenti, spazi, oggetti o rituali—sono il veicolo attraverso cui il passato si fa presente e agisce sul presente.
In sintesi, il concetto di assemblaggio offre una lente per comprendere la cultura popolare e il patrimonio come sistemi complessi, in cui passato, presente e futuro si intrecciano attraverso elementi materiali, pratiche culturali e relazioni sociali. La loro natura dinamica e stratificata sfida visioni semplificate e richiede un approccio che riconosca la molteplicità delle connessioni e delle temporalità coinvolte.
È fondamentale tenere presente che la comprensione del patrimonio e della cultura popolare non si esaurisce nella semplice osservazione di testi o oggetti, ma richiede attenzione alla materialità concreta e ai processi sociali che rendono significative queste tracce storiche nel presente. Inoltre, l’interpretazione critica di queste forme è indispensabile per riconoscere come esse riflettano e influenzino relazioni di potere e identità collettive.
Che ruolo svolge il pubblico nella costruzione del significato culturale e geopolitico?
Il concetto di pubblico non può più essere trattato come una massa amorfa e passiva di ricezione. Piuttosto, esso costituisce un'entità attiva e dinamica, intrinsecamente coinvolta nei processi di produzione culturale e nella riproduzione di poteri geopolitici. La distinzione tra pubblico attivo e passivo è solo il punto di partenza: il pubblico è al tempo stesso oggetto e soggetto, una struttura fluida, relazionale e stratificata, inserita nel contesto delle reti culturali e digitali che ne definiscono i contorni mutevoli.
Nel campo della geopolitica critica e degli studi culturali, il pubblico non è soltanto chi consuma contenuti, ma partecipa alla loro creazione e ridefinizione. La relazione tra affetto e assemblaggio evidenzia come la dimensione corporea e sensoriale dell’esperienza mediatica plasmi l’identità del pubblico. La percezione non è mai isolata, ma intrecciata a pratiche ambientali, tecnologiche e sociali. L'affetto non è solo emozione: è un vettore di movimento, contagio, intensità. In questa dinamica, il corpo non è neutrale, ma geopoliticamente situato, collocato nel mondo attraverso il consumo e la partecipazione.
La cultura popolare fornisce un laboratorio perfetto per osservare queste dinamiche. I videogiochi come Call of Duty o Battlefield non si limitano a rappresentare la guerra: la performano, la estetizzano, la fanno vivere al pubblico in una dimensione interattiva e partecipativa. L’utente non è più spettatore, ma agente operativo immerso in un ambiente affettivo e semiotico. Il “feedback tattile” (force feedback) e le narrazioni incorporano il corpo nella logica dell'apparato militare-mediatico. In questo modo, il pubblico non solo consuma la guerra: la sente, la vive, la integra nel proprio sé.
Allo stesso modo, nei memoriali come l’Australian War Memorial, il pubblico non è solo visitatore: è co-produttore del significato. Le esposizioni non sono neutre, ma operano come assemblaggi affettivi, che attivano emozioni, memorie e identificazioni. La disposizione spaziale, la scelta delle immagini, la materialità degli oggetti, tutto è pensato per generare una risposta corporea e relazionale. Il significato della memoria collettiva viene dunque co-costruito tra l’apparato e il pubblico
Come la cultura e il potere mediale plasmano la definizione dell’interesse nazionale nella geopolitica
Nel discorso geopolitico tradizionale, l’opposizione viene spesso trattata come un ostacolo, quasi come un tradimento rispetto al presunto interesse nazionale “migliore” dello Stato. Questa semplificazione però oscura la complessità delle realtà sociali interne a una nazione. Prendiamo ad esempio gli Stati Uniti: la liberalizzazione del commercio potrebbe giovare ai dirigenti di grandi aziende come Hollister, ma mettere in difficoltà i lavoratori tessili della Carolina del Nord. L’adozione di una prospettiva statocentrica, che considera lo Stato come l’unico soggetto legittimo per le decisioni geopolitiche, elimina di fatto dal dibattito gruppi sociali meno potenti, cancellandoli dall’orizzonte analitico.
Al centro della costruzione dell’interesse nazionale risiede il potere culturale, cruciale per persuadere la società ad adottare una visione condivisa di ciò che sia meglio per il Paese. Storicamente questo ruolo è spettato a élite maschili anziane – accademici e politici – che, grazie alla loro posizione autoritaria, hanno spesso escluso voci alternative. Gli studiosi classici della geopolitica come Mackinder e Mahan si sono presentati come detentori di una conoscenza scientifica globale, attribuendo così grande legittimità alle loro interpretazioni. I politici contemporanei si basano invece sull’accesso a esperti e agenzie di intelligence, il che conferisce loro una pretesa di comprensione superiore. Tuttavia, questa posizione di presunta oggettività può mascherare un uso strumentale della conoscenza geopolitica, che può essere distorta per servire gli interessi di chi la controlla, anche senza un’intenzionalità consapevole.
L’inevitabile parzialità di ogni prospettiva induce gli studiosi critici a evitare affermazioni assolute e a sottolineare invece come il mondo si presenti diversamente a seconda del punto di osservazione. Essi indagano come il potere culturale – spesso concentrato in mani di élite – modelli l’ordine geopolitico globale, includendo anche voci e tradizioni geopolitiche di gruppi marginalizzati.
Un esempio emblematico di questa visione ampliata della geopolitica è lo studio dell’influenza dei media. Joanne Sharp ha analizzato come la rivista Reader’s Digest abbia costruito durante la Guerra Fredda un discorso in cui gli Stati Uniti venivano posti come opposti morali dell’Unione Sovietica, rafforzando un clima anticomunista più duro persino di alcune amministrazioni presidenziali. La capacità della rivista di esercitare potere culturale ha permesso di consolidare un discorso ampiamente condiviso, benché non universalmente imposto, poiché la riuscita di un discorso dipende dalla sua capacità di allinearsi con gli interessi di vari segmenti sociali.
La storia di Reader’s Digest evidenzia come le narrative geopolitiche “in nome dell’interesse nazionale” si radichino in connessioni intricate tra media, politica e poteri di controllo, come il Comitato per le attività antiamericane e l’FBI, che punivano i discorsi contrari. L’analisi critica di queste dinamiche è essenziale per comprendere come si forgino e si mantengano le definizioni di interesse nazionale.
Gli studiosi della geopolitica critica distinguono tre principali forme di discorso geopolitico. La “geopolitica formale” è quella prodotta da accademici e think tank, che influenza la formulazione delle politiche pubbliche. Un esempio è la figura di Condoleezza Rice, che si è mossa tra il mondo accademico e quello politico, incarnando la transizione tra teoria e prassi geopolitica. La “geopolitica pratica” è il discorso politico vero e proprio, usato da leader e decisori per orientare e manipolare il dibattito pubblico secondo le proprie convenienze, come nel famoso Discorso di Addio di George Washington, che consigliava prudenza nei legami politici con altre nazioni pur promuovendo scambi commerciali.
Questi livelli di analisi dimostrano che il discorso geopolitico non è mai neutrale né univoco, ma è sempre il risultato di lotte di potere, mediazione culturale e interessi molteplici. Comprendere questa complessità è fondamentale per decostruire le narrazioni dominanti e per aprire spazi di riflessione più inclusivi, che tengano conto delle diverse realtà sociali e delle molteplici interpretazioni dell’interesse nazionale.
È importante considerare come le dinamiche geopolitiche si intreccino strettamente con le strutture di potere culturale, le identità sociali e le rappresentazioni mediatiche, e come queste influenzino non solo le decisioni politiche ma anche la percezione collettiva del mondo. La geopolitica è dunque un campo di battaglia simbolico e materiale, in cui si negoziano non solo territori e risorse, ma soprattutto significati e visioni del futuro. Per questo motivo, l’attenzione critica verso le fonti di potere e comunicazione, così come la consapevolezza delle molteplici prospettive esistenti, sono strumenti indispensabili per chiunque voglia comprendere la complessità delle relazioni internazionali contemporanee.
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