Il calcio, in quanto fenomeno globale, non è solo un gioco, ma una rappresentazione potente delle identità nazionali e delle dinamiche geopolitiche. Il Mondiale maschile, con la sua portata e visibilità, si configura come uno dei principali eventi di geopolitica popolare, un’occasione unica per riflettere sulle complesse relazioni tra sport, identità e politica. La presenza dei giocatori, i loro corpi decorati con le maglie della propria nazione, va oltre il semplice atto sportivo: diventano simboli viventi, avatar della nazione che rappresentano, e i loro successi e fallimenti vengono simbolicamente trasferiti sulla nazione stessa.

Il peso di questa rappresentazione è talvolta estremo, come nel caso di Andrés Escobar, il calciatore colombiano che nel 1994 segnò per errore un gol contro la sua stessa squadra, causando l'eliminazione della Colombia dal torneo. Pochi giorni dopo, fu assassinato da un cartello della droga. Questo episodio drammatico, seppur eccezionale, evidenzia l'intensità della pressione che i giocatori subiscono, non solo in termini di prestazioni sportive, ma anche in quanto rappresentanti della loro nazione. La geopolitica popolare, infatti, si manifesta nei corpi degli atleti, i quali sono costantemente sotto osservazione, poiché ogni movimento, ogni gesto, può avere ripercussioni sulla percezione della propria nazione a livello globale.

Un altro esempio significativo è stato il Mondiale 2018, in cui la Francia ha vinto con una squadra caratterizzata da una notevole diversità etnica. Ben diciassette dei ventitré giocatori della squadra erano figli di immigrati, principalmente dal Nord Africa. Squadre vincenti come Belgio e Inghilterra hanno seguito un percorso simile, attingendo anche alle comunità immigrate per formare formazioni competitive. Il successo della squadra belga, ad esempio, è strettamente legato agli investimenti nei programmi giovanili, non solo per migliorare le performance sportive, ma anche come strumento di integrazione sociale, mirato a superare le divisioni razziali, religiose e linguistiche all'interno della società. Il calcio, in queste circostanze, diventa un mezzo per abbattere barriere e favorire l'inclusione, mentre la visibilità dei corpi multirazziali sulla scena mondiale trasmette un messaggio potente di cittadinanza e appartenenza.

La geopolitica popolare non si limita però ai giocatori. Essa coinvolge anche i tifosi, che, con la loro partecipazione emotiva e fisica, contribuiscono a creare un senso di unione nazionale. Durante il Mondiale, milioni di persone si ritrovano a tifare per la propria nazione, una pratica che, per sua natura, incarna una delle forme più socialmente accettabili e diffuse di nazionalismo. Che si tratti di un bar affollato o di una piazza gremita di persone davanti a un maxi schermo, il supporto per la squadra nazionale è un atto collettivo che unisce, spesso, sotto un’unica bandiera. La sinergia di gruppo che si crea nei momenti di gioia o di delusione, durante un gol o una sconfitta, non è mai solo un fatto individuale, ma un’espressione condivisa di identità collettiva, che talvolta può sfociare in esplosioni emotive di grande intensità, come accaduto nel 2018 con i disordini dei tifosi inglesi.

La televisione, che mette in collegamento i giocatori con il pubblico globale, gioca un ruolo fondamentale nel rendere visibile questa dinamica. Ma ciò che conta veramente non è solo l’aspetto visivo, ma ciò che accade quando i corpi degli atleti e dei tifosi si muovono, si connettono, si esprimono attraverso il gioco, le grida, i gesti di esultanza. Questi corpi, visibili e mediati in tempo reale, diventano strumenti potentissimi di geopolitica, più di quanto non lo siano le parole o le teorie. Attraverso il movimento dei corpi si stabilisce una comunicazione immediata e diretta che va ben oltre il campo di gioco, creando legami e divisioni, affermando identità e appartenze nazionali.

La geopolitica popolare, come mostrano questi esempi, è un fenomeno che permea la quot

Come la cultura popolare plasma la coscienza e la politica nel capitalismo contemporaneo

La teoria critica della Scuola di Francoforte ha evidenziato come il capitalismo monolitico utilizzi la cultura popolare come strumento di sedazione delle masse, offrendo piaceri immediati e superficiali che distolgono i lavoratori dalla loro alienazione economica e subordinazione sociale. Attraverso la produzione di desideri a breve termine, come il sogno di acquistare un’auto di lusso o di partecipare a una crociera, il sistema capitalistico induce i lavoratori a partecipare al sistema vigente invece di immaginare o costruire un’alternativa vantaggiosa a lungo termine. Analogamente, la cultura popolare, rappresentata da programmi televisivi, film di successo come Black Panther o altre forme di intrattenimento, incanala le aspirazioni delle persone verso gratificazioni immediate, impedendo così loro di intraprendere azioni politiche significative o rivoluzionarie. Questa concezione è molto diffusa tra i critici culturali contemporanei, i quali spesso la utilizzano per legittimare la propria posizione sociale disprezzando la cultura popolare a favore di una cultura “alta” che rimane invece un dominio elitario e poco accessibile.

Tuttavia, questa lettura tradizionale della cultura popolare come mera distrazione da questioni “reali” è stata in parte rielaborata dalla corrente degli studi culturali nata nel Regno Unito. Studiosi come Stuart Hall e Richard Hoggart hanno sottolineato come la cultura popolare non sia un fenomeno degrado o deviato, ma un processo attraverso il quale le persone condividono significati, costruiscono senso e si riconoscono in un quadro comune. La cultura non è semplicemente un insieme di oggetti o prodotti (romanzi, dipinti, programmi TV, fumetti), bensì una pratica sociale dinamica che permette agli individui di interpretare e attribuire senso al mondo intorno a loro. Così la cultura popolare può avere un ruolo essenziale nel creare coesione sociale e fornire un terreno comune di comprensione tra i membri di una società.

Questa prospettiva nasce in un contesto storico preciso: il disincanto di molti intellettuali marxisti occidentali dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, che li spinse a riformulare il marxismo abbandonando l’ortodossia comunista e cercando nuove chiavi critiche del capitalismo. In questo quadro emerge la rilettura di Antonio Gramsci, la cui riflessione sulla cultura egemonica offre un’alternativa significativa alla teoria critica tradizionale. Secondo Gramsci, la dominazione capitalistica non si fonda tanto sulla coercizione diretta, quanto sulla creazione di un’egemonia culturale che rende la cultura dell’élite dominante per tutta la società. La classe lavoratrice, in questo scenario, non riconosce più i propri interessi autonomi ma li percepisce come coincidenti con quelli delle classi dominanti. Fenomeni quali il nazionalismo operaio o la celebrazione liberale dell’individualismo sono esempi di questa falsa coscienza che mina la solidarietà di classe.

Il compito dei marxisti, secondo Gramsci, non è quindi solo di denunciare la dominazione, ma di conquistare l’egemonia culturale all’interno della cultura popolare stessa, infondendole un’ideologia anticapitalista in grado di restituire consapevolezza e forza politica ai lavoratori. Solo allora si potranno creare le condizioni per una trasformazione rivoluzionaria reale. Questa nozione di egemonia si distingue dalla visione monolitica della Scuola di Francoforte perché riconosce un’interazione quotidiana e complessa tra le culture dominanti e quelle subalterne, in cui l’élite deve adattare e rendere riconoscibile la propria cultura per poterla imporre. L’esempio dei politici americani che cercano di apparire “come la gente comune”, tra un giro di golf e un’intervista televisiva informale, è un chiaro segnale di questa dinamica di cooptazione e negoziazione culturale.

In questa prospettiva, la classe lavoratrice conserva un certo grado di agenzia, non è semplicemente passiva ma partecipa attivamente alla costruzione e alla trasformazione dei significati culturali. È attraverso questo processo che si apre uno spazio per l’emergere di resistenze e pratiche culturali alternative, in grado di mettere in discussione la cultura dominante e di sviluppare una nuova consapevolezza critica.

È fondamentale comprendere che la cultura popolare non è mai neutrale o semplicemente distrattiva, ma è sempre inscritta in rapporti di potere e di lotta. Per il lettore è importante avere chiaro che ogni forma di consumo culturale porta con sé un potenziale politico, sia di conformismo sia di resistenza. La cultura è un terreno dove si negoziano identità, valori e interessi sociali e, perciò, l’analisi critica deve sempre tener conto della complessità di questi processi. Solo riconoscendo l’intreccio tra cultura, potere e politica si può sperare di costruire una visione più completa e utile per interpretare e trasformare il mondo contemporaneo.

Come l’esperienza sensoriale modella la percezione della guerra nei musei

Entrare nello spazio di Bomber Command al Australian War Memorial è un’esperienza che trascende la semplice osservazione storica per diventare un’immersione multisensoriale, capace di suscitare emozioni profonde e coinvolgere il corpo oltre che la mente. Non si tratta solo di apprendere dati o dettagli militari, ma di vivere, almeno per un momento, ciò che significava essere parte di una missione di bombardamento notturno durante la Seconda Guerra Mondiale. L’ambiente, con le sue pareti rivestite di metallo finto e un soffitto curvo che richiama l’interno di un aereo, è costruito per stimolare una risposta corporea: il pavimento vibrante simula il decollo e le luci variabili – dal bianco opaco alle fiamme che mutano di colore – accompagnano il crescendo della tensione. Questo gioco di luci e suoni, combinato con la rappresentazione visiva dei membri dell’equipaggio, crea un’atmosfera che “disloca” chi osserva, che si trova più a contatto con la dimensione fisica e sensoriale del conflitto.

La potenza di questa narrazione risiede proprio nel suo approccio kinaestetico: la percezione della realtà storica passa attraverso la sensazione tattile e uditiva, più che tramite un racconto freddo o un’esposizione documentaristica. La memoria diventa esperienza, il passato si fa presente nel corpo e nelle emozioni. Ciò che rimane, alla fine della rappresentazione, non è solo la consapevolezza delle vite perse o dei pericoli corsi, ma una partecipazione sensoriale che induce rispetto, empatia, persino un senso di inquietudine e di lutto.

Allo stesso modo, la sala dedicata alla guerra del Vietnam con l’installazione Dust Off prosegue questa linea di narrazione immersiva. L’uso di registrazioni radio originali, il frastuono delle mitragliatrici, il ronzio delle pale dell’elicottero e il suono della pioggia tropicale creano un ambiente sonoro che trasporta il visitatore nel cuore della missione di evacuazione medica, una realtà fatta di pericolo e perdita. La presenza fisica del grande elicottero Bell UH-1B Iroquois, con il suo potente ventilatore che simula il getto d’aria, arricchisce l’esperienza tattile e uditiva. L’effetto è tanto più intenso e coinvolgente per chi, come gli studenti osservati, si confronta con la cruda realtà della guerra, spesso diversa dalle immagini eroiche o dai racconti di vittoria. Il contrappunto tra le due rappresentazioni – Dust Off e Helibourne Assault – manifesta il conflitto insito nel commemorare la guerra: da un lato la celebrazione dell’eroismo, dall’altro la testimonianza della sofferenza e della perdita.

Questo dualismo riflette la complessità della memoria collettiva e della cultura geopolitica australiana, profondamente intrecciata con la narrazione di eventi come la battaglia di Gallipoli. Le esposizioni non si limitano a informare, ma cercano di veicolare un’esperienza che coinvolge il corpo e le emozioni, mettendo in luce come la storia militare sia parte integrante di un’identità nazionale in continuo divenire.

È importante riconoscere che queste installazioni non mirano a fornire una conoscenza oggettiva o completa, bensì a suscitare una risposta affettiva e sensoriale, che a sua volta stimola la riflessione. La memoria della guerra diventa così un luogo di incontro tra il vissuto individuale e la narrazione collettiva, tra il dato storico e l’esperienza emotiva. Comprendere questo processo aiuta a cogliere come i musei contemporanei funzionino non solo come custodi del passato, ma come spazi attivi di negoziazione culturale e geopolitica.

Inoltre, è cruciale considerare che la partecipazione sensoriale e l’immersività comportano un potenziale impatto psicologico che può variare significativamente tra i visitatori. L’esperienza può evocare empatia ma anche disagio o trauma, soprattutto quando le narrazioni includono elementi di sofferenza e morte reale. Questo rende necessario un equilibrio attento nella progettazione di tali esposizioni, in modo da rispettare la complessità della memoria storica senza banalizzarla o spettacolarizzarla.

Le rappresentazioni multisensoriali, dunque, sono un mezzo potente per avvicinare il pubblico alla complessità della guerra, ma richiedono una consapevolezza critica sia da parte dei curatori che dei visitatori, affinché il ricordo non si riduca a semplice intrattenimento o propaganda, ma resti uno spazio di riflessione autentica sul significato e le conseguenze del conflitto.

Come si costruisce il soggetto? Una lettura poststrutturalista dell’identità e della soggettività

Le teorie di Sigmund Freud, che distinguono tra l’inconscio (id) e il sé cosciente e razionale (ego), hanno rappresentato una rottura rispetto alla visione cartesiana dell’io come entità unitaria e stabile nel tempo. Tuttavia, l’approccio poststrutturalista, che ha profondamente influenzato la geopolitica popolare e la critica postcoloniale, considera questa dicotomia troppo semplicistica. Non esiste un nucleo stabile che controlla il soggetto; al contrario, l’identità è frammentata, nomade, e continuamente negoziata in relazione ai discorsi e alle interazioni sociali.

Secondo questa prospettiva, il soggetto non è un’entità monolitica, ma un insieme di posizioni soggettive che si attivano e si trasformano in contesti sociali e relazionali diversi. L’identità, o senso di continuità del sé, si costruisce attraverso un processo dinamico di attribuzione di significato e intelligibilità in interazione con gli altri. Come evidenziato da João Salgado e Hubert Hermans, ciò che siamo dipende da come simbolicamente negoziamo il significato assegnato alla nostra persona in ogni situazione. Il soggetto diventa quindi un risultato fluido e contingente della comunicazione e della negoziazione sociale, più che un’essenza fissa e predeterminata.

Questa frammentazione del sé si manifesta anche nel modo in cui possiamo riconoscere in noi stessi differenti identità nel corso della vita e persino in brevi intervalli temporali. Ricordiamo azioni e atteggiamenti del passato come estranei, quasi osservandoci dall’esterno, come fossero storie di cui siamo spettatori piuttosto che protagonisti. Il sé si modifica costantemente sotto l’influsso di discorsi molteplici e spesso conflittuali, e le nostre posizioni soggettive si ridefiniscono attraverso interazioni materiali e simboliche che plasmano la nostra esperienza in modo continuo.

Janice Radway sottolinea che i soggetti sociali sono attraversati da discorsi molteplici che possono coincidere, sovrapporsi o contraddirsi. In questo intreccio, l’individuo partecipa attivamente, sebbene senza controllo totale, selezionando e articolando frammenti di discorsi diversi per costruire la propria identità in modo situazionale. Questa capacità di intervenire sulle proprie posizioni soggettive è evidente nelle scelte che facciamo per influenzare la nostra soggettività, come nel caso del cosiddetto “detox dai social media”: una decisione consapevole volta a modificare le influenze affettive e simboliche che incidono sul nostro benessere e sulla percezione di sé.

Nonostante l’importanza di questa visione decostruita del soggetto, esistono critiche al poststrutturalismo, soprattutto riguardo alla negazione di un sé essenziale e privato che esiste al di là dei discorsi sociali. Se il sé è solo narrazione, chi è colui che narra? A questa domanda risponde il filosofo russo Mikhail Bakhtin con il concetto di dialogismo, che va oltre l’idea di testi influenzati unidirezionalmente da opere precedenti. Il dialogismo sostiene che ogni testo (o narrazione) è in costante dialogo con altri testi, passato e presente si influenzano reciprocamente, mutando il significato delle opere e delle identità nel tempo.

Applicando questo al soggetto, Bakhtin suggerisce che l’essenza del sé può essere intravista solo attraverso il rapporto con un pubblico – reale o immaginato – che plasma la nostra definizione di noi stessi. Il sé non è quindi un’entità isolata, ma una costruzione che emerge nel confronto e nella risposta degli altri, mantenendo una tensione continua tra il nostro mondo interiore e le aspettative esterne.

È fondamentale comprendere che l’identità non si forma in un vuoto, ma si situa sempre all’interno di un sistema complesso di relazioni materiali, simboliche e culturali. Questa prospettiva implica che ogni soggetto è parte di un processo in divenire, in cui le esperienze personali e collettive, le pratiche discorsive e le condizioni materiali si intrecciano per costruire un senso di sé mai definitivo o stabile. Tale consapevolezza apre a una visione più fluida e dinamica della soggettività, che rende conto della pluralità di voci e influenze che costituiscono l’esperienza umana.

Come la geografia politica ha plasmato la strategia globale: tra determinismo ambientale e soggettività geopolitica

L’analisi geopolitica elaborata da figure come Mackinder evidenzia come lo sviluppo delle reti ferroviarie abbia trasformato radicalmente la geografia politica mondiale, conferendo alle potenze terrestri una capacità di movimento di truppe e risorse paragonabile a quella delle potenze marittime. Mackinder sostenne che il controllo congiunto di Europa, Africa e Asia fosse possibile solo attraverso un potere terrestre forte, poiché l’Asia centrale, troppo distante dal mare, risultava inaccessibile alle potenze navali come il Regno Unito e gli Stati Uniti, entrambe influenzate da un’ideologia geopolitica marittima. Questo ragionamento, originariamente pubblicato nel 1904 e aggiornato successivamente, ha rappresentato una base intellettuale cruciale per la dottrina di contenimento dell’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda.

In un periodo storico in cui la disciplina geografica integrava sia l’aspetto fisico sia quello umano, la geopolitica cercava di formulare regole generali e quasi “naturali” per la vita politica, adottando spesso una prospettiva di determinismo ambientale. Tale approccio, condiviso da scuole tedesche e anglo-americane, sosteneva che l’ambiente fosse il principale fattore che determinasse la cultura e il comportamento delle società umane. Questa visione appare nel dualismo di Mackinder tra potenze terrestri e marittime e nella concezione di Ratzel, che considerava il territorio e le risorse elementi fondamentali del potere nazionale. Tuttavia, il determinismo ambientale si scontra con la sua stessa incoerenza interna, essendo capace di attribuire a un singolo ambiente naturale cause opposte, come accade con la Grecia classica e l’America, entrambe descritte come influenzate dal loro paesaggio in modi contraddittori. Nonostante la sua complessità in autori come Jared Diamond o i più recenti Kaplan e Marshall, questa teoria trascura l’importanza delle azioni e delle scelte umane, nonché la crescente modificazione dell’ambiente da parte stessa delle società, ad esempio attraverso il cambiamento climatico.

Altro aspetto centrale riguarda la soggettività degli autori geopolitici, i quali, pur cercando di fornire verità “universali”, partivano da esperienze e contesti nazionali ben definiti. Mahan, in quanto ufficiale della marina statunitense, elaborò strategie adatte a una potenza con lunghe coste e forte tradizione navale; Mackinder, imperialista britannico, temeva l’egemonia terrestre della Russia e la protezione dell’India, mentre Haushofer, veterano della Prima Guerra Mondiale, si preoccupava di giustificare il recupero territoriale tedesco perduto. Tale soggettività non va intesa come un difetto personale, ma come la condizione inevitabile di ogni analisi geopolitica, che tuttavia non sempre veniva riconosciuta dagli stessi autori, i quali presentavano le loro teorie come spiegazioni assolute da applicare alla politica nazionale. La geopolitica, quindi, emergeva come una geografia politica applicata, uno strumento al servizio dello Stato e della sua agenda.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la geopolitica venne stigmatizzata per il suo legame con l’ideologia nazista e considerata una disciplina compromessa, al punto che fu separata dall’ambito scientifico in favore di una presunta “geografia americana” più oggettiva, nonostante anche questa fosse intrinsecamente politicizzata. In realtà, il periodo successivo vide una temporanea sospensione dell’interesse accademico diretto per la geopolitica, che tuttavia non sparì, anzi si riaccese prepotentemente con la Guerra Fredda. La divisione bipolare del mondo imponeva un’interpretazione geografica degli eventi, funzionale alla costruzione di strategie di sicurezza e al coinvolgimento emotivo delle popolazioni, come nel caso della NATO.

È fondamentale comprendere che la geopolitica non è mai stata una scienza neutrale o universale, ma sempre un prodotto delle condizioni storiche, culturali e personali di chi la formula. Essa deve essere letta criticamente, riconoscendo i limiti intrinseci del determinismo ambientale e la natura soggettiva delle interpretazioni geopolitiche, senza perdere di vista il continuo mutamento delle relazioni tra ambiente e società. Solo così si può apprezzare la complessità di una disciplina che intreccia geografia, politica e storia in un dialogo costante e dinamico.