Frammenti da "NOTE DI UN CAVALIERE" di Nikolaj Gumilëv

(Piccoli estratti dalle note di N. Gumilëv sulle operazioni militari durante la Prima Guerra Mondiale offrono una buona idea di come i cosacchi fossero visti sia dai nemici che dai loro compagni d’armi, gli ulani russi. – Rete Cosacca)

1

«Si decise di raddrizzare il fronte ritirandosi di circa trenta verste, e la cavalleria doveva coprire questa ritirata. In tarda serata ci avvicinammo alla posizione, e subito dalla parte del nemico si posò su di noi la luce di un proiettore, che rimase sospesa, immobile, come lo sguardo di un uomo arrogante. Ci allontanammo; esso, scivolando su terra e alberi, ci seguiva. Allora, al galoppo, tracciammo delle curve e ci portammo dietro al villaggio, e il fascio di luce per molto tempo ancora frugava qua e là, cercandoci invano.

Il mio plotone fu inviato al quartier generale della divisione cosacca per fungere da collegamento tra questa e la nostra divisione. Lev Tolstoj, in "Guerra e Pace", si prende gioco degli ufficiali di stato maggiore, preferendo quelli in prima linea. Ma io non ho mai visto uno stato maggiore ritirarsi prima che i proiettili iniziassero a esplodere sopra la sua sede. Il quartier generale cosacco era situato in una grande borgata R. Gli abitanti erano fuggiti il giorno prima, il convoglio era partito, la fanteria anche, ma noi restammo lì più di un giorno, ascoltando i colpi che si avvicinavano lentamente – erano i cosacchi che rallentavano le linee nemiche. Un colonnello alto e dalle larghe spalle correva di continuo al telefono, gridando con allegria nella cornetta: "Bene... ottimo... resistete ancora un po’... tutto procede bene..." E queste parole infondevano fiducia e calma in tutti i poderi, fossati e boschetti occupati dai cosacchi, qualità essenziali in combattimento. Il giovane comandante della divisione, portatore di uno dei cognomi più illustri della Russia, ogni tanto usciva sul portico per ascoltare le mitragliatrici e sorrideva soddisfatto vedendo che tutto procedeva come previsto.

Noi ulani conversavamo con i pacati e barbuti cosacchi con quell’elegante cortesia che si usano reciprocamente i cavalieri di diversi reparti.

A pranzo ci giunse voce che cinque uomini del nostro squadrone erano stati fatti prigionieri. La sera vidi già uno di questi prigionieri, gli altri si erano rifugiati nel fienile. Ecco cosa accadde. Erano in sei a fare servizio di guardia. Due erano di sentinella, quattro stavano in una capanna. La notte era buia e ventosa, i nemici si avvicinarono silenziosamente alla sentinella e lo abbatterono. Il compagno sparò e corse ai cavalli, ma fu abbattuto anche lui. Subito una cinquantina di uomini irruppe nel cortile e cominciò a sparare alle finestre della casa dove si trovava il nostro posto. Uno dei nostri uscì e, combattendo a baionetta, si aprì un varco verso il bosco. Gli altri lo seguirono, ma il primo inciampò sulla soglia e cadde, e su di lui caddero anche i compagni. I nemici – erano austriaci – li disarmarono e, scortati da cinque uomini, li condussero al quartier generale. Dieci uomini si trovarono così soli, senza mappa, nel buio completo, in un groviglio di strade e sentieri.

Durante il tragitto, il sottufficiale austriaco chiedeva insistentemente, in un russo stentato, dove fossero i “kózi”, cioè i cosacchi. I nostri tacevano infastiditi e alla fine risposero che i “kózi” erano proprio dove li stavano portando, verso le posizioni nemiche. L’effetto fu straordinario. Gli austriaci si fermarono e iniziarono a discutere animatamente. Era chiaro che non conoscevano la strada. Allora il nostro sottufficiale tirò per la manica quello austriaco e disse incoraggiante: “Non fa niente, andiamo, so io dove andare”. Proseguirono, deviando lentamente verso le posizioni russe.

Nel chiarore dell’alba, tra gli alberi, apparvero cavalli grigi – era una pattuglia di ussari. “Ecco i kózi!” – esclamò il nostro sottufficiale, strappando il fucile all’austriaco. I suoi compagni disarmarono gli altri. Gli ussari risero di gusto quando videro gli ulani, armati di fucili austriaci, arrivare portando con sé i prigionieri appena catturati. Si ripartì verso il quartier generale, ma questa volta russo. Lungo la strada incontrarono un cosacco. “Ehi, zio, fatti vedere”, gli dissero. Quello calò il papakha sugli occhi, si arruffò la barba con la mano, lanciò un urlo e spronò il cavallo al galoppo. Ci volle un bel po’ per calmare e rassicurare gli austriaci dopo questo incontro.

2

Il giorno dopo il quartier generale della divisione cosacca si ritirò di circa quattro verste, insieme a noi, tanto che si vedevano solo le ciminiere della borgata R. Fui inviato con un rapporto al quartier generale della nostra divisione. La strada passava per R., ma i tedeschi vi si stavano già avvicinando. Tuttavia tentai lo stesso, sperando di riuscire a passare. Gli ufficiali degli ultimi distaccamenti cosacchi che mi venivano incontro mi fermavano chiedendo: “Volontario, dove vai?” – e, saputo il motivo, scuotevano la testa con dubbio. Dietro l’ultimo edificio stava una decina di cosacchi smontati, con i fucili pronti. – “Non passi – dissero – guarda già da dove sparano”. Appena mi mossi, i colpi cominciarono a crepitare, le pallottole a fischiare. Sulla via principale avanzavano masse di tedeschi, nei vicoli si sentivano rumori di altri. Girai il cavallo e dietro di me partirono alcune raffiche – erano i cosacchi a coprirmi.

Sulla strada incontrai un colonnello d’artiglieria, che mi aveva già fermato prima. “Allora, non sei passato?” – “No, signor colonnello, là c’è già il nemico”. – “L’hai visto di persona?” – “Sissignore, personalmente”. Si rivolse ai suoi attendenti: “Fuoco con tutti i pezzi sul borgo!” Io proseguii.

Dovevo comunque raggiungere il quartier generale. Esaminando una vecchia mappa del distretto che avevo con me, consultandomi con il compagno – con il rapporto si mandano sempre due persone – e interrogando la gente del posto, ci avvicinammo alla destinazione passando per boschi e paludi. Procedevamo lungo il fronte nemico in avanzata, e non fu affatto sorprendente che, uscendo da un villaggio dove avevamo appena bevuto del latte senza smontare da cavallo, ci tagliasse la strada un reparto nemico. Evidentemente ci scambiarono per una pattuglia, perché invece di attaccarci a cavallo, smontarono per sparare. Erano otto uomini, e noi, girando dietro le case, cominciammo a ritirarci. Quando i colpi cessarono, mi voltai e vidi, in cima alla collina, dei cavalieri che ci inseguivano – avevano capito che eravamo solo in due.

In quel momento, da un lato, si sentirono di nuovo spari, e verso di noi, al galoppo, sbucarono tre cosacchi – due giovani dalle guance spigolose e un uomo barbuto. Ci fermammo. – “Che succede laggiù?” – chiesi al barbuto. – “Ricognitori appiedati, una cinquantina. E da voi?” – “Otto a cavallo”. Si guardò, ci guardammo, e ci intendemmo. Qualche secondo di silenzio. – “Beh, andiamo, allora!” – disse all’improvviso, quasi svogliato, ma gli brillavano gli occhi. I due giovani, che lo guardavano con apprensione, scossero la testa e cominciarono subito a girare i cavalli. Appena risalimmo sulla collina che avevamo appena lasciato, vedemmo i nemici scendere dalla collina opposta. Il mio udito fu colpito da un fischio, simile sia a un clacson che al sibilo di un grosso serpente, davanti a me balenarono le schiene dei cosacchi lanciati in avanti, e io stesso lasciai le redini, spronando con furia, ricordando con uno sforzo estremo che bisognava sguainare la sciabola. Dovevamo avere un’aria molto decisa, perché i tedeschi fuggirono senza esitare. Correvano disperatamente, e la distanza tra noi rimaneva quasi invariata. Allora il cosacco barbuto rinfoderò la sciabola, sollevò il fucile, sparò e mancò, sparò di nuovo e uno dei tedeschi alzò le mani, vacillò e fu scaraventato fuori dalla sella. Un minuto dopo gli correvamo già accanto.

Ma tutto ha una fine! I tedeschi virarono bruscamente a sinistra, e da quella direzione ci piovvero addosso i colpi. Ci imbattemmo in una linea nemica. I cosacchi però non si ritirarono prima di aver catturato il cavallo impazzito del tedesco ucciso. Lo inseguivano ignorando i proiettili, come se fossero nella loro steppa natia. – “Servirà a Baturin – dicevano – gli hanno ucciso il buon cavallo ieri”. Ci separammo dietro una collina, stringendoci cordialmente la mano.

Il mio quartier generale lo trovai solo cinque ore dopo, non nel villaggio, ma in una radura del bosco, su ceppi bassi e tronchi abbattuti. Anche esso si era ritirato sotto il fuoco nemico.»


«In generale, casi simili non erano rari: un cosacco mi giurava di aver giocato a ventuno con i tedeschi. Era solo in un villaggio quando vi entrò una forte pattuglia nemica. Scappare era ormai impossibile. Sellò in fretta il cavallo, nascose la sella nella paglia, si gettò addosso un caftano del padrone di casa, e quando i tedeschi entrarono lo trovarono intento a battere il grano nel fienile. Tre soldati furono lasciati di guardia nel suo cortile. Il cosacco, incuriosito, voleva osservare da vicino i tedeschi. Entrò nella capanna e li trovò a giocare a carte. Si unì a loro e in un’ora vinse una decina di rubli. Poi, quando tolsero il posto e la pattuglia se ne andò, tornò dai suoi. Gli chiesi cosa pensava dei tedeschi. “Mah, niente di che – disse – solo che giocano male, gridano, bestemmiano, cercano sempre di barare. Quando ho vinto, volevano picchiarmi, ma non mi sono fatto prendere.” Come ci sia riuscito, non lo seppi: eravamo entrambi di fretta.»