Dopo la sconfitta elettorale, Donald Trump si trovò a navigare un territorio inesplorato. Mai prima d'ora un presidente in carica aveva contestato un'elezione una volta che il risultato fosse stato deciso dal Collegio Elettorale. Ogni tentativo di resistenza, a detta della maggior parte degli esperti legali e politici, si sarebbe rivelato costituzionalmente inutile. Ma mentre il paese stava procedendo verso il passaggio di poteri, Trump non era affatto pronto ad arrendersi.

Il vicepresidente Mike Pence, pur non avendo mai suggerito esplicitamente a Trump di abbandonare la sua battaglia, cercò di distrarlo dalla missione che appariva sempre più priva di senso. Piuttosto che concentrarsi su una causa perdente, Pence suggeriva di sfruttare il tempo che restava per raccontare i successi ottenuti durante il suo mandato: la riforma fiscale, la crescita economica, una politica più dura nei confronti della Cina e la rinegoziazione del NAFTA. Tuttavia, Trump non volle ascoltarlo. Al contrario, il presidente si allontanò sempre più dalle voci moderate e si circondò di chi sosteneva le sue teorie del complotto. Mark Meadows, il capo dello staff, assunse un ruolo sempre più centrale, isolando Pence e favorendo l'ingresso di consiglieri radicali e teorici della cospirazione.

Meadows non era solo un mediatore, ma un facilitante: permetteva l'accesso alla Casa Bianca a chiunque avesse voluto alimentare le fantasie di Trump, pur mantenendo una facciata di moderazione. In privato, Meadows si impegnava a rassicurare coloro che cercavano di spingere Trump a mollare, dicendo che "il presidente supererà questa fase" e che "avrebbe cambiato idea". Ma nel frattempo, l'amministrazione stava per entrare in un periodo di crescente caos.

Trump, con Bill Barr ormai fuori gioco, si concentrò sulla nomina del nuovo procuratore generale, Jeffrey Rosen, nella speranza che fosse disposto ad appoggiare il suo piano per ribaltare l'esito delle elezioni. Un'ora prima che Barr annunciasse la sua partenza, Trump fece inviare a Rosen due documenti: un set di punti chiave su presunti brogli elettorali in Antrim County, Michigan, e una relazione "forense" sui macchinari di voto di Dominion. Nonostante le evidenti falsità dei suoi argomenti, Trump non mollava.

Rosen, un avvocato esperto che aveva servito nell'amministrazione di George W. Bush e successivamente nel dipartimento di Giustizia sotto Trump, si rivelò fermo nel respingere le teorie del complotto. In particolare, il caso di Antrim County, che Trump e i suoi sostenitori avevano usato come esempio di frode elettorale, fu facilmente smontato. L'errore iniziale di un impiegato repubblicano fu corretto rapidamente, e un riconteggio manuale confermò che le irregolarità erano minime. Nonostante ciò, Trump continuò a insistere sulla versione falsa dei fatti.

Le proteste di Rosen non cambiarono nulla. Ogni argomentazione logica veniva respinta, e Trump si rifugiava nelle voci di chi sosteneva la sua causa. Tra questi, Peter Navarro, un consigliere presidenziale, pubblicò il suo rapporto "The Immaculate Deception", una raccolta delle teorie del complotto sulla frode elettorale, che Trump accolse con entusiasmo. Era un periodo in cui la Casa Bianca si stava trasformando in un teatro dell'assurdo, dove anche le riunioni più bizzarre venivano tollerate, purché alimentassero la speranza di un ribaltamento dell'esito elettorale.

Il culmine di questa follia si raggiunse la sera del 18 dicembre, quando Trump accettò di incontrare, nel cuore della notte, un gruppo di sostenitori che gli proponevano un piano che rasentava il paradosso. Tra loro c'era Michael Flynn, l'ex consigliere per la sicurezza nazionale, appena graziato da Trump, e Sidney Powell, l'avvocata che aveva promesso di svelare la verità sulle elezioni "rubate". In quella riunione si discusse apertamente dell'uso dell'esercito per ribaltare il risultato delle elezioni, un passo senza precedenti nella storia americana.

Il contesto in cui Trump e il suo entourage si mossero era senza precedenti: mai prima d'ora un presidente aveva rifiutato così fermamente l'esito di un'elezione e cercato di sovvertirlo con mezzi che minacciavano la stessa democrazia americana. Nonostante le numerose smentite da parte delle autorità e delle indagini che avevano dimostrato l'infondatezza delle accuse di frode, Trump continuava a crearsi una realtà alternativa. La sua ossessione per la "vittoria rubata" lo portò a prendere decisioni che mettevano in pericolo non solo la sua presidenza, ma l'intero sistema politico del paese.

Il fenomeno Trump, quindi, non può essere ridotto a una semplice battaglia per il potere. È, piuttosto, una manifestazione di come l'irrazionalità e l'autoinganno possano influire sulle istituzioni democratiche, mettendo a dura prova i limiti della legge e della politica. Un aspetto fondamentale di questo periodo è comprendere come la propaganda e le teorie del complotto possano infiltrarsi nelle strutture di governo e minare la fiducia nelle istituzioni democratiche.

La persistente negazione della realtà da parte di Trump non si limitava a una questione di orgoglio personale, ma si intrecciava con un più ampio tentativo di riscrivere la narrazione politica, al fine di mantenere il potere a tutti i costi. Questo episodio dimostra quanto sia vulnerabile la democrazia alle menzogne e alla disinformazione, e quanto sia fondamentale un impegno costante da parte di ogni cittadino e istituzione per mantenere l'integrità del sistema elettorale.

L'Influenza di Stephen Miller sulla Politica dell'Immigrazione durante l'Amministrazione Trump

Stephen Miller, uno dei più influenti consiglieri di Donald Trump, ha avuto un impatto decisivo sulla politica dell'immigrazione degli Stati Uniti. La sua ascesa alla Casa Bianca è stata rapida: inizialmente assunto come scrittore di discorsi, si è rapidamente trasformato in una figura centrale, tanto che molti lo hanno descritto come la "voce" di Trump. La sua intensità e il suo fervore per la difesa delle politiche nazionaliste hanno reso la sua presenza nella Casa Bianca inconfondibile.

Dopo la vittoria di Trump alle elezioni del 2016, Miller ha ottenuto un ufficio al West Wing come consigliere senior, con il compito di definire e guidare la strategia di immigrazione dell'amministrazione. La sua visione riguardava una versione estremamente restrittiva delle politiche migratorie, che intendeva ridurre il numero di immigrati legali e illegali negli Stati Uniti, senza fare distinzioni significative tra le due categorie. Per Miller, l’immigrazione rappresentava una minaccia alla "sovranità" e all’identità culturale americana.

Un punto chiave della sua strategia è stata l'implementazione di misure drastiche come la separazione delle famiglie alla frontiera, l'espulsione accelerata dei migranti e la penalizzazione delle "città santuario", che si opponevano alla cooperazione con le autorità federali sull'immigrazione. Miller ha promosso anche una regolazione che impediva agli immigrati legali di ottenere la Green Card se avessero ricevuto aiuti pubblici, e ha spinto per l'abolizione del programma DACA, che proteggeva i "Dreamers", ossia i giovani immigrati che erano arrivati negli Stati Uniti da bambini.

Il suo approccio si è concretizzato in uno dei discorsi più celebri di Trump, quello sul "carnage americano", in cui la retorica sulla "criminalità" e la "violenza" legate all'immigrazione è stata usata per giustificare politiche dure. Miller non si limitava a suggerire politiche, ma era anche l'artefice dietro molte delle iniziative esecutive di Trump, a volte agendo in modo da bypassare i tradizionali canali di comunicazione all'interno della Casa Bianca. Nonostante la mancanza di esperienza politica, la sua abilità nel manipolare il sistema e nel raggiungere i suoi obiettivi lo ha reso una figura temibile nel governo di Trump.

Un altro aspetto della politica di Miller è stata la spinta verso un sistema di immigrazione "basato sul merito", che favoriva l'ingresso di individui con competenze specifiche e titoli di studio avanzati, a discapito degli immigrati legati a famiglie già presenti negli Stati Uniti. Questo cambiamento avrebbe ridotto in modo significativo il numero totale di immigrati legali ogni anno.

Miller è stato anche un personaggio divisivo all'interno della Casa Bianca. Sebbene fosse ideologicamente vicino a figure come Jeff Sessions e Steve Bannon, non esitava a distanziarsi da loro non appena la loro influenza iniziò a diminuire. La sua abilità nel mantenere la sua posizione e influenzare direttamente Trump gli ha permesso di diventare uno dei sopravvissuti più esperti nel tumultuoso ambiente della Casa Bianca.

Nonostante le sue politiche dure e la retorica incendiaria, Miller è riuscito a mantenere una relazione solida con Trump, che lo considerava una figura indispensabile per attuare la sua agenda. Tuttavia, questa stessa fedeltà al presidente lo ha anche portato a conflitti con altri membri dell'amministrazione, tra cui la segretaria alla Sicurezza Nazionale, Kirstjen Nielsen, che si trovò costantemente a cercare di arginare l'influenza di Miller. Con il suo approccio aggressivo e le sue alleanze strategiche, Miller ha plasmato le politiche migratorie americane in un modo che avrebbe avuto un impatto duraturo sulla politica degli Stati Uniti.

L'analisi delle politiche di Miller solleva interrogativi cruciali sul futuro dell'immigrazione negli Stati Uniti e sull'equilibrio tra sicurezza nazionale e diritti umani. Mentre molte delle sue misure sono state bloccate o modificate nei tribunali, l'impronta lasciata da Miller sulla politica di immigrazione è evidente, e continuerà a influenzare il dibattito pubblico su questo tema per gli anni a venire.

Inoltre, è fondamentale comprendere come la visione di Miller sull'immigrazione non fosse solo una questione di politica, ma anche di identità culturale e di visione del mondo. La sua insistenza su un sistema di immigrazione più rigido rifletteva una convinzione profonda nel proteggere la "stabilità" e la "cultura" americana, anche a costo di alienare milioni di persone provenienti da paesi considerati non conformi agli standard del "merito" americano. Questo approccio ha avuto, e continua ad avere, implicazioni politiche e sociali che vanno ben oltre le leggi sull'immigrazione, contribuendo alla polarizzazione del dibattito pubblico e alla frammentazione della società americana.