Secondo Kant, la via per superare il "stato di natura", che è uno stato di guerra, consiste nell’unirsi liberamente in una federazione. La soluzione, come Kant stesso afferma, è il foedus pacificum, una "federazione pacifica" che mira a "porre fine a tutte le guerre per sempre", preservando e assicurando "la libertà di ogni stato in sé, insieme a quella degli altri stati federati". Le nazioni che entrano in questo accordo legale si sottomettono volontariamente alla legge della pace, dichiarando fuori legge la guerra. In questo sistema, ogni stato conserva la propria indipendenza e la propria autonomia, ma si impegna a rispettare le leggi comuni che regolano la convivenza pacifica.
Kant distingue la sua visione cosmopolita da quella di alcuni teorici kantiani contemporanei, che sostengono l'idea di una comunità mondiale sotto un regime di diritti umani universali, fino a ipotizzare la creazione di uno stato globale. Sebbene Kant non arrivi a questo punto, preserva l'idea degli stati indipendenti, richiamandosi a pensatori precedenti come Althusius, che ha elaborato una concezione federale di unione di stati sovrani, in cui l’autonomia politica di ciascun ente rimane centrale.
Johannes Althusius, uno dei primi pensatori a sviluppare una teoria politica del federalismo, partiva da un concetto teologico e filosofico del foedus o "patto", che per lui costituiva la base di qualsiasi ordine politico. Althusius applicava il concetto di "alleanza" non solo a livello interstatale, ma anche all'interno della città e della provincia. Per lui, la politica si organizzava attraverso una rete di alleanze tra comunità locali, ognuna delle quali aveva il diritto di autogovernarsi, pur rimanendo parte di un'unità politica più ampia.
Nel suo sistema, la comunità universale si forma attraverso il patto dei "membri" del regno, che sono le città, le province e le regioni, unendosi per formare un corpo politico attraverso il "consenso", la "fiducia" e la "promessa". Il concetto di sovranità, per Althusius, non risiede in un’autorità centrale e assoluta, ma è distribuito tra le singole entità politiche che formano la federazione. La sovranità del popolo è una sovranità condivisa, esercitata da una molteplicità di corpi politici distinti, ma legati tra loro da un patto di alleanza. In questo senso, la teoria di Althusius offre una visione di potere distribuito, dove ogni entità conserva una certa autonomia e indipendenza, pur facendo parte di un'unità politica sovranazionale.
Questa concezione di sovranità diffusa è particolarmente significativa nel contesto dell’impero, dove Althusius mirava a limitare l'influenza di un’autorità centrale per proteggere e preservare l’autonomia locale. Althusius non cercava di espandere l’autorità politica su scala globale o universale, ma concentrava il suo pensiero sulla protezione delle realtà politiche locali e provinciali. La sua riflessione, dunque, si muoveva dentro un conflitto tra l'idea di un impero universale e il valore della politica locale, dove la federazione rappresenta un compromesso tra il cosmopolitismo e la necessità di mantenere un ordine politico regionale.
L'approccio di Althusius, pur non essendo propriamente cosmopolita, non esclude la possibilità di una coesistenza tra idealità cosmopolite e l’esigenza di rafforzare la sovranità locale. La sua teoria di un federalismo che si basa sull'accordo tra le varie comunità politiche offre una visione interessante della tensione tra l’individualità degli stati e la cooperazione internazionale. Sebbene Althusius non abbracci completamente il cosmopolitismo, il suo pensiero dimostra che le idee di comunità universale e di federazione possono convivere, pur riconoscendo e limitando la preminenza di un’autorità centrale.
Althusius, pur non cercando di costruire un modello universale, offre un’importante riflessione sulla sovranità e sulla natura delle alleanze politiche. La sua teoria suggerisce che la politica non debba essere concepita come un processo di unificazione forzata sotto un potere centrale, ma piuttosto come un insieme di accordi volontari tra entità politiche che si uniscono per preservare la pace e la libertà reciproca. Questo approccio mantiene un equilibrio tra il localismo e la cooperazione internazionale, un modello che potrebbe essere rilevante anche per la discussione contemporanea sulle sfide della globalizzazione e della governance internazionale.
La riflessione di Althusius, dunque, ci invita a pensare a un federalismo che non cancella le identità politiche locali, ma le armonizza all'interno di una struttura più ampia di cooperazione. Il vero valore di tale pensiero risiede nella possibilità di costruire un sistema politico che rispetti la diversità e l'autonomia degli stati, pur promuovendo la pace e la collaborazione tra di essi. Questo è un concetto che, pur radicato nel passato, continua ad essere di grande attualità.
Qual è il ruolo della nazione e dell'internazionalismo proletario secondo Marx?
Secondo Marx, la nazione non scompare con la nascita della classe operaia, ma diventa un elemento fondamentale nella lotta di classe. Il concetto di nazionalità, tuttavia, non deve essere inteso nel senso borghese del termine. La classe operaia deve costituirsi come nazione, ma questa nazione non può essere limitata ai confini statali esistenti, poiché, in quanto classe oppressa, non può godere della sovranità popolare. Il lavoratore, anche se cittadino, vive una condizione di sfruttamento, dominazione e alienazione che gli impedisce di appartenere, in senso pieno, alla comunità politica della sua nazione. Questo paradosso spinge Marx a sostenere che la classe operaia non può confinare la propria lotta per i propri interessi esclusivamente dentro i confini della propria nazione.
Marx osserva che l'accumulazione capitalista è di natura cosmopolita e che le classi capitaliste collaborano tra loro su scala internazionale. Per questo motivo, l'internazionalismo proletario rappresenta la "prima condizione della loro emancipazione" (Marx 1986c, 501). In tale prospettiva, l'internazionalismo proletario non solo si oppone all'imperialismo, ma è visto come la chiave per ottenere quelle aspirazioni cosmopolite di giustizia universale, che in un contesto capitalistico sono irrealizzabili. La solidarietà internazionale tra i lavoratori è, quindi, il fondamento su cui può poggiarsi un processo di liberazione che superi le attuali relazioni di proprietà che alimentano lo sfruttamento di alcune nazioni da parte di altre.
Il passaggio alla pace perpetua, secondo Marx, non può essere un obiettivo disgiunto dalla rivoluzione permanente. Le lotte nazionali per l'indipendenza sono significative, ma solo se legate a una visione più ampia di trasformazione sociale. Marx, pur sostenendo le lotte nazionali contro gli oppressori imperialisti, distingue tra una lotta per l'indipendenza nazionale che non si collega ad un programma di riforme sociali e una lotta che cerca la democrazia e la giustizia. Esemplare in questo senso è la sua valutazione del movimento indipendentista irlandese, dove distingue tra il nazionalismo ristrettamente territoriale e il movimento più ampio, che si batte per la democrazia e la giustizia sociale.
In questo contesto, Marx non nega il valore delle lotte per l'indipendenza nazionale, ma insiste sul fatto che queste devono sempre essere collegate alla lotta più generale della classe operaia per la liberazione sociale. È possibile che Marx vedesse la nazione come uno strumento della lotta di classe internazionale: la nazione può essere importante, ma solo nella misura in cui contribuisce alla causa più ampia della liberazione della classe proletaria. Se la nazione diventa strumento di oppressione o di divisione all'interno della lotta di classe, perde il suo significato progressivo.
Marx distingue chiaramente tra cosmopolitismo borghese e internazionalismo proletario. Sebbene Marx considerasse il cosmopolitismo borghese come un espediente per giustificare il dominio capitalistico su scala globale, c'è una rara accezione positiva di cosmopolitismo, che si riferisce a quei movimenti e individui che, pur non avendo una patria indipendente, partecipano alla lotta per la giustizia universale. Un esempio di questa visione si trova nel suo sostegno per l'indipendenza della Polonia, che Marx definisce "il soldato cosmopolita della rivoluzione", evidenziando il ruolo dei polacchi nelle lotte per l'indipendenza e nella rivoluzione francese del 1848. In altri casi, come nell'esperienza del movimento democratico in Belgio, Marx parla di "cosmopolitismo" in un senso positivo per descrivere l'incontro tra rivoluzionari di diverse nazioni, tra cui molti esuli tedeschi.
Tuttavia, anche in questi esempi, Marx sembra voler enfatizzare il legame tra la lotta nazionale e la lotta di classe. Nonostante il suo atteggiamento critico nei confronti del cosmopolitismo borghese, Marx considera positivo il cosmopolitismo che emerge da movimenti di liberazione e lotte internazionali che cercano di unire i popoli sotto l'egida della giustizia sociale e della lotta contro l'oppressione.
L'internazionalismo proletario di Marx, quindi, non è solo una questione di alleanze tra lavoratori di diverse nazioni, ma una visione complessiva di trasformazione della società globale, che supera le divisioni nazionali e porta alla liberazione universale. Marx sembra suggerire che solo attraverso un'internazionalizzazione della lotta di classe e un superamento delle strutture imperialiste esistenti sarà possibile costruire un mondo che vada oltre la guerra, l'oppressione e la divisione.
In definitiva, la nazione, nella visione marxista, ha un valore relativo: serve come strumento per l'emancipazione della classe lavoratrice, ma solo se la sua lotta è indirizzata verso un cambiamento sociale profondo e unione internazionale. L'internazionalismo proletario diventa, quindi, non solo una necessità strategica, ma anche un principio morale che guida la lotta contro il capitalismo e l'imperialismo, e verso un futuro in cui le barriere nazionali saranno superate dalla solidarietà universale tra i popoli oppressi.
Come può il pensiero inceptuale guidare la transizione ontologica dell’essere-nel-mondo?
Il pensiero inceptuale rappresenta una critica qualificata della modernità, anticipando una trasformazione profonda dalla soggettività rappresentazionale verso un “andare sotto” (untergehen) di Dasein. Questo processo di essere e di caduta implica un’avventura gettata e una decisione che si differenzia radicalmente dagli attivismi autogiustificati dell’epoca presente. Tuttavia, oggi sembra difficile prevedere questa differenza, poiché il nostro modo di ragionare, basato sull’essere e su una generalità tipologica, preclude la questione del “chi”, rendendo così gli autentici custodi anonimi e inefficaci. Tale preclusione deriva dal ragionamento astratto in termini di tipologie categoriali, controllo calcolativo e distinzioni soggetto/oggetto rappresentazionali.
Il pensiero trasfigurante, al contrario, risuona nel riposare, nel voltarsi verso il “dis-possessivo” (enowning), nel ricordare la via nel salto che si dispiega nel fondamento di Dasein. La necessità di un altro inizio emerge proprio dalle tendenze appiattenti e omogeneizzanti della sempre più globale Machenschaft, la quale, nella sua macchinazione, impedisce un’apertura sostenuta e paziente verso un ricevimento ricettivo e resiste a un nuovo fondamento. Nonostante ciò, la possibilità di enowning continua a risuonare con l’emergere di questo nuovo fondamento. In tal senso, il pensiero inceptuale costituisce un luogo fertile nel quale l’incontro tra il primo inizio, che necessita ancora di essere riconquistato, e l’altro inizio, che deve ancora dispiegarsi, diventa il “vuoto fertile” per il salto.
Il pensiero inceptuale si caratterizza per una ritrosia meditata, una pratica sigetica, dove il silenzio diviene la possibilità essenziale del discorso, spesso coltivata in piccole comunità educative di arti liberali. L’ontologia temporale dell’epoca oscilla tra l’eco e l’ultimo dio, configurandosi come un’epoca di bisogno sottostante, ma al contempo feconda per atti creativi di alto livello. Heidegger vede infatti una buona sorte riservata al poeta, inteso non solo come artista, ma come maestro e precursore del pensiero inceptuale, capace di mantenere una riservatezza tale da rinunciare all’effetto immediato.
La lunga preparazione per decisioni poietiche autentiche si svolge in mezzo agli esseri e al loro divenire divino, creando uno “spazio aperto-tra” (open-between), in cui il tempo-spazio libero permette l’accoglienza della verità negli es
Laicità, Multiculturalismo e Libertà Religiosa: Riflessioni sulla Società Francese Contemporanea
In un contesto globale sempre più interconnesso, la Francia, come molte altre nazioni, si trova a dover affrontare un delicato equilibrio tra laicità, pluralismo culturale e le libertà religiose. La questione della laicità, intesa come separazione tra lo stato e le istituzioni religiose, è al centro del dibattito riguardante la libertà religiosa, specialmente in relazione alla crescente presenza di musulmani nel paese. La legge del 1905, che ha istituito la separazione tra chiesa e stato in Francia, è stata pensata per garantire una società equa, in cui nessuna religione prevaricasse sulle altre. Tuttavia, l'applicazione di questa legge ha sollevato numerose problematiche, in particolare riguardo alla visibilità di religioni non cristiane, come l'Islam.
Una delle questioni principali emerse in questi dibattiti riguarda l'interdizione dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche, in particolare il velo islamico. La legge del 2004 ha vietato l'uso di qualsiasi simbolo religioso ostentato nelle scuole pubbliche, una misura che, sebbene miri a tutelare la neutralità religiosa dello stato, ha suscitato molte critiche. In primo luogo, la legge è stata vista come una discriminazione indiretta nei confronti delle donne musulmane, per le quali indossare il velo è considerato un obbligo religioso. La discussione che ne è derivata non riguarda solo la religione, ma anche la cultura e l'identità, sollevando interrogativi sul significato di laicità in una società pluralista.
Laborde, pensatrice critica del repubblicanesimo ufficiale, suggerisce che la separazione tra stato e religione, come applicata in Francia, non solo limita la libertà religiosa, ma compromette anche la coesione sociale. Secondo la sua visione, l'approccio ufficiale alla laicità non solo esclude l'espressione religiosa, ma ignora anche le necessità di una società multiculturale e cosmopolita. L'autrice propone un'interpretazione della laicità che vada oltre la semplice neutralità, suggerendo che lo stato francese dovrebbe riconoscere e compensare i disagi storici e contemporanei delle minoranze religiose, in particolare dei musulmani, attraverso la concessione di fondi pubblici per la costruzione e manutenzione delle moschee. Questo, secondo Laborde, sarebbe un modo per correggere gli squilibri derivanti dai benefici storici che la Chiesa cattolica ha ricevuto dallo stato francese nel corso dei secoli.
La proposta di Laborde si inserisce in un contesto di riconoscimento delle disuguaglianze storiche. Prima della legge del 1905, la Chiesa cattolica in Francia ha beneficiato di un trattamento privilegiato, con le chiese e le cattedrali finanziate dallo stato. Nonostante la separazione formale, il mantenimento di questi edifici da parte delle autorità pubbliche continua ancora oggi. Questo, secondo Laborde, crea una situazione in cui la minoranza musulmana, non avendo ricevuto gli stessi vantaggi storici, si trova svantaggiata rispetto alla possibilità di esercitare liberamente la propria religione. Il finanziamento statale per le moschee, secondo l'autrice, non sarebbe solo una misura di compensazione per il passato, ma anche un modo per garantire la piena libertà religiosa per tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa.
In definitiva, la discussione sulla laicità in Francia mette in luce una serie di contraddizioni intrinseche. Da un lato, l'intento di garantire la neutralità dello stato è lodevole e dovrebbe proteggere le persone da discriminazioni religiose. Dall'altro, il modo in cui questa neutralità è applicata, in particolare attraverso il divieto dei simboli religiosi nelle scuole, può risultare in un trattamento ingiusto nei confronti delle minoranze religiose, che vedono in queste leggi una forma di esclusione. In questo contesto, la visibilità religiosa diventa non solo una questione di fede, ma un simbolo di identità culturale e politica. La questione, quindi, non è solo se i simboli religiosi dovrebbero essere permessi o vietati nelle scuole pubbliche, ma come lo stato dovrebbe trattare la diversità religiosa in una società sempre più multiculturale e globale.
Inoltre, è importante comprendere che, nonostante l’apparente neutralità dello stato, ogni legge e politica pubblica ha un impatto diverso sulle varie comunità religiose e culturali. La storia francese, segnata da secoli di predominanza del cristianesimo, ha creato un ambiente in cui le minoranze, in particolare i musulmani, si trovano a dover lottare per affermare la loro visibilità e i loro diritti religiosi. L’adozione di una laicità che riconosca e compensi queste disuguaglianze storiche potrebbe, pertanto, rappresentare un passo verso una vera inclusione. Questo non significa ignorare i principi della laicità, ma adattarli alle realtà di una società moderna, sempre più eterogenea e interconnessa.
Come l'Intelligenza Artificiale e l'Apprendimento Automatico stiano rivoluzionando la scienza dei polimeri
Come i media manipolano il consenso: la falsità e la propaganda nell'era moderna
Come La Magia e l'Incredibile Si Mescolano nella Vita del Selvaggio West

Deutsch
Francais
Nederlands
Svenska
Norsk
Dansk
Suomi
Espanol
Italiano
Portugues
Magyar
Polski
Cestina
Русский