Thomas Jefferson proponeva un sistema educativo volto a formare non solo i più talentuosi e virtuosi, ma anche a instillare rispetto per questi nei cittadini che non avanzano oltre i livelli secondari. La sua visione non si limitava alla mera istruzione accademica: chi non era destinato a un’istruzione universitaria, ma aveva completato con risultati accettabili la scuola secondaria, sarebbe stato incaricato di educare la generazione successiva. In questo modo, il sistema non solo affinava il talento e promuoveva la virtù, ma garantiva che la conoscenza e la moralità si trasmettessero lungo tutta la società. Tuttavia, rimane dubbio che i “natural aristoi” coltivassero reale rispetto per coloro che restavano indietro, nonostante l’uguaglianza formale dei diritti e del voto.
Nel corso della storia americana, figure come Andrew Jackson incarnarono una reazione simile, promuovendo la pratica dei “spoils” secondo cui gli incarichi pubblici venivano assegnati sulla base della lealtà politica piuttosto che della competenza o della virtù. Jackson stesso notava come il potere prolungato potesse portare gli uomini a trascurare gli interessi pubblici, sviluppando un’indifferenza verso ciò che un uomo inesperto avrebbe trovato moralmente ripugnante.
Le virtù della classe media erano considerate fondamentali per la stabilità della repubblica. Come osservava Aristotele, la vera moderazione non deriva dall’astinenza forzata, ma da un temperamento innato; la classe media, invece, praticava temperanza e frugalità come conseguenza della propria condizione economica, del bisogno di sostentarsi e di sostenere la famiglia. L’accento sul lavoro, sulla diligenza e sull’impegno costante veniva ritenuto preservativo della moralità e della virtù nazionale. Benjamin Franklin, con ironia e insieme con sincera osservazione, sottolineava come l’industria diffusa e l’assenza di ozio impedissero lo sviluppo di vizi e mantenessero le virtù civiche.
Altri protagonisti del periodo della fondazione, come Noah Webster e Robert Coram, sostenevano l’importanza di educare i giovani anche nelle arti e nei mestieri, favorendo produttività, frugalità, autosufficienza e autocontrollo. Jefferson, seguendo Aristotele, vedeva la buona vita come intrinsecamente morale: i suoi “aristoi naturali” sarebbero stati promossi in base al talento e alla virtù, garantendo che la società avesse guide non solo competenti, ma anche eticamente elevate.
Nel dibattito sulla virtù della classe media, emergeva un contrasto con le élite più ricche. Queste ultime non condividevano le difficoltà dei cittadini medi e poveri e, di conseguenza, mostravano minore frugalità e temperanza. La classe media, costretta a lavorare con diligenza e a gestire i propri mezzi, sviluppava una moralità concreta e una moderazione che i più ricchi spesso trascuravano. La virtù civica della classe media non era quindi solo una questione morale, ma anche un prodotto della condizione economica e sociale, un elemento essenziale per la stabilità e la longevità della repubblica.
L’evoluzione contemporanea mostra come la percezione dell’istruzione sia stata spesso ridotta a mera funzione economica. La considerazione del valore di una laurea come mezzo per migliorare lo status sociale o ottenere benefici finanziari rischia di oscurare la sua funzione formativa e morale, sottolineata dai padri fondatori. L’istruzione, concepita come strumento di virtù e talento, dovrebbe contribuire a formare cittadini responsabili e consapevoli, capaci di bilanciare interesse personale e bene comune.
È importante comprendere che la stabilità e la prosperità di una repubblica non derivano solo dall’accumulo di ricchezza o dal successo individuale, ma dalla diffusione di virtù civiche, dalla responsabilità sociale e dalla capacità della classe media di esercitare autocontrollo, diligenza e frugalità, fungendo da pilastro morale e operativo della società. L’educazione, intesa non come strumento per il mero progresso economico, ma come mezzo per coltivare talento, virtù e responsabilità, rimane centrale per la salute politica e morale della repubblica.
Come si deve gestire ciò che non può essere controllato?
Imparare “a poter non essere buono, e a usare questa facoltà secondo la necessità” significa saper disporre delle virtù e dei vizi secondo le esigenze del momento. È la lezione di Machiavelli, che nel descrivere Giulio II sottolinea come la sua impetuosità fu virtù soltanto perché il tempo le fu favorevole. Se le circostanze fossero mutate, egli sarebbe rovinato per la sua incapacità di mutare insieme ai tempi. La gestione politica, dunque, nasce dall’esigenza di creare nuove forme e nuovi ordini capaci di rispondere a nuove necessità: Roma seppe reinventarsi, mentre la Firenze del segretario fiorentino rimase imprigionata in antichi schemi.
Gestire, per Machiavelli, non significa aderire a una misura fissa tra virtù e vizio, ma saper passare dall’una all’altro secondo la necessità. Le repubbliche devono decidere se affrontare le difficoltà dell’impero o governare le proprie tensioni interne rinunciando a esso. Così anche nel campo della guerra: non si possono “gestire grandi cose in spazi piccoli”, né governare con durezza senza perdere il sostegno dei cittadini. La prudenza del gestire consiste nel disporre ogni elemento in vista di un fine, sapendo che la via mediana è inaccessibile.
Il luogo in cui Machiavelli parla più spesso di gestione è nel lungo capitolo delle congiure dei Discorsi. Gestire una congiura significa governarne le fasi: il pericolo non è solo nell’esecuzione, ma anche nel suo “gestirla” e nel mantenerla dopo compiuta. Tuttavia, questo legame tra gestione e cospirazione rivela qualcosa di più profondo: che la congiura è la forma originaria della gestione stessa. Ogni impresa che implichi calcolo, previsione e direzione delle passioni e dei comportamenti degli uomini è, in fondo, un atto di gestione.
Il gestire, a differenza del cospirare, non vive necessariamente nel segreto, ma trae la sua forza dal saper coordinare elementi diversi affinché il risultato emerga come naturale, senza che i gestiti ne percepiscano l’intero disegno. L’arte sta nel mantenere la distanza tra la conoscenza e l’effetto, tra ciò che è visibile e ciò che è realmente diretto. Per questo Machiavelli distingue tra la gestione, che prepara, e l’esecuzione, che manifesta.
Chi gestisce deve essere dotato di un certo “umore” inclinato al comando. Gestire i grandi è impresa ardua, poiché essi tramano di continuo; gestire il popolo, invece, significa soddisfarne i desideri semplici e insieme regolare l’ambizione dei suoi capi. In entrambi i casi, la gestione nasce dalla consapevolezza che la scelta migliore non è sempre possibile, e che occorre agire secondo le necessità mutevoli del tempo.
La gestione è alla virtù ciò che la prudenza è alle virtù aristoteliche: essa guida l’uso strategico delle qualità umane e cerca di ottenere il massimo risultato dall’orientamento e dalle inclinazioni altrui. Non è un agire cieco, ma una forma di intelligenza pratica che si esprime nel disporre gli altri e se stessi verso un fine comune o privato. Tuttavia, come la congiura, la gestione non si mostra apertamente: essa può essere intuita, ma non vista.
Nella trasformazione industriale della modernità, questo concetto si amplia. Ciò che in Machiavelli era arte politica, diventa principio dell’organizzazione economica. Gli “umori” collettivi non sono più solo oggetto di governo, ma materia di direzione industriale, di controllo manageriale, di mobilitazione delle energie produttive. La gestione si secolarizza: da strumento del principe, si trasforma in logica dell’impresa.
Locke, preferendo l’“industrioso e razionale” all’uomo “contentioso e litigioso”, orienta l’ambizione verso il lavoro e il commercio, sottraendo energie alla lotta politica. Dopo la Rivoluzione industriale, questa traslazione diventa sistema: la gestione delle masse si esercita non più nel senato o nella piazza, ma nella fabbrica, nella burocrazia, nella struttura economica. L’abilità nel “gestire gli uomini” passa dall’arte del potere a quella della produzione.
Per comprendere questo passaggio, il lettore deve intendere che Machiavelli non è un teorico della crudeltà, ma dell’intelligenza necessaria. La sua idea di gestione non è dominio, ma consapevolezza che la vita politica e sociale è
Il pensiero di Alfarabi sulla politica senza fondamenti religiosi: un'analisi del regime Trump
Il pensiero di Alfarabi offre un'interessante prospettiva sulla politica senza basi religiose, che risulta particolarmente utile nel contesto dell'ascesa di Donald Trump e del suo stile di governo. Alfarabi, filosofo medievale islamico, distingue tra due tipi di governanti: quello tradizionale, che si ispira alle pratiche dei suoi predecessori, e quello che governa attraverso l'astuzia e la furbizia, imparando dalla propria esperienza. Quest'ultimo tipo di governante, secondo Alfarabi, non avrebbe bisogno della filosofia come guida, in quanto la sua saggezza deriverebbe dall'osservazione e dall'adattamento pratico. Trump, con la sua predilezione per l'azione concreta e la sua apparente indifferenza per principi universali, si inserisce perfettamente in questa categoria. La sua leadership non si basa sulla ricerca di una verità oggettiva, ma su una continua negoziazione e adattamento alle circostanze, il che lo rende un esempio perfetto di governante "astuto" piuttosto che "filosofo".
Inoltre, la visione di Alfarabi sulla separazione tra Stato e religione, e sulla libertà di parola, potrebbe essere vista come una riflessione interessante per comprendere come un regime senza un fondamento religioso possa funzionare in pratica. Alfarabi avrebbe probabilmente osservato con stupore il fatto che in una democrazia come quella americana la religione e la politica siano separati, eppure il popolo sia ugualmente disposto a seguire un leader che spesso sembra sfidare le tradizioni morali e filosofiche. L’analisi del comportamento di Trump, infatti, potrebbe essere letta come una sorta di manifestazione di un nuovo tipo di leadership, quella che non ha bisogno di un sistema di valori immutabili, ma si adatta e risponde rapidamente alle situazioni, spesso attraverso il populismo.
Il concetto di "pragmatismo" di Trump, quindi, rappresenta un punto di distacco dalle tradizionali visioni filosofiche del governo. La sua politica, che spesso sembra rifiutare qualsiasi tipo di universalismo, si concentra su una visione del mondo che privilegia il particolare rispetto al generale. Un esempio di questo approccio è la sua politica economica nazionale, che ha messo in discussione i benefici della globalizzazione in favore di un ritorno alla protezione delle industrie locali e al nazionalismo economico.
Alfarabi, pur essendo consapevole della necessità di una politica che non fosse solo idealista, avrebbe probabilmente visto in Trump una figura problematica proprio perché la sua "astuzia" sembra mancare di una giustificazione morale o razionale. L’astuzia, che in Alfarabi è strettamente legata alla prudenza, nel caso di Trump sembra essere più una mera ricerca di vantaggi immediati piuttosto che una guida che rispetti i principi morali o filosofici.
Un altro aspetto interessante per comprendere il governo di Trump è la sua assenza di educazione filosofica e politica profonda, come sottolineato da Xenofonte. Se confrontiamo Trump con i leader descritti da Xenofonte, come Glaucon, Meno e Hiero, vediamo che condivide con loro caratteristiche ignobili: ignoranza, avidità e intemperanza. Xenofonte, attraverso i suoi ritratti, mostra come tali vizi rendano un uomo inadatto a governare. Trump, come i personaggi di Xenofonte, non ha una preparazione filosofica solida, ma un pragmatismo spicciolo che lo rende capace di manipolare le situazioni per il proprio beneficio, ma che gli impedisce di fornire una guida morale o razionale ai suoi seguaci.
Nonostante questo, il successo di Trump nell'attirare il sostegno popolare può essere compreso anche attraverso l’analisi di Machiavelli, che distingue tra i "grandi", gli aristocratici, e il "popolo", la massa. Trump ha saputo parlare alla parte più frustrata e dimenticata della società americana, promettendo un ritorno a un'epoca d'oro che in realtà non è mai esistita. Il suo appello alle emozioni e alle preoccupazioni immediate del popolo si inserisce in un contesto di "politica dei grandi", ma allo stesso tempo sfrutta l’insoddisfazione popolare per guadagnare consenso, come descritto da Machiavelli nei suoi studi sul potere e sulla manipolazione delle masse.
A livello pratico, però, ciò che la figura di Trump e la sua politica sollevano è un'importante riflessione sulla capacità di un regime di funzionare senza un forte ancoraggio morale o filosofico. Se Alfarabi avesse potuto osservare la politica americana moderna, avrebbe potuto ritenere che la separazione tra la religione e la politica non necessariamente riducesse la qualità del governo, ma avrebbe senza dubbio sollevato dubbi sulla mancanza di una base filosofica per guidare le scelte politiche e le relazioni internazionali. La sua filosofia suggerisce che il governante deve essere guidato non solo dall’esperienza, ma da una comprensione profonda della giustizia e della verità universale, qualcosa che sembra mancare nel caso di Trump.
Il concetto di una politica che non necessita di filosofia è decisamente controverso e pone interrogativi sulla stabilità e la moralità di un governo del genere. Una politica puramente pragmatico-empirica, se da un lato può essere efficace nel breve periodo, rischia di non fornire un senso di direzione o di giustizia a lungo termine, lasciando spazio a un governo che si regge più sull’improvvisazione che su una visione coerente e razionale del bene comune.
Come il Populismo e la Democrazia si Scontrano: Le Lezioni dalla Storia e il Caso Trump
Nel corso della storia americana, il concetto di governo democratico ha subito diverse interpretazioni e applicazioni. Ogni presidente ha affrontato sfide uniche, ma pochi come Abraham Lincoln hanno dimostrato una combinazione di prudenza politica, strategia militare e convinzione morale. La sua decisione di emancipare gli schiavi, per esempio, seppur profondamente radicata nella moralità, fu anche un atto pratico, dettato dalle necessità della guerra civile e dalla sua comprensione dei vari gruppi sociali e politici che dovevano essere coinvolti in questo cambiamento epocale. Lincoln sapeva che la mossa non sarebbe stata popolare in tutte le regioni, ma la sua azione rifletteva una visione più grande, quella di un’America unita e libera, un ideale che sarebbe stato realizzato con l'approvazione della Tredicesima Emendamento.
La sua abilità nel navigare attraverso le sfide politiche era complementata dalla sua capacità di lavorare con il Congresso, ottenendo l'autorizzazione a prendere decisioni difficili, come la sospensione del writ di habeas corpus, un atto che, pur sollevando questioni costituzionali, veniva giustificato dalla necessità di preservare l'Unione durante la guerra. Lincoln non solo rappresentò l'equilibrio tra il rispetto della legge e l'azione urgente, ma incarnò anche il perfetto esempio di "presidenza democratica", caratterizzata dall'ascolto e dalla guida paziente della volontà popolare.
Se si guarda al governo odierno sotto la presidenza di Donald Trump, emerge un contrasto netto con il passato. La sua ascesa politica è stata alimentata da un crescente disincanto nei confronti delle istituzioni politiche tradizionali, prima nel Partito Repubblicano e poi anche tra i Democratici, dove il Senatore Bernie Sanders ha sfidato apertamente la leadership del suo partito. Trump ha vinto la presidenza grazie alla sua audacia, alla sua celebrità televisiva e alla capacità di parlare in modo diretto e provocatorio a un elettorato che si sentiva escluso dal sistema. Tuttavia, la sua presidenza ha messo in evidenza i limiti del sistema presidenziale, con un comportamento impulsivo che ha alienato gli alleati internazionali e messo a dura prova le norme costituzionali. La sua gestione della politica interna ed estera è stata spesso caratterizzata da un totale disinteresse per il consenso delle altre fazioni politiche e da un atteggiamento di sfida verso la diplomazia tradizionale.
La critica alla sua presidenza non si limita alla politica estera, ma si estende anche all'interno degli Stati Uniti, dove la sua leadership ha minato la fiducia nelle istituzioni governative. L'atteggiamento di Trump, così distante da quello di figure storiche come Hamilton o Lincoln, riflette un'escalation del populismo che può essere pericoloso se non adeguatamente bilanciato dalle istituzioni. Mentre Hamilton sosteneva un esecutivo energico ma rispettoso delle leggi, Lincoln utilizzava il suo potere per mobilitare il paese in tempi di crisi. Al contrario, Trump ha mostrato un disinteresse per la coerenza e la continuità governativa, orientandosi invece verso un tipo di politica che spesso sfocia in dichiarazioni confuse e azioni impulsive.
Il popolo americano, che ha portato Trump al potere, lo ha fatto in gran parte perché stanco delle élite politiche, ma oggi ci si trova di fronte alla domanda cruciale: cosa significa realmente la democrazia in un'epoca di populismo estremo? La democrazia non è solo un governo per il popolo, ma anche un governo in cui le decisioni sono prese da individui capaci di mediare tra le diverse visioni politiche e sociali, come fece Lincoln. Se le istituzioni diventano troppo deboli per guidare e moderare i desideri popolari, il rischio di un governo che si allontana dalla legge e dalle norme democratiche diventa sempre più concreto.
In sintesi, la presidenza di Trump rappresenta una fase critica nel quale il populismo ha messo in luce le fragilità di un sistema che, seppur progettato per resistere a derive autoritarie, non è immune alle sfide poste da una leadership impulsiva e disorganizzata. La soluzione non sta tanto nel cercare un altro Lincoln, ma nel rafforzare le istituzioni politiche che possano mediare tra le necessità del popolo e quelle della democrazia. La lezione più importante da trarre è che la democrazia non può essere ridotta alla volontà immediata della massa, ma richiede un equilibrio tra il rispetto delle istituzioni e la responsabilità di chi governa.
La lezione di Lincoln nell'era di Trump: Identità, Tradimento e la Riflessione sulla Democrazia Americana
Nel contesto della politica americana contemporanea, le nozioni di "tradimento" e "identità" sono diventate temi fondamentali che definiscono non solo l'agenda politica, ma anche la percezione che una parte significativa della popolazione ha della propria nazione e delle sue radici storiche. L'elezione di Donald Trump ha rispecchiato, in molti modi, la riscoperta di un'idea distorta di identità americana, una visione che ha escluso deliberatamente certi gruppi dalla definizione di "vero" americano. Questo concetto, che ha permeato la politica dei suoi sostenitori, si è radicato in pregiudizi razziali, xenofobi e nazionalisti, con la creazione di un modello di cittadinanza che esclude chi non si conforma a un'idea etno-culturale di America.
Trump e il suo movimento hanno portato alla luce un tipo di retorica che vede l'America come una nazione di "veri americani" che deve essere difesa da minacce esterne e interne. Questi "veri americani" sono quelli che, secondo questa visione, appartengono a una specifica razza o cultura, mentre altre identità, come quella musulmana, messicana o afroamericana, sono considerate inferiori o addirittura un pericolo per l'integrità della nazione. La politica dell'immigrazione, ad esempio, è stata oggetto di violenti attacchi da parte di Trump e dei suoi sostenitori, che hanno descritto gli immigrati musulmani come potenziali terroristi e i messicani come parassiti o criminali. L'idea che persino i bambini nati negli Stati Uniti da genitori non documentati non meritassero la protezione costituzionale ha sollevato forti preoccupazioni, evidenziando come questa visione escludente abbia radici profonde nell’interpretazione della democrazia americana.
A ciò si aggiunge il fatto che la "democrazia herrenvolk" (democrazia della razza padrona), che affonda le sue radici nella storia della schiavitù americana, ha avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione del pensiero politico di ampie fasce della popolazione americana. Questo concetto, che afferma che il potere politico e la libertà debbano essere riservati solo ai bianchi, ha modellato la società americana fin dai tempi della colonizzazione. La presenza della schiavitù e la sua funzione economica ed ideologica hanno infatti determinato un sistema che escludeva i neri dalla partecipazione alla vita politica e sociale, mentre allo stesso tempo garantiva ai bianchi, anche quelli più poveri, una forma di "libertà" che si fondava sull’oppressione altrui. Questa dicotomia è ancora viva nel modo in cui le disuguaglianze e i pregiudizi razziali si perpetuano nel tempo.
Questa visione è tuttavia strettamente legata alla condizione di esclusione delle minoranze e alla manipolazione della loro identità politica, che diventa un elemento fondamentale per consolidare il potere del gruppo dominante. Negli ultimi decenni, un certo tipo di retorica politica ha utilizzato l’opposizione all’"elite cosmopolita", vista come traditrice della vera essenza americana, per rafforzare un sentimento di appartenenza tra i "veri americani", i quali vedono in questo "tradimento" la causa del loro impoverimento economico e della loro disillusione politica. Il concetto di "traditore della razza", così come veniva espresso dai consiglieri di Trump, è diventato un elemento centrale nella narrazione che distingue il popolo "vero" dagli altri.
In un’epoca dominata dalla polarizzazione politica, Trump ha saputo manipolare queste tensioni sociali per creare un’identità collettiva che si definiva in opposizione agli altri. La sua retorica si è basata sulla divisione in amici e nemici, un principio caro alla filosofia politica di Carl Schmitt, che vede la politica come un’arena dove la lotta contro l’altro è l’unico scopo. Questa concezione ha alimentato un’agenda politica che non cerca di negoziare o di risolvere conflitti attraverso il consenso, ma punta esclusivamente alla vittoria contro il nemico, inteso come qualsiasi entità che minaccia la purezza e la grandezza della nazione.
È importante comprendere che questa retorica non è solo un fenomeno di resistenza alla modernità o alle trasformazioni sociali, ma un processo che attinge da radici storiche ben radicate nella società americana. La paura del cambiamento e la sensazione di perdere il controllo su una "cultura americana" tradizionale sono stati alimentati da un sistema che ha sempre visto il mantenimento del potere come un gioco a somma zero. Quando si parla di "tradimento" da parte degli avversari politici, non si fa solo riferimento a una differenza di opinioni, ma a una visione dell’America come un luogo esclusivo che deve rimanere tale, in contrasto con chi cerca di cambiarne la composizione sociale, culturale ed economica.
Al di là di questi aspetti, è cruciale notare che, mentre la politica americana sta diventando sempre più una lotta simbolica per il predominio della propria identità, il sistema democratico si trova a fronteggiare sfide immense. In un contesto in cui le istituzioni sembrano non riuscire a rappresentare i bisogni di tutti i cittadini, l’unico terreno in cui si può esercitare il potere è quello identitario. È essenziale che il lettore comprenda che la lotta per la definizione dell’identità americana è tutt’altro che nuova; è una questione che affonda le radici nella storia della nazione, ma che oggi, più che mai, si ripropone in forme nuove e potenzialmente più pericolose. La vera sfida per l'America non sta solo nell'affrontare chi viene etichettato come "nemico", ma nel riconoscere la pluralità e la complessità della propria società, trovando un modo per integrarla senza cadere nell'illusione di una purezza etnica o culturale impossibile.
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