L’apparente crescita economica durante la presidenza Trump è stata ampiamente celebrata come prova del suo successo, ma tale narrazione ignora le radici reali del miglioramento economico. Il recupero dell'economia statunitense ha avuto origine ben prima dell'elezione di Trump, durante i due mandati di Barack Obama, a seguito della più grave crisi finanziaria dal 1929. Trump ha attribuito a sé stesso un merito sproporzionato, ignorando deliberatamente il lungo processo di stabilizzazione già in corso. La disoccupazione in calo e l'espansione economica erano tendenze già in atto.

I tagli fiscali da 1.5 trilioni di dollari, in gran parte destinati ai più ricchi, hanno avuto effetti notevoli sul deficit federale, contribuendo all’aumento del debito pubblico, che nel 2019 ha superato i 22 trilioni di dollari. Tuttavia, questi tagli non sono stati i più grandi della storia americana in proporzione al PIL. Secondo il Committee for a Responsible Federal Budget, i tagli dell’era Reagan e quelli del dopoguerra furono più significativi. Gli effetti a lungo termine promessi dai fautori dell’economia dell’offerta non si sono concretizzati, mentre le entrate pubbliche sono diminuite, aggravando ulteriormente il disavanzo.

Le principali cause del deficit includono la spesa militare smisurata — quasi un trilione di dollari, superiore a quella dei dieci successivi paesi messi insieme — i tagli fiscali stessi e le spese obbligatorie in programmi sanitari e assistenziali. È rilevante notare che questi ultimi non includono la Social Security, che resta finanziata separatamente fino almeno al 2034.

Sul piano politico, Trump ha costruito una narrazione parallela fondata sulla menzogna. Malgrado il consenso unanime dell’intelligence americana circa l’interferenza russa nelle elezioni del 2016 per favorirlo, Trump ha negato ripetutamente ogni coinvolgimento straniero, rigettando le conclusioni di istituzioni statunitensi. Anche il Comitato di Intelligence del Senato ha confermato le valutazioni della comunità di intelligence del 2017. Durante le udienze del 2019, l’ex procuratore speciale Robert Mueller ha ribadito che Trump non è stato esonerato e potrebbe affrontare accuse dopo la fine del suo mandato, incluso l’ostruzionismo alla giustizia.

Numerosi episodi hanno segnato la presidenza di Trump con dichiarazioni false e fuorvianti: dalla millantata mediazione nella questione del Kashmir, immediatamente smentita dal governo indiano, alla falsa affermazione di aver concesso il primo aumento salariale ai militari dopo dieci anni. In realtà, gli stipendi militari crescono regolarmente ogni anno e l’aumento del 2019 (2.6%) non è mai stato del 10% come Trump affermava.

Il confronto con Richard Nixon è inevitabile. Nixon, che si dimise per aver interferito con un'indagine federale, pagò un prezzo politico altissimo. Trump, invece, ha adottato tattiche simili con maggiore audacia e minori conseguenze immediate. Secondo il rapporto Mueller, Trump chiese all’allora direttore dell’FBI James Comey di interrompere l’indagine su Michael Flynn, dopo aver fatto sgomberare la stanza, indicando piena consapevolezza dell’improprietà della sua richiesta. Più tardi, ordinò al consigliere legale della Casa Bianca di licenziare Mueller, in un tentativo diretto di ostacolare l’indagine. L’intento era palese: proteggersi da una possibile responsabilità penale.

Trump ha esercitato pressioni sul procuratore generale affinché non si recusasse dall’indagine russa, cercando un alleato istituzionale pronto a insabbiare eventuali rivelazioni. Le prove raccolte indicano un disegno coerente di abuso del potere esecutivo a fini personali. Coan osserva che Trump non solo ha cercato di manipolare il sistema giudiziario, ma ha anche incoraggiato la lealtà dei suoi collaboratori coinvolti nelle indagini con promesse implicite di clemenza.

Se Trump non dovesse subire conseguenze legali o politiche per queste azioni, il precedente sarebbe devastante. Il caso Watergate, che una volta segnava il limite invalicabile per un presidente, verrebbe superato dal paradigma Trump: in un clima politico iperpolarizzato, il presidente diventa intoccabile, un'autorità al di sopra della legge.

Secondo il biografo Michael D’Antonio, il comportamento di Trump ha raggiunto livelli di devianza paragonabili ai giorni più oscuri dell’amministrazione Nixon. La sua condotta non solo mina l’integrità della presidenza, ma rappresenta un pericolo sistemico per la democrazia costituzionale americana.

È fondamentale per il lettore comprendere che la sovrapposizione tra menzogna sistemica, populismo economico e autoritarismo istituzionale non è un'anomalia temporanea, ma un potenziale nuovo standard di governance. Il danno maggiore non risiede nei singoli atti, ma nella loro normalizzazione. Quando la verità diventa flessibile, la legge diventa negoziabile e la democrazia smette di essere una garanzia: diventa un’illusione.

Quali sono le punizioni più gravi per i giornalisti oggi?

L'integrità della libertà di stampa è messa a dura prova in molti angoli del mondo. Il caso di Jim Acosta, giornalista della CNN, che ha visto revocato il suo accredito dalla Casa Bianca, è emblematico di una tendenza crescente a limitare l'accesso dei media e la libertà di espressione. Il motivo? La sua insistenza nel porre domande scomode a Donald Trump e ai suoi amministratori, in un contesto in cui il rispetto per il potere sembra prevalere sull’impegno a garantire un'informazione indipendente. Tuttavia, il fatto che il suo accredito fosse stato ritirato senza una giustificazione legale adeguata e poi restituito dimostra che esistono ancora dei limiti legali alla repressione della libertà di stampa, anche negli Stati Uniti. Seppur considerata una delle forme più leggere di intimidazione, la revoca di un accredito è solo uno dei tanti ostacoli che i giornalisti devono affrontare nel loro lavoro.

L'arresto di giornalisti è un passo successivo, ma altre forme di repressione sono purtroppo più gravi. Un esempio drammatico viene dalla Birmania, dove due giornalisti di Reuters, Wa Lone e Kyaw Soe Oo, sono stati incarcerati nel 2017 con l'accusa di aver violato una legge coloniale sulla protezione dei segreti di Stato. La loro colpa era stata quella di aver cercato di fare luce sulla violenta repressione della minoranza musulmana Rohingya. La loro prigionia ha suscitato una condanna internazionale, ma non ha fatto cessare la politica repressiva del regime birmano. Liberati nel 2019, questi giornalisti sono però solo un esempio di come il giornalismo investigativo venga messo a rischio in numerosi paesi.

Le punizioni più gravi, tuttavia, non si fermano all'imprigionamento. Nel mondo, ogni anno, centinaia di giornalisti vengono uccisi per il solo fatto di fare il loro mestiere. Secondo Reporters Without Borders, nel 2017 sono stati 65 i giornalisti uccisi nel corso del loro lavoro, con il numero che include sia i giornalisti professionisti che i cosiddetti "citizen journalists". Molti di questi omicidi sono deliberati e mirati a fermare le indagini o a zittire chi denuncia corruzione o abusi di potere. Tra i paesi più pericolosi per i giornalisti ci sono stati la Siria, il Messico e l'Afghanistan, dove i giornalisti rischiano la vita a causa di conflitti armati o violenze legate a gruppi di narcotrafficanti.

Ma l'uccisione non è l'unico mezzo per zittire i giornalisti. Le tecniche di intimidazione sono molteplici e includono l'uso di leggi su diffamazione o contro il terrorismo, che spesso vengono applicate in modo arbitrario per mettere sotto pressione i giornalisti. Inoltre, l'accusa di "fake news" è diventata un’arma potentissima per screditare i reporter e delegittimare le notizie scomode, soprattutto quando i governi o i potenti vogliono evitare il controllo pubblico.

Una delle più gravi problematiche riguarda l’impunità per i crimini contro i giornalisti. In molti casi, gli assassini rimangono impuniti, e questo perpetua un ciclo di violenza che rende ancora più pericoloso il mestiere del giornalista. Secondo il "Global Impunity Index" di Reporters Without Borders, la Somalia è il paese con il più alto numero di omicidi irrisolti di giornalisti, seguito da paesi come l'Iraq, la Siria e il Messico. Tuttavia, i dati mostrano che anche in paesi considerati democrazie consolidate, come l'India, il Brasile e le Filippine, i crimini contro i giornalisti non vengono puniti adeguatamente, creando un clima di paura e sfiducia.

Una delle principali cause di questa impunità globale è l'assenza di meccanismi internazionali che obblighino i governi a rendere conto dei crimini contro la libertà di stampa. Nonostante le dichiarazioni di intenti da parte delle organizzazioni internazionali, come l'ONU o l'Unesco, l'impunità rimane la norma. Inoltre, le strategie per proteggere i giornalisti non sono uniformi e spesso sono insufficienti a garantire un reale cambiamento. Organizzazioni come ARTICLE 19 e Reporters Without Borders stanno spingendo per riforme legali più rigorose e per un maggiore impegno da parte degli Stati a rispettare e tutelare i diritti dei giornalisti.

È fondamentale che i giornalisti continuino a esercitare la loro funzione critica, specialmente in un contesto globale dove la libertà di stampa è minacciata da poteri statali e non statali. Tuttavia, affinché possano svolgere questo ruolo in modo efficace, è necessario che la comunità internazionale si unisca per rafforzare le leggi che proteggono i giornalisti e fare in modo che chi commette crimini contro la libertà di stampa venga perseguito e punito severamente.

Come sviluppare un pensiero critico autentico nell’educazione superiore e il ruolo insostituibile delle arti liberali

Il pensiero critico è un processo mentale raffinato che coinvolge la concettualizzazione, l’analisi, la sintesi e la valutazione delle informazioni raccolte o generate dall’osservazione, dall’esperienza e dalla riflessione. Si fonda su un approccio chiaro, razionale, aperto e supportato da prove empiriche, mettendo in discussione le verità apparentemente assodate, specialmente quando derivano da fonti parziali o di parte. Nel contesto delle scienze sociali, e in particolare nella sociologia accademica, il pensiero critico si traduce nella capacità di sostenere le proprie idee con fonti accademiche sottoposte a peer review, un meccanismo che, pur non essendo infallibile, garantisce un controllo esperto e approfondito della veridicità delle informazioni.

Le università e i college rappresentano gli ambienti per eccellenza dove questo tipo di pensiero può essere sviluppato e affinato. Le istituzioni di istruzione superiore, e in modo particolare le scuole di arti liberali, mirano a formare la persona nella sua globalità: non soltanto trasmettendo conoscenze specifiche, ma coltivando capacità intellettuali come la ragione, la razionalità e il giudizio critico. Le discipline umanistiche e le scienze sociali, tra cui l’antropologia culturale, l’economia, la scienza politica, la sociologia, la storia, la filosofia e la letteratura, sono le più indicate per questo scopo, poiché affrontano questioni sociali, culturali e politiche complesse, stimolando una riflessione profonda e articolata.

In netto contrasto, la formazione orientata alle STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), così come i percorsi professionali o tecnici, tendono a indirizzare gli studenti verso competenze specifiche per una rapida collocazione lavorativa. Questa differenza si traduce spesso in una visione lineare del successo professionale, mentre le arti liberali privilegiano un percorso più articolato, meno immediato, che valorizza il processo di apprendimento e di sviluppo del pensiero critico più della mera acquisizione di dati e fatti. Albert Einstein sintetizzò brillantemente questa distinzione: non è importante memorizzare i fatti, facilmente reperibili nei libri, quanto piuttosto allenare la mente a pensare in modo originale e autonomo.

La vera sfida dell’educazione superiore risiede quindi nella capacità di superare l’enfasi eccessiva sulle discipline STEM a scapito delle scienze sociali e umanistiche. Se da un lato la specializzazione tecnica è fondamentale per l’innovazione e il progresso scientifico, dall’altro la riduzione del ruolo delle arti liberali mina la formazione di cittadini consapevoli, capaci di affrontare con senso critico e riflessione i problemi sociali e culturali contemporanei. Tale squilibrio ha ripercussioni non solo sulla qualità dell’insegnamento e sulla disponibilità di docenti qualificati, ma anche sulla capacità delle istituzioni universitarie di adempiere alla loro missione più alta: formare studiosi e pensatori capaci di dialogare con la complessità della società.

Oltre alla necessità di acquisire competenze tecniche, l’educazione deve quindi promuovere la capacità di valutare criticamente le informazioni, comprendere il contesto e i significati più profondi dei dati, e affrontare le contraddizioni insite nelle diverse realtà sociali. Non si tratta semplicemente di sapere “cosa” o “come” ma di comprendere “perché” e “con quale implicazione”, sviluppando un pensiero che sia flessibile, curioso e attento alle sfumature.

Infine, è cruciale riconoscere che la conoscenza non si limita a un insieme di fatti da memorizzare, ma è un processo dinamico che richiede una mente allenata a porsi domande, a mettere in discussione e a sintetizzare informazioni da fonti diverse. Nel mondo contemporaneo, dove l’accesso ai dati è immediato e onnipresente, il valore aggiunto di un’educazione superiore risiede nella capacità di trasformare tali dati in sapere critico e consapevole. Solo così si può aspirare a una cittadinanza informata e a una società che valorizzi non solo l’efficienza tecnica, ma anche la profondità intellettuale e l’impegno etico.