La democrazia negli Stati Uniti sta vivendo una fase di crisi profonda, una realtà ormai condivisa da un numero crescente di osservatori e analisti politici. Non si può negare che il presidente Biden abbia riconosciuto apertamente il pericolo che incombe su questa democrazia. Nel suo primo discorso al Congresso nel 2021, Biden ha sottolineato la necessità di dimostrare che la democrazia americana funziona e che il paese può mantenere fede alle promesse fatte ai suoi cittadini, ossia garantire una vita di dignità, rispetto e opportunità per tutti. La domanda cruciale che si pone, quindi, è se la democrazia americana sarà in grado di rispondere alle esigenze del popolo e affrontare le sfide poste da un clima di crescente divisione interna, alimentato da rabbia, odio e paura.

Gli avversari degli Stati Uniti—i regimi autocratici—scommettono sul fallimento della democrazia americana, ritenendo che la nazione sia ormai troppo divisa e piena di conflitti interni per poter rispondere efficacemente ai propri problemi. Le immagini della folla che ha assaltato il Campidoglio nel gennaio del 2021 sono diventate il simbolo di questo declino. Ma, nonostante tutto, le parole di Biden fanno sperare in un'inversione di rotta. Sebbene molti credano che il tramonto della democrazia americana sia ormai vicino, il presidente ha invitato il paese a dimostrare il contrario, a lottare per preservare i principi fondanti della nazione.

Anche il Segretario di Stato Antony Blinken ha posto l’accento sulla necessità di affrontare le disuguaglianze interne, riconoscendo le debolezze della democrazia americana e proponendo una revisione dei propri processi democratici per mantenere la propria credibilità. Ma mentre i leader americani si impegnano a rinnovare la democrazia, cresce il timore che il paese sia ormai preda di forze che mettono in discussione i valori su cui è stato costruito. La storia, come suggerito dagli osservatori internazionali, offre un monito: se la democrazia è messa in crisi da leader che operano al di fuori delle regole stabilite, la fiducia nel sistema può sgretolarsi rapidamente.

L’autocrazia sta crescendo a livello globale, e con essa la paura che la democrazia non sia più la "speranza migliore della Terra", come la definiva Abraham Lincoln. Le parole di storici e analisti come Emma Shortis e Stan Grant sono preoccupanti. La loro analisi suggerisce che il sistema democratico americano è sotto assedio non solo da forze interne, ma anche da un contesto globale che vede negli Stati Uniti un esempio in declino. La domanda che molti si pongono è: cosa accadrà se questo modello di democrazia dovesse crollare? Le risposte sono inquietanti, considerando la stretta interconnessione tra le democrazie occidentali.

Il più grande pericolo, secondo molti osservatori, è che la democrazia si stia trasformando in una guerra culturale incessante, che alimenta l'odio e la divisione, anziché il dialogo e la collaborazione. L’incessante battaglia politica tra le fazioni ha creato un clima in cui la verità è diventata relativistica, un concetto fluido e manipolabile. Le bugie e la disinformazione non sono più solo una caratteristica delle campagne elettorali, ma sono diventate una parte integrante del discorso politico quotidiano. Le parole di Kellyanne Conway, consigliere senior dei media di Trump, quando definì le "verità alternative" durante la campagna presidenziale del 2016, rappresentano l'inizio di un processo di sfiducia radicale nei confronti della verità stessa.

Questa erosione della fiducia sta minando la capacità della società di stabilire un terreno comune per il dialogo politico. Se la verità è messa in discussione a tal punto, cosa rimane della fiducia nelle istituzioni? Quando l'informazione diventa un campo di battaglia, la stessa idea di democrazia viene svuotata della sua sostanza. Le parole di Tom Friedman sono emblematiche: se i leader politici si sentono liberi di infrangere ogni regola per mantenere il potere, cosa resterà del nostro modello democratico?

L'ulteriore pericolo è che la polarizzazione politica stia portando a un aumento della violenza politica. Barbara Walter, nel suo libro "How Civil Wars Start", avverte che le condizioni per un conflitto civile sono già presenti. La frammentazione etnica, le divisioni urbane e rurali, e la crescente retorica violenta sono segnali che non si possono ignorare. In questo contesto, l'incapacità di riconoscere valori condivisi e la frantumazione dell'identità collettiva potrebbe spingere il paese verso una spirale di conflitto.

Il dramma più grande, come affermato dal giudice conservatore J. Michael Luttig, è che oggi gli americani non sono più d'accordo su cosa sia giusto o sbagliato, su quali valori difendere, e su quali pratiche politiche siano accettabili. La società è alla deriva, incapace di stabilire un terreno comune per il confronto politico. Se non si ripristina il rispetto per le istituzioni e per i valori fondamentali della democrazia, l'intero sistema rischia di implodere.

Nel contesto di questa crisi democratica, l'osservazione che giunge dall'Australia, che si preoccupa per l'instabilità degli Stati Uniti, è particolarmente significativa. Gli esperti suggeriscono che gli Stati Uniti dovrebbero guardare a modelli esteri di buona pratica, come il sistema elettorale australiano, per riformare il proprio processo elettorale e proteggere la base stessa della democrazia. Un sistema elettorale che permetta maggiore trasparenza e che limiti l’influenza del potere politico sul processo di conteggio dei voti potrebbe essere una delle chiavi per evitare il collasso del sistema democratico.

La democrazia americana, nonostante la sua crisi, continua a essere una forza globale di rilevanza. Tuttavia, è imperativo che gli Stati Uniti intraprendano un processo di rinnovamento istituzionale, per evitare che il paese scivoli in un autoritarismo che minerebbe la sua stessa essenza. La lezione che il mondo può trarre è che la democrazia è fragile e va costantemente protetta, affinché non diventi una reliquia del passato.

DeSantis: L'Uomo Dietro la Strategia di Trump

Ron DeSantis si presenta come una figura di grande spessore politico, capace di ereditare la forza di Donald Trump senza esserne appesantito dalle sue contraddizioni e dalle sue debolezze psicologiche. Se Trump ha sempre incarnato la figura del leader populista, DeSantis si propone come l'architetto di un movimento politico e ideologico che affonda le sue radici in un approccio diretto e deciso, sostenuto dalla fiducia che lo rende capace di vincere contro qualsiasi democratico, sia a livello statale che nazionale.

La sua agenda politica, sempre più centrale nelle dinamiche del Partito Repubblicano, si è evoluta in una serie di azioni legislative aggressive, che spingono la sua visione del mondo, focalizzandosi principalmente sulla "guerra culturale" che domina le preoccupazioni della destra americana. I temi ricorrenti nei suoi discorsi e nelle sue azioni legislative sono la lotta contro il crimine, l'immigrazione, l'inflazione, il "politicamente corretto" e l'affermazione di un ritorno ai valori tradizionali.

Una delle prime e più emblematiche iniziative legislative di DeSantis è l'approvazione del "Stop WOKE Act", una legge che vieta l'insegnamento della teoria critica della razza nelle scuole, considerando la formazione di una coscienza collettiva che imponga colpe storiche individuali come un atto di oppressione. A questa si aggiunge la "Parental Rights in Education" o la più famosa "Don't Say Gay Bill", che limita l'insegnamento dell'orientamento sessuale e dell'identità di genere fino alla terza elementare, ma che di fatto coinvolge tutta la popolazione scolastica, strizzando l'occhio alla lotta contro la cosiddetta "ideologia gender".

DeSantis ha fortemente criticato e regolamentato le questioni relative all'aborto, andando oltre le restrizioni introdotte in altri stati repubblicani, fissando il limite delle 15 settimane, ma senza alcuna eccezione per casi di incesto, stupro o tratta di esseri umani. Inoltre, ha rimosso un procuratore dello stato che si rifiutava di perseguire i crimini legati all’aborto, dimostrando la sua determinazione a far rispettare la legge in modo rigoroso e senza compromessi.

Un altro fronte su cui DeSantis ha avuto un impatto significativo è stato quello della pandemia. Se Trump aveva lasciato campo a una gestione confusa, DeSantis ha adottato un approccio chiaro e deciso, opponendosi alle misure restrittive, come i lockdown e l’obbligo di indossare le mascherine, e rifiutando la distribuzione dei vaccini per bambini sotto i cinque anni. La sua amministrazione ha anche tentato di impedire alle compagnie di crociera di chiedere la vaccinazione obbligatoria, portando avanti una retorica di libertà individuale e opposizione al controllo statale.

Sul fronte dell'immigrazione, DeSantis ha adottato un approccio provocatorio, sfruttando la crisi migratoria per rafforzare la sua immagine di "difensore dei confini". Nel 2022, ha finanziato il trasporto di migranti da Texas a Martha’s Vineyard, un gesto simbolico che mirava a mettere in evidenza l’ipocrisia delle politiche di accoglienza di stati come il Massachusetts, utilizzando la retorica della condivisione del "carico" dell'immigrazione, che non dovrebbe ricadere solo sugli stati repubblicani.

La sua retorica è, come quella di Trump, combattiva e diretta, con DeSantis che non esita a definire l'ideologia woke come una "malattia mentale distruttiva" che deve essere combattuta in ogni angolo della società. La sua capacità di unire e galvanizzare la base repubblicana, attingendo dalla paura, dall’incertezza economica e dai valori tradizionali, lo rende un leader che sa come fare appello agli elettori più conservatori e a quelli disillusi dalla politica tradizionale.

Tuttavia, la figura di DeSantis va oltre la semplice prosecuzione dell’agenda di Trump. Pur rimanendo ancorato a temi simili, egli sembra voler costruire un'eredità che segna una distensione rispetto agli eccessi emotivi e psicologici di Trump, presentandosi come un uomo di Stato più razionale, ma non meno determinato. La sua ascesa politica non è solo il frutto di una forte reazione contro la sinistra, ma anche di una ricerca di stabilità e ordine, un ordine che la sua agenda sembra voler ripristinare in un paese che ha vissuto anni di profonde divisioni e di turbolenze politiche.

Ciò che è essenziale per comprendere appieno la portata del fenomeno DeSantis, oltre a ciò che emerge chiaramente dalla sua politica e retorica, è che la sua forza politica è intimamente legata alla sua capacità di incarnare il sogno conservatore di un ritorno a una certa visione della società. Un sogno che si scontra con i mutamenti in corso nella società americana e che si oppone al suo progressismo crescente, che avanza nelle scuole, nei media e nelle politiche pubbliche. Il successo di DeSantis dipende dalla sua capacità di tenere insieme una base elettorale sempre più polarizzata, che continua a cercare un'alternativa forte a una politica nazionale che sembra incapace di dare risposte concrete ai suoi bisogni più urgenti.

Qual è la realtà del sistema carcerario e socioeconomico tra Stati Uniti e Australia?

Le statistiche relative ai tassi di incarcerazione, al reddito familiare medio e alla speranza di vita sono strumenti fondamentali per comprendere la condizione sociale e le disuguaglianze all'interno delle nazioni. Tuttavia, è essenziale tenere presente che i dati provenienti da diverse fonti e paesi, pur riflettendo situazioni simili, non sono sempre direttamente comparabili. Ad esempio, i dati sui tassi di incarcerazione relativi agli Stati Uniti e all'Australia sono stati raccolti con metodi e in periodi differenti, il che può influenzare l'interpretazione di tali numeri.

Per quanto riguarda il tasso di incarcerazione, i dati australiani, provenienti dalla Commissione Produttività del Governo Australiano, riflettono il periodo più recente, con aggiornamenti fino a settembre 2022. La statistica sull'incarcerazione per la popolazione "non indigena" australiana comprende tutti gli adulti, inclusi gli aborigeni e i Torres Strait Islanders, mentre i dati sugli aborigeni australiani indicano il tasso di incarcerazione specifico per la popolazione indigena del paese. Per gli Stati Uniti, i dati provengono dal Bureau of Justice Statistics del 2018, con una metrica che confronta il numero di prigionieri ogni 100.000 residenti in un determinato gruppo razziale. Sebbene questi dati siano rilevanti per analizzare le disparità all'interno di ciascun paese, non bisogna dimenticare che le modalità di raccolta e l'anno di riferimento differiscono, il che limita la possibilità di una comparazione diretta tra Stati Uniti e Australia.

Nel contesto del reddito familiare medio, le cifre australiane provengono dall'Australian Institute of Health and Welfare e si riferiscono ai dati fiscali del 2018-19, prendendo in considerazione un reddito familiare lordo medio annuale, corretto per la dimensione e l'età della famiglia. Gli Stati Uniti, d'altra parte, si rifanno al censimento del 2021, con dati specifici per le comunità nera e bianca non ispanica. Sebbene il confronto tra i redditi mediani possa sembrare utile per tracciare linee di demarcazione tra le due nazioni, bisogna considerare che le economie di Stati Uniti e Australia sono strutturalmente diverse, e fattori come la tassazione, le politiche sociali e la distribuzione delle ricchezze possono influire notevolmente su queste statistiche.

Infine, la speranza di vita in Australia e negli Stati Uniti mostra notevoli discrepanze. I dati australiani, raccolti tra il 2015 e il 2017 dall'Australian Institute of Health and Welfare, indicano che la speranza di vita per gli aborigeni maschi è di 71,6 anni e per le donne aborigene di 75,6 anni, mentre per i non aborigeni i valori salgono rispettivamente a 90,2 anni per gli uomini e 83,4 anni per le donne. Negli Stati Uniti, i dati della Centers for Disease Control and Prevention (CDC) del 2021 presentano una differenza tra la speranza di vita dei neri non ispanici (intorno agli 80 anni) e dei bianchi non ispanici (circa 79 anni). Questi dati rivelano disparità significative, ma anche in questo caso è cruciale comprendere che la speranza di vita è influenzata da numerosi fattori, tra cui l'accesso a cure sanitarie, le disuguaglianze razziali, la qualità dell'ambiente e le politiche sociali.

Oltre a queste statistiche, è importante riconoscere l’impatto delle disuguaglianze sistemiche che si riflettono in numerosi ambiti, dal sistema giudiziario alle opportunità di lavoro, e come queste disuguaglianze si manifestano in modo particolare per le minoranze etniche. In Australia, ad esempio, il trattamento delle popolazioni indigene continua a essere un tema centrale, con alti tassi di incarcerazione e mortalità in custodia. Negli Stati Uniti, le comunità afroamericane e latine affrontano sfide simili, come dimostrano gli episodi di brutalità poliziesca e discriminazione che emergono nei media. Questi fenomeni non sono solo il risultato di singoli eventi isolati, ma sono il frutto di un sistema che, in molti casi, perpetua disuguaglianze storiche.

Quando si confrontano le statistiche tra Stati Uniti e Australia, quindi, è fondamentale non solo fare attenzione ai metodi di raccolta dei dati, ma anche considerare il contesto socio-politico di ciascun paese. Le statistiche possono apparire simili, ma le radici delle disuguaglianze e le risposte istituzionali possono variare profondamente. È essenziale che il lettore non si limiti a interpretare i numeri, ma cerchi di comprendere i fenomeni che essi rappresentano, in particolare le dinamiche di potere, razza e classe che spesso giocano un ruolo cruciale nella formazione di queste statistiche.

L'estremismo in Australia: Una Minaccia ancora in Corso

L'estremismo in Australia rimane una minaccia persistente e in evoluzione. Nonostante i numerosi sforzi delle autorità, il paese continua a confrontarsi con fenomeni di radicalizzazione che interessano vari settori della società. L'estremismo, in tutte le sue forme, può essere definito come un impegno a favore di ideologie radicali che cercano di alterare in modo significativo l'ordine sociale, politico ed economico. Queste ideologie possono variare da quelle politiche a quelle religiose, e la loro influenza può manifestarsi in atti di violenza, propaganda, e azioni che mirano a minare i principi fondamentali della democrazia e della convivenza pacifica.

In Australia, il rischio di estremismo è alimentato da una serie di fattori interconnessi. Tra questi, le crescenti disuguaglianze economiche e sociali, le tensioni interetniche, le sfide legate all'immigrazione e il disguido tra diverse comunità culturali, sono alla base di un terreno fertile per la radicalizzazione. L'estremismo di destra, in particolare, ha trovato un terreno di crescita negli ultimi anni, complici l'aumento delle campagne di disinformazione, la polarizzazione politica e il malcontento diffuso verso le politiche governative. Le teorie della cospirazione e l'odio ideologico vengono amplificate dalle piattaforme sociali, creando una dinamica che alimenta la paura e l'incomprensione tra diversi gruppi sociali.

L'Australia ha sperimentato episodi di estremismo che hanno scosso la sicurezza pubblica. Gli attacchi a Sydney e Melbourne, legati a gruppi estremisti islamisti, hanno dimostrato quanto l'ideologia radicale possa travolgere anche un paese che si considera relativamente immune da simili fenomeni. Allo stesso tempo, gruppi neonazisti e suprematisti bianchi hanno tentato di minare la coesione sociale, sfruttando la retorica dell'odio per reclutare nuovi membri e incitare alla violenza.

L'intensificarsi della retorica politica, che a volte strizza l'occhio a ideologie estremiste, ha giocato un ruolo cruciale nel rafforzare le divisioni all'interno della società. Politiche di sicurezza che pongono l'accento sul controllo delle minoranze, l'isolamento e la creazione di "nemici interni" hanno, paradossalmente, contribuito ad alimentare la paura e l'ostilità tra i gruppi sociali. Le leggi anti-terrorismo e gli interventi statali mirano a limitare il fenomeno, ma a volte finisco per essere strumenti di repressione che limitano la libertà di espressione, creando un circolo vizioso di disillusione e radicalizzazione.

Importante è anche l’osservazione delle dinamiche globali che influenzano l'estremismo in Australia. L'esperienza australiana non è isolata, ma parte di una più ampia crescita dei movimenti estremisti in tutto il mondo. Le politiche internazionali, come la lotta al terrorismo globale e il sostegno a regimi autoritari, rafforzano i sentimenti di insicurezza e di vulnerabilità. Questi sentimenti sono facilmente manipolabili dai gruppi estremisti che riescono ad utilizzare la paura e la sfiducia per spingere le proprie agende politiche.

In questo contesto, è fondamentale che le politiche di contrasto all'estremismo non si limitino a misure punitive, ma che investano nella costruzione di una società più inclusiva e resiliente. L'educazione alla tolleranza, il rafforzamento delle istituzioni democratiche e la promozione di un dialogo sincero tra le diverse comunità sono elementi chiave per affrontare la radicalizzazione. Inoltre, le politiche pubbliche dovrebbero prevedere una revisione delle leggi sull'immigrazione e un rafforzamento delle normative sui diritti umani, in modo da prevenire l'isolamento sociale che spesso porta alla radicalizzazione.

Un aspetto importante da comprendere è che l'estremismo non si manifesta solo in atti violenti, ma anche in azioni politiche che mirano a polarizzare e dividere. I discorsi d'odio, le leggi discriminatorie e le politiche di esclusione sociale possono essere forme sottili di estremismo che, pur non arrivando all'atto violento, minano i principi di uguaglianza e di giustizia sociale. Pertanto, un'efficace lotta all'estremismo richiede un approccio integrato che non si limiti alla sicurezza, ma che promuova attivamente la coesione sociale, l'inclusività e la protezione dei diritti fondamentali per tutti i cittadini.

In definitiva, l'estremismo in Australia è una minaccia che non può essere ignorata. Affrontarlo richiede un impegno collettivo che veda coinvolti tutti i settori della società: dalle istituzioni politiche, alle forze dell'ordine, passando per i media e le organizzazioni civiche. L'attenzione deve essere posta non solo sulla prevenzione della violenza, ma sulla promozione di un discorso pubblico sano, fondato sul rispetto reciproco e sull'inclusione. La sfida più grande resta quella di mantenere l'unità di una società pluralista, proteggendo al contempo i valori democratici che definiscono l'Australia.

La Politica Estera di Trump: Caos, Teatralità e Solitudine

La presidenza di Donald Trump è stata caratterizzata da un approccio alla politica estera che ha oscillato tra il caos, l'imprevedibilità e una forte teatralità, con la tendenza a prendere decisioni drastiche senza la necessaria preparazione o pianificazione. La sua visione del mondo e delle alleanze internazionali è stata segnata da un'incredibile incoerenza, con azioni e dichiarazioni che spaziavano dall'aggressività a una curiosa adorazione per i dittatori.

Sin dai primi giorni del suo mandato, Trump ha dimostrato di voler imporre un ordine mondiale che rispecchiasse principalmente gli interessi degli Stati Uniti, senza troppe preoccupazioni per gli equilibri internazionali consolidati. La sua decisione di bannare i viaggiatori provenienti da sei paesi a maggioranza musulmana è stata solo una delle tante mosse che hanno confuso alleati e nemici. Mentre dichiarava di voler "unire il mondo civile contro il terrorismo islamico radicale", il suo decreto ha scatenato il caos tra i viaggiatori e nei principali aeroporti internazionali. Questa incoerenza è stata un tema ricorrente: Trump, infatti, ha più volte cambiato direzione, passando da una dichiarazione a un'altra, senza apparente logica, tranne quella di promuovere i propri interessi e quelli degli Stati Uniti.

Il suo stile di leadership è stato spesso paragonato a quello di un magnate immobiliare che cerca di concludere affari con ogni nazione che incontrava. Le sue conversazioni con il leader nordcoreano Kim Jong-Un, per esempio, non riguardavano tanto la diplomazia quanto l'immagine pubblica. Non solo si vantava della sua capacità di negoziare accordi, ma si sentiva anche in diritto di consigliare lo stesso Kim su questioni come lo sviluppo di hotel e resort. A più riprese, Trump ha cercato di trattare le relazioni internazionali come se fossero trattative d'affari, come quando ha parlato dell'acquisto della Groenlandia, come se fosse una proprietà in vendita. La reazione della Danimarca, con il suo chiaro rifiuto, non lo ha minimamente scosso.

La sua politica estera è stata segnata da una serie di azioni e dichiarazioni che hanno sollevato perplessità. Trump ha infatti rotto con i tradizionali alleati degli Stati Uniti, come il Regno Unito e la Germania, trattando le loro figure di spicco, come la premier Theresa May e la cancelliera Angela Merkel, con ostilità. Al contrario, ha espresso apprezzamento per i leader autoritari, come il presidente cinese Xi Jinping e il filippino Rodrigo Duterte, apprezzando le loro politiche contro i dissidenti e il loro potere assoluto. La sua “amicizia” con il leader russo Vladimir Putin è stata oggetto di continui sospetti e speculazioni, e il suo comportamento durante i summit internazionali non ha fatto che alimentare l'immagine di un presidente che dava priorità alla sua relazione con Putin, al punto da fare colloqui segreti senza lasciare tracce scritte.

Trump ha anche dimostrato una certa avversione per le organizzazioni internazionali e per gli accordi multilateralisti. Durante il suo mandato, ha annullato una serie di trattati e impegni internazionali, tra cui l'accordo sul clima di Parigi, l'accordo nucleare con l'Iran, e ha ritirato gli Stati Uniti dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO). La sua politica "America First" si è tradotta in un ritiro sistematico dall'arena globale, con l'intento di preservare la sovranità degli Stati Uniti e limitarne l'esposizione a obblighi internazionali che potessero restringere la sua libertà di azione.

La sua leadership è stata pervasa da una costante instabilità, come dimostrato dai frequenti cambi di membri nel suo team di sicurezza nazionale, dove si sono alternati cinque consiglieri per la sicurezza nazionale e due segretari di Stato in meno di quattro anni. La decisione di ritirarsi da accordi e trattati internazionali non è stata solo una questione di disinteresse per gli altri stati, ma anche di una convinzione profonda che gli Stati Uniti dovessero concentrarsi esclusivamente sui propri interessi, senza farsi vincolare da alleanze o accordi che avrebbero potuto compromettere la propria autonomia.

In questo contesto, l’idea che Trump avesse un piano chiaro per la sua politica estera è stata messa in dubbio da molti osservatori. Le sue mosse, pur apparendo a volte come scelte decisive, erano in realtà il risultato di un approccio estemporaneo e reattivo, in cui il presidente sembrava operare più per sensazioni e colpi di teatro che per una visione strategica di lungo periodo. Questo ha creato una dinamica internazionale senza precedenti, in cui gli Stati Uniti si sono ritrovati da un lato isolati e dall'altro imprevedibili. Le sue dichiarazioni erano spesso accompagnate da azioni che sfidavano le consuetudini diplomatiche, provocando sia la sorpresa che la confusione nei governi alleati.

Importante, per comprendere il carattere della sua amministrazione, è il fatto che Trump si è sempre visto come un outsider, un presidente che agiva fuori dai confini tradizionali della politica estera. Nonostante la retorica aggressiva e il suo disprezzo per le strutture internazionali consolidate, la sua politica ha avuto effetti duraturi sul panorama geopolitico globale. Gli Stati Uniti si sono ritrovati, sotto la sua presidenza, a dover ridefinire il proprio ruolo nel mondo, con ripercussioni che si sono estese ben oltre il suo mandato.