Le malattie gastrointestinali eosinofile (EGID) comprendono un gruppo sempre più riconosciuto di patologie gastroenteriche, caratterizzate da sintomi gastrointestinali cronici e da una risposta infiammatoria eosinofila densa nei tessuti del tratto gastrointestinale. Queste malattie, che possono interessare diverse aree del sistema digestivo, sono classificate in base alla localizzazione della coinvolgimento. Tra le principali forme di EGID vi sono l'esofagite eosinofila (EoE), la gastrite eosinofila (EoG), l'enterite eosinofila (EoN) e la colite eosinofila (EoC), con l'esofagite eosinofila che rappresenta la forma più comune e studiata. Per arrivare alla diagnosi di EGID è fondamentale escludere altre cause di eosinofilia, un passaggio che richiede una valutazione attenta e scrupolosa.

L'esofagite eosinofila, una malattia infiammatoria cronica del tratto esofageo, è una delle principali manifestazioni delle EGID. Essa è associata a una reazione allergica mediata dal sistema immunitario, che provoca l'infiltrazione di eosinofili nelle mucose esofagee. I pazienti affetti da EoE presentano sintomi legati alla disfunzione esofagea, come difficoltà nell'alimentazione, dolore addominale, vomito e in alcuni casi, fallimento nella crescita nei bambini. Negli adulti, i sintomi tipici includono disfagia (difficoltà nella deglutizione) e impattamento alimentare, in cui gli alimenti rimangono bloccati nell'esofago. La malattia è spesso associata a una predisposizione genetica, in particolare in individui che presentano un background atopic, come asma, allergie alimentari o dermatiti atopiche.

Le EGID, sebbene rare, sono in aumento nella popolazione globale, con una prevalenza che va da 2.1 a 8.2 casi ogni 100.000 persone. In particolare, la frequenza dell'esofagite eosinofila è in crescita, con stime che indicano una prevalenza di 10-57 casi ogni 100.000 individui. La malattia colpisce principalmente i maschi bianchi, ma ha una distribuzione geografica ed etnica piuttosto ampia. La prevalenza in aumento può essere attribuita non solo a una maggiore consapevolezza e miglioramento diagnostico, ma anche a fattori ambientali e genetici ancora da chiarire completamente.

La patogenesi delle EGID e, in particolare, dell'esofagite eosinofila, è in gran parte mediata da una risposta infiammatoria del tipo Th-2, scatenata da allergeni ambientali o alimentari. L'infiltrazione eosinofilica che si osserva nelle mucose del tratto gastrointestinale è una risposta a questi allergeni, che attirano e reclutano eosinofili nelle aree infiammate. Gli eosinofili, sebbene abbiano un ruolo cruciale nelle risposte immunitarie, la cui funzione precisa nel tratto gastrointestinale è ancora oggetto di studio, sono noti per il rilascio di sostanze tossiche, come granuli citotossici, citochine, e mediatori lipidici. Queste molecole hanno un impatto diretto sul danneggiamento dei tessuti, contribuendo alla persistenza dell'infiammazione e alla cronica disfunzione del tratto esofageo. Inoltre, recenti studi genetici hanno rivelato che alcuni marcatori molecolari, come la citochina interleuchina-5 (IL-5), l’eotaxina-3 e la timica stromal lymphopoietin (TSLP), sono fortemente associati all'EoE, suggerendo una base genetica e immunologica ben precisa.

I segni clinici delle EGID e dell'EoE sono molteplici e variabili, a seconda della regione anatomica colpita e dell'età del paziente. Nei bambini piccoli, i sintomi più comuni sono difficoltà nell'alimentazione, vomito e dolore addominale, mentre negli adulti e nei giovani adulti, i sintomi prevalenti includono disfagia e episodi di impattamento alimentare. In generale, fino al 75% dei pazienti con EGID ha una storia personale di atopia, un fatto che dimostra l'esistenza di un legame tra le allergie e l'insorgenza delle EGID. Inoltre, circa l'80% dei pazienti presenta eosinofilia periferica, che, pur essendo un marker indicativo di EGID, può anche manifestarsi in altre patologie allergiche, riducendo la sua affidabilità come indicatore di attività della malattia.

Una comprensione completa delle malattie gastrointestinali eosinofile non può prescindere dal riconoscimento dell'importanza della diagnosi precoce e della gestione mirata. Il trattamento di queste condizioni è altamente individualizzato, tenendo conto della gravità della malattia, della risposta ai trattamenti allergologici e della presenza di eventuali comorbidità. L'approccio terapeutico principale include l'eliminazione degli allergeni attraverso diete speciali e farmaci mirati, come i corticosteroidi e gli inibitori dell'interleuchina-5 (IL-5). Inoltre, studi clinici recenti hanno evidenziato l'efficacia di alcuni farmaci biologici per il trattamento dell'EoE, aumentando le opzioni terapeutiche disponibili per i pazienti.

Infine, è importante che i pazienti con EGID vengano monitorati regolarmente per le complicazioni a lungo termine, come la stenosi esofagea e il rischio aumentato di sviluppare altre patologie gastrointestinali, come l'esofago di Barrett. La diagnosi tempestiva, il trattamento personalizzato e il monitoraggio continuo sono essenziali per migliorare la qualità della vita dei pazienti e per prevenire danni irreversibili al tratto gastrointestinale.

Quali sono le cause, i sottotipi e le implicazioni della stitichezza cronica?

La stitichezza è un disturbo intestinale ampiamente frainteso, spesso ridotto a una semplice infrequenza nelle evacuazioni. Tuttavia, secondo i criteri di Roma IV, essa è definita da sintomi persistenti di evacuazione difficile, infrequente o incompleta. Nella pratica clinica, i pazienti riferiscono più frequentemente una sensazione di svuotamento incompleto o uno sforzo eccessivo piuttosto che una reale riduzione nella frequenza delle evacuazioni. Altri sintomi comuni includono gonfiore addominale, senso di pienezza e la necessità di manovre manuali per facilitare la defecazione.

Oggi si riconosce che la stitichezza cronica si colloca all’interno di uno spettro che comprende la stitichezza a transito lento, la sindrome dell’intestino irritabile con predominanza di stitichezza (IBS-C) e i disturbi dell’evacuazione, con una notevole sovrapposizione tra le manifestazioni cliniche. Il passaggio da un sottotipo all’altro nel tempo è possibile e frequente, rendendo la classificazione dinamica più che statica.

La stitichezza primaria si suddivide in tre forme: stitichezza da transito rallentato, disordini evacuativi e IBS-C. È fondamentale, prima di giungere a questa diagnosi, escludere le forme secondarie, che sono attribuibili a fattori esterni al colon o all’apparato anorettale. Le cause secondarie includono l’uso di farmaci (tra cui oppioidi, antidepressivi, antipsicotici, calcio-antagonisti, anticolinergici), condizioni metaboliche (ipercalcemia, insufficienza renale, disidratazione), disturbi endocrini (ipotiroidismo, diabete, gravidanza), malattie neurologiche (ictus, lesioni spinali, Parkinson), sindromi miopatiche (sclerodermia, amiloidosi), e fattori strutturali come ostruzioni meccaniche, prolasso rettale o tumori. La depressione, la malnutrizione e la sedentarietà completano il quadro eziologico.

La stitichezza cronica ha una prevalenza stimata del 14% a livello mondiale, con valori compresi tra l’11% e il 18% a seconda delle definizioni utilizzate. È circa due volte più frequente nelle donne rispetto agli uomini, ed è associata a età avanzata e a basso status socioeconomico. L’impatto economico è considerevole, sia in termini diretti (cure sanitarie) che indiretti (giorni di lavoro persi).

Tra i fattori di rischio figurano la disidratazione, l’immobilità, una dieta povera di fibre, recenti interventi chirurgici addominali o pelvici, malattie critiche, uso prolungato di farmaci e la compresenza di più patologie. Alcune etnie e condizioni sociali svantaggiate sono anch’esse associate a un rischio maggiore.

Nelle forme acute, invece, è essenziale escludere condizioni gravi come l’occlusione intestinale, l’ileo, pseudo-ostruzioni, traumi o cambiamenti repentini della dieta o dello stile di vita.

La motilità colica normale è regolata da una rete intricata di recettori meccanici e chimici situati nella parete intestinale, i quali interagiscono con i sistemi nervoso autonomo ed enterico. Le cellule interstiziali di Cajal agiscono come pacemaker della muscolatura liscia colica. Le contrazioni ad alta ampiezza, che si verificano soprattutto dopo i pasti e al risveglio, sono responsabili dei movimenti di massa nel colon. Il tempo medio di transito colico si aggira intorno alle 36 ore.

Il meccanismo della defecazione coinvolge muscoli addominali, retti, il puborettale e gli sfinteri anali. A riposo, lo sfintere anale interno mantiene un tono costante, mentre il puborettale contribuisce alla chiusura dell’angolo anorettale. Quando le feci raggiungono l’ampolla rettale, il riflesso inibitorio rettoanale induce il rilasciamento dello sfintere interno. Lo sfintere esterno, sotto controllo volontario, si contrae. La defecazione avviene con il rilassamento volontario dello sfintere esterno e del muscolo puborettale, associato alla contrazione dei muscoli addominali e al conseguente abbassamento del pavimento pelvico.

La dissinergia del pavimento pelvico, o defecazione dissinergica, è un disordine funzionale in cui si verifica una contrazione paradossa o un rilasciamento inadeguato della muscolatura anorettale durante lo sforzo evacuativo. In circa due terzi dei casi, si tratta di una condizione acquisita, frequentemente legata a traumi, esperienze dolorose associate all’evacuazione o alterazioni comportamentali. Il risultato è una compromissione della propulsione rettale e un ostacolo meccanico all’evacuazione, che spesso porta il paziente a ricorrere a manovre compensatorie.

È importante che il lettore comprenda che la stitichezza non è un'entità clinica monolitica, ma piuttosto un sintomo con una molteplicità di cause, meccanismi e manifestazioni. Spesso, la semplice assunzione di lassativi non solo è inefficace, ma rischia di cronicizzare il problema senza affrontarne le basi fisiopatologiche. La diagnosi accurata richiede un'analisi completa della storia clinica, dell’uso di farmaci, delle abitudini alimentari, dell’attività fisica, delle eventuali comorbidità sistemiche e di un’attenta valutazione funzionale dell’asse intestino-pavimento pelvico. L’interdisciplinarietà nella gestione — che includa gastroenterologi, fisioterapisti del pavimento pelvico, nutrizionisti e psicologi — rappresenta spesso l’unica via efficace per un trattamento personalizzato e duraturo.

Come Diagnosticare e Gestire la Disfagia Esofagea: Approccio Clinico e Trattamenti

La disfagia esofagea è un sintomo complesso che può essere causato da una vasta gamma di disturbi, molti dei quali richiedono un approccio diagnostico approfondito e un trattamento personalizzato. Quando i test convenzionali non forniscono una risposta immediata, è fondamentale adottare una strategia clinica più articolata per identificare la causa sottostante.

La manometria esofagea rappresenta il test più sensibile per la diagnosi dell'acalasia, un disturbo motilità esofagea caratterizzato dall'assenza di onde peristaltiche esofagee. Questo test può rilevare anomalie anche prima che vengano osservati cambiamenti radiografici o endoscopici. La fluoroscopia può essere utile per visualizzare la dilatazione dell'esofago tipica dell'acalasia, con l'aspetto classico a "becco d'uccello", che indica un tono eccessivo dello sfintere esofageo inferiore. Sebbene la diagnosi clinica di acalasia possa essere abbastanza evidente, la combinazione di manometria, fluoroscopia e endoscopia spesso fornisce un quadro più completo della condizione.

Il monitoraggio dell'impedenza esofagea è un altro strumento utile, che consente di misurare direttamente il flusso del bolo alimentare. Viene principalmente utilizzato per rilevare il reflusso non acido, ma può essere impiegato anche nell'indagine della disfagia. L'impedenza planimetrica (EndoFLIP), in particolare, è utile per valutare la compliance esofagea e ha mostrato benefici nella previsione della prognosi per pazienti con acalasia, esofagite eosinofila (EoE) e in quelli che non rispondono alla terapia con inibitori della pompa protonica (PPI).

Nel trattamento della disfagia, la gestione iniziale dipende dalla causa sospetta. In caso di sintomi esofagei non rispondenti alla terapia con PPI, il percorso clinico può variare: l'endoscopia è una scelta diagnostica valida, consentendo sia una valutazione visiva diretta che la possibilità di biopsie, per identificare fattori eziologici e intraprendere interventi terapeutici, come la dilatazione. I test radiologici come l'esofagramma con bario, pur non offrendo la stessa capacità terapeutica, possono essere utili in presenza di lesioni prossimali o disturbi motori.

L'esofagite eosinofila è oggi una delle cause più comuni di disfagia nei pazienti giovani. Si ritiene che questa condizione sia correlata a una predisposizione allergica, in cui la deposizione di eosinofili porta a un rimodellamento dell'esofago e una ridotta distensibilità, con la formazione di anelli e stenosi. La diagnosi si basa sulla biopsia esofagea che rileva più di 15 eosinofili per campo ad alto ingrandimento. Anche se le caratteristiche endoscopiche tipiche includono anelli circonferenziali, solchi longitudinali e placche bianche (indicative di microascessi eosinofili), fino al 20% delle endoscopie possono apparire normali, il che sottolinea l'importanza di eseguire sempre una biopsia nei pazienti con disfagia.

Il trattamento dell'esofagite eosinofila varia a seconda della gravità della condizione. Circa il 25% dei pazienti mostra un miglioramento o una risoluzione dei sintomi con l'uso di PPI. Tuttavia, quando la deposizione eosinofila persiste nonostante la terapia acida, è indicato l'uso di steroidi (topici e sistemici), modifiche dietetiche e dilatazione endoscopica intermittente. Non esiste un consenso unanime su quale debba essere la terapia iniziale, e gli approcci variano in base alle specifiche esigenze del paziente e alla risposta alla terapia.

Nel caso di dilatazione endoscopica per pazienti con EoE, è importante considerare che, sebbene efficace nel sollievo dei sintomi, questa procedura non influenza l'infiammazione sottostante, e i benefici sono spesso temporanei. Inoltre, le prime segnalazioni di lesioni mucose gravi e perforazioni durante la dilatazione hanno portato a una cautela iniziale, ma gli studi più recenti hanno dimostrato che, se eseguita correttamente, la dilatazione presenta una bassa incidenza di complicanze, attorno allo 0,3%.

La sindrome di Plummer-Vinson è una rara condizione caratterizzata dalla presenza di una membrana esofagea orizzontale, che può causare disfagia e anemia da carenza di ferro. È associata a un rischio aumentato di carcinoma squamoso esofageo. Il trattamento include la correzione dell'anemia e la dilatazione della membrana esofagea, con un follow-up per monitorare l'insorgenza di complicazioni.

Infine, il diverticolo di Zenker, che è un'ernia mucosa a livello del ipofaringe, rappresenta una condizione che può causare disfagia e rigurgito ritardato. La diagnosi viene confermata tramite esofagramma con bario, e il trattamento di scelta è la diverticulectomia chirurgica, con o senza mioectomia.

Oltre alle condizioni più comuni e conosciute, ci sono altre patologie che possono contribuire alla disfagia, come le stenosi esofagee o le anomalie strutturali che richiedono un'accurata diagnosi differenziale. La gestione ottimale richiede non solo la capacità di diagnosticare correttamente, ma anche una buona conoscenza delle opzioni terapeutiche, che possono variare significativamente in base alla causa sottostante e alla gravità del disturbo.

Quali sono i segni del psoas e dell'obturatore?

Il segno del psoas è l'individuazione di dolore durante l'estensione dell'anca destra (provocato facendo sdraiare il paziente sul lato sinistro mentre la coscia destra viene flessa all'indietro) ed è il risultato di un'irritazione del muscolo psoas retroperitoneale, indicativa di una posizione retrocecale dell'appendice infiammata. Il segno dell'obturatore si riferisce al dolore causato dalla contrazione del muscolo otturatore interno (provocato dalla rotazione interna dell'anca destra flessa) dovuto all'infiammazione dell'appendice retrocecale. Questi segni, sebbene utili, non sono specifici e richiedono sempre una valutazione diagnostica più approfondita.

Il segno di Rovsing è un altro indicatore utile nella diagnosi dell'appendicite. Si manifesta con dolore nella fossa iliaca destra quando viene palpata la fossa iliaca sinistra. Questo manovra provoca un allungamento del peritoneo, causando dolore nella zona in cui il peritoneo irrita una struttura, come un muscolo. In caso di appendicite acuta, questo segno è molto comune.

Il differenziale diagnostico dell'appendicite acuta è ampio, poiché i sintomi non sono sempre specifici. Tra le patologie da considerare vi sono la diverticolite acuta, la diverticolite di Meckel, le enterocoliti infettive, le malattie infiammatorie intestinali, l'ulcera peptica, la colecistite, la colica biliare, l'ernia incarcerata, la linfadenite mesenterica (soprattutto nei pazienti di età inferiore ai 15 anni), l'ascesso tubo-ovarico, la torsione ovarica, la gravidanza ectopica, la malattia infiammatoria pelvica, la mittelschmerz e il tumore carcinoide. Nei pazienti immunocompromessi, è necessario considerare la tiflite (enterocolite neutropenica), che può presentarsi con necrosi della parete intestinale, comunemente nella regione del cieco.

Diagnostica dell'appendicite. La diagnosi di appendicite basata solo sulla presentazione clinica è complessa. Per supportare la diagnosi, sono stati sviluppati vari sistemi di punteggio. In passato, si utilizzava spesso il punteggio di Alvarado, ma studi recenti suggeriscono che il punteggio AIR (Appendicitis Inflammatory Response), che si basa su vomito, dolore alla fossa iliaca destra, febbre, leucocitosi polimorfonucleare e aumento della proteina C-reattiva (CRP), è più accurato per la diagnosi dell'appendicite. Un altro sistema di punteggio recentemente sviluppato è l'AAS (Adult Appendicitis Score). A seguito di questi punteggi, ulteriori esami di imaging dovrebbero essere considerati. La tomografia computerizzata (TC) è frequentemente utilizzata, ma l'ecografia è una valida alternativa per i pazienti pediatrici o in gravidanza. L'uso dell'ecografia point-of-care come prima linea diagnostica può ridurre la necessità di esami TC, con una sensibilità del 76% e una specificità del 95%.

Le complicazioni associate all'appendicite possono essere gravi, e circa il 16-40% dei pazienti con appendicite sviluppano una perforazione, più comune nei pazienti agli estremi della vita. Il tasso di mortalità legato alla perforazione è del 5%, rispetto allo 0,6% associato all'appendicite gangrenosa. I pazienti con perforazione necessitano generalmente di un intervento chirurgico. Altre complicazioni infettive come la formazione di ascessi, peritonite e sepsi possono verificarsi. L'ascessamento può essere trattato con drenaggio guidato da TC.

Il trattamento dell'appendicite è tradizionalmente l'appendicectomia. Tuttavia, un recente trial clinico randomizzato ha dimostrato che un trattamento antibiotico per dieci giorni è equivalente all'appendicectomia nel trattamento dell'appendicite non complicata. Tuttavia, i pazienti con appendicoliti presentano un rischio maggiore di complicazioni e devono essere sottoposti ad appendicectomia entro 90 giorni. Nei pazienti con appendicite non complicata, senza appendicoliti, può essere preso in considerazione un trattamento non chirurgico. L'appendicectomia laparoscopica rappresenta un trattamento efficace, con minori incidenze di infezioni della ferita, morbilità, tempi di ricovero più brevi e una qualità della vita migliore.

Le complicazioni post-operatorie più comuni dopo un'appendicectomia sono l'infezione della ferita, l'ileo e la formazione di ascessi. Il tasso di complicazioni post-operatorie è stimato intorno all'11,1% per l'appendicectomia aperta e all'8,7% per l'appendicectomia laparoscopica.

Un altro aspetto rilevante è l'incidenza di appendicectomie negative, che storicamente è stata stimata tra il 15% e il 25%. Tuttavia, i recenti progressi nelle modalità di imaging hanno portato a una diminuzione del tasso di appendicectomie negative, con un tasso del 4,5% per l'ecografia e dello 0,6% per la TC. In alcuni casi, durante l'intervento chirurgico, può essere trovato un appendice apparentemente normale, il che solleva il dilemma di procedere comunque con l'appendicectomia. Studi precedenti suggeriscono che il 19%-40% delle appendici apparentemente normali presentano anomalie patologiche. In presenza di una forte sospetta di appendicite basata sulla storia clinica e sugli esami diagnostici, si raccomanda comunque di procedere con l'appendicectomia.

La diagnosi differenziale tra appendicite e malattia infiammatoria pelvica (PID) si basa su segni clinici come la secrezione cervicale, la tenerezza alla palpazione della cervice (segno del lampadario), la dispareunia, la dismenorrea e il dolore bilaterale, che possono aiutare a differenziare le due condizioni.

Nei pazienti in gravidanza, l'appendicite acuta è la patologia extrauterina più comune che richiede un intervento chirurgico. Durante la gravidanza, l'utero in crescita può spostare l'appendice al di sopra della cresta iliaca destra (generalmente dal quarto mese di gravidanza). L'ecografia deve essere utilizzata come primo approccio diagnostico. Se le immagini ecografiche sono inconclusive, dovrebbe essere considerata la risonanza magnetica (RM). La perdita fetale aumenta dal 5% nell'appendicite non complicata al 28% in caso di perforazione. Pertanto, è fondamentale un intervento precoce quando si sospetta un'appendicite. L'appendicectomia laparoscopica, rispetto a quella aperta, è preferibile per migliorare la sicurezza e ridurre il rischio di perdita fetale e parto prematuro.

Infine, la gestione non chirurgica dell'appendicite può essere presa in considerazione per i pazienti con appendicite non complicata o in determinate situazioni in cui si presenta un ascesso o un flegmone. Il trattamento antibiotico può essere efficace, ma alcuni fattori, come febbre superiore ai 38°C e un diametro dell'appendice maggiore di 15 mm, sono predittori di fallimento del trattamento antibiotico. Studi a lungo termine, come quello dell'APPAC, mostrano un tasso di recidiva dell'appendicite del 39,1% nei pazienti trattati solo con antibiotici.