Il recupero dell'uranio da acque reflue radioattive rappresenta una sfida critica a causa della sua solubilità e della necessità di processi altamente selettivi e fotocatalitici. Un approccio innovativo per risolvere questa problematica è l'uso di materiali ibridi, che combinano il carbonio con i semiconduttori per sfruttare al massimo le loro proprietà fisiche e chimiche. La nostra ricerca ha focalizzato l'attenzione su un materiale ibrido costituito da MoS2 e carbonio (BC-MoS2−x), progettato per ridurre selettivamente l'uranio esavalente (U(VI)) a uranio tetravalente (U(IV)) attraverso un processo fotocatalitico altamente efficiente.
L'analisi delle spettri XPS (spettroscopia fotoelettronica a raggi X) in condizioni di luce e oscurità ha rivelato che, in presenza di luce, è possibile osservare chiaramente i picchi caratteristici dell'U(IV) e dell'U(VI), mentre in condizioni di oscurità è presente solo il picco distintivo dell'U(VI). Questo dato indica che, dopo la reazione fotocatalitica, sia U(VI) che U(IV) coesistono sulla superficie del materiale BC-MoS2−x. Un ulteriore approfondimento ha mostrato che l'area del picco di U 4f per l'U(IV) è significativamente maggiore rispetto a quella per l'U(VI), dimostrando che la maggior parte dell'U(VI) è stata ridotta con successo a U(IV). Questo risultato conferma che il BC-MoS2−x è capace di ridurre fotocataliticamente l'U(VI) a U(IV), facilitando l'estrazione e l'arricchimento dell'uranio.
Per comprendere meglio il processo, è fondamentale considerare come l'ibridazione dei materiali, come nel caso del BC-MoS2−x, agisca come un amplificatore delle reazioni fotocatalitiche. Il carbonio, fungendo da substrato per la crescita del MoS2, non solo facilita il trasferimento degli elettroni, ma modula anche la separazione delle cariche, migliorando la performance complessiva del materiale. La presenza di difetti, come le vacanze di zolfo, è una caratteristica che modifica la struttura delle bande del materiale, favorendo una migliore separazione delle cariche e una più efficace riduzione dell'U(VI).
L’ottimizzazione delle bande di energia tramite l’ingegneria delle vacanze si è dimostrata cruciale per migliorare le performance fotocatalitiche del materiale. Nel caso del MoSx/RGO, un'ibridazione del disolfuro di molibdeno (MoS2) con ossido di grafene ridotto (RGO), è stato osservato che l’introduzione di vacanze di zolfo nel materiale porti a una variazione positiva del livello di Fermi (Ef), riducendo i barriere di Schottky e migliorando la capacità riduttiva degli elettroni fotogenerati. Questa modificazione delle bande energetiche ha consentito al materiale di ottenere un tasso di rimozione dell'uranio del 91,6%, mostrando una solida promessa per il recupero dell'uranio da acque reflue radioattive, anche in presenza di cationi metallici non redox-attivi.
L’analisi dei materiali sintetizzati, come il MoS1.77/RGO, ha mostrato che questi composti, creati con una semplice metodologia idrotermale, si distribuiscono uniformemente su un supporto di grafene ridotto, con strutture morfologiche che rivelano frange cristalline tipiche del MoS2. Questo tipo di composizione ibrida migliora non solo la superficie attiva del materiale, ma anche la sua stabilità e la sua capacità di resistere alla fotodegradazione, un problema tipico dei composti solforati in sistemi fotocatalitici.
Oltre a migliorare l'efficienza nell'estrazione dell'uranio, l'uso di questi materiali ibridi ha il potenziale di aprire la strada a tecnologie più sostenibili e scalabili per la gestione delle acque reflue radioattive. Il recupero dell'uranio da acque contaminanti è un passo fondamentale per la gestione dei rifiuti nucleari, in particolare considerando l’impatto ambientale e le risorse che possono essere recuperate.
I materiali fotocatalitici avanzati, come il BC-MoS2−x e MoSx/RGO, non sono solo strumenti efficaci per il trattamento dell'uranio, ma rappresentano anche una delle soluzioni più promettenti per la purificazione e il riciclaggio di metalli pesanti in sistemi contaminati. La ricerca futura dovrà concentrarsi non solo sull'ulteriore ottimizzazione della struttura delle bande, ma anche sull'espansione dell'applicazione di tali materiali in scenari industriali reali, dove la contaminazione di metalli pesanti è una preoccupazione crescente.
Quali sono i vantaggi e le applicazioni dei catalizzatori cocatalitici nei materiali MOF?
Il processo di sintesi di MnOx/UiO-66/Ti3C2Tx, come illustrato nella letteratura pertinente, segue un approccio ben definito che coinvolge l'incapsulamento in situ delle nanoparticelle MnOx all'interno della struttura MOF (Metal-Organic Framework) UiO-66, e la successiva combinazione con nanosheets di Ti3C2Tx. Questo approccio si è dimostrato efficace nel migliorare le proprietà fotocatalitiche del materiale, con un impatto significativo sulle reazioni di riduzione, come la riduzione del uraniumo, grazie all'interazione sinergica dei due cocatalizzatori.
La sintesi del MnOx/UiO-66/Ti3C2Tx inizia con la dispersione delle nanoparticelle di MnOx in una soluzione di N,N-dimetilformamide contenente ZrCl4 e acido ftalico, che viene poi riscaldata a 120°C per favorire l'incapsulamento delle nanoparticelle di MnOx all'interno della struttura della UiO-66. Successivamente, il composto risultante viene combinato con nanosheets di Ti3C2Tx attraverso la macinazione a sfere, creando così una struttura multicomponente che offre un'elevata attività fotocatalitica. La comparazione con sistemi non modificati, come UiO-66 e UiO-66/Ti3C2Tx, rivela che l'introduzione di MnOx e Ti3C2Tx non solo migliora le caratteristiche ottiche, ma anche le prestazioni in termini di separazione e trasporto degli elettroni, riducendo i fenomeni di ricombinazione.
L'immagine SEM di UiO-66 non modificato mostra una struttura tipica a forma di octaedro con superficie liscia. Tuttavia, dopo l'incapsulamento in situ delle nanoparticelle di MnOx, la superficie di UiO-66 diventa notevolmente ruvida, con evidenti scanalature, come mostrato nelle immagini SEM di MnOx/UiO-66. La combinazione di MnOx/UiO-66 con Ti3C2Tx porta a una struttura visibile dei nanosheets di Ti3C2Tx, che supportano la matrice MOF, conferendo al materiale un'architettura più complessa e funzionalmente arricchita.
Le analisi XRD hanno mostrato che la cristallinità e l'integrità strutturale della UiO-66 sono state mantenute anche dopo l'incapsulamento delle nanoparticelle di MnOx e la combinazione con Ti3C2Tx. Le curve di diffrattometria a raggi X evidenziano chiaramente la presenza dei picchi caratteristici del Ti3C2Tx, indicando un'integrazione efficace del MXene nella struttura del MOF. Inoltre, l'analisi XPS ha rivelato la presenza di Mn in due stati di ossidazione, Mn(III) e Mn(IV), come componenti predominanti nelle nanoparticelle di MnOx.
La spettroscopia UV–Vis di riflessione diffusa ha mostrato che il materiale UiO-66/Ti3C2Tx presenta un'assorbimento ottico migliorato nella gamma visibile, grazie alla presenza dei nanosheets di Ti3C2Tx. Questo miglioramento nelle proprietà ottiche è stato corroborato dalla spettroscopia di fotocorrente transitoria, che ha mostrato segnali di fotocorrente intensificati per MnOx/UiO-66/Ti3C2Tx, con una densità di fotocorrente raggiunta di circa 1.2 mA/cm². Tale comportamento è un chiaro indicatore dell'aumento dell'efficienza nella separazione delle coppie elettrone-lacuna, un aspetto fondamentale per l'ottimizzazione delle reazioni fotocatalitiche.
Le spettroscopie di emissione PL (luce a stato stabile) e PL risolto nel tempo (TRPL) hanno ulteriormente confermato i miglioramenti nelle caratteristiche di separazione delle cariche fotogenerate. In particolare, la combinazione di MnOx e Ti3C2Tx con UiO-66 ha ridotto significativamente l'intensità di emissione PL, suggerendo una minore ricombinazione delle coppie elettrone-lacuna, un segno distintivo della maggiore efficienza di separazione. La durata di vita del decadimento rapido (𝜏1) è stata associata a ricombinazione radiativa, mentre il componente di decadimento lento (𝜏2) è stato connesso ai processi non radiativi, come la trappola delle cariche sui difetti superficiali e il trasporto interfaccia.
L'importanza di questi risultati risiede nel miglioramento delle prestazioni fotocatalitiche del materiale. La separazione efficace delle cariche fotogenerate è un elemento cruciale per le reazioni di riduzione, come nel caso della riduzione del uraniumo, che richiede la creazione di una coppia elettrone-lacuna stabile e il trasferimento efficiente di elettroni ai centri attivi. L'introduzione di cocatalizzatori come MnOx e Ti3C2Tx permette non solo di aumentare l'efficienza delle reazioni, ma anche di ottimizzare il comportamento elettronico del materiale, facilitando la riduzione del uraniumo con una maggiore selettività e velocità di reazione.
Nel contesto di applicazioni più ampie, è importante comprendere come la progettazione di catalizzatori su misura, come nel caso di MnOx/UiO-66/Ti3C2Tx, possa rivoluzionare il trattamento e la purificazione dell'acqua, la gestione dei rifiuti nucleari, e altre tecnologie energetiche avanzate. L'efficienza dei cocatalizzatori non si limita alla semplice presenza nella struttura, ma dipende fortemente dalla loro distribuzione spaziale e dalla loro interazione con il substrato del MOF. Inoltre, l'integrazione di MXene come Ti3C2Tx introduce nuove opportunità per migliorare la conducibilità elettronica e la stabilità del materiale durante i processi fotocatalitici.
Come la durata di vita dei portatori di carica influisce sulle reazioni fotocatalitiche e l'arricchimento del U(VI)
L'influenza delle durate di vita estese dei portatori di carica sulla fotocatalisi è stata studiata in vari sistemi catalitici, con particolare attenzione alle modifiche che queste durate apportano alla capacità di arricchimento del U(VI). In particolare, è stato osservato che la durata di vita dei portatori di carica, rappresentata dal tempo di decadimento della loro emissione (𝜏n), può essere estesa in presenza di materiali ibridi come MnOx/UiO-66 e UiO-66/Ti3C2Tx. Per esempio, il sistema MnOx/UiO-66 ha mostrato un 𝜏n di 1.79 ns, mentre UiO-66/Ti3C2Tx ha raggiunto un valore di 1.91 ns, superiori rispetto a quello di UiO-66 puro (1.49 ns). Il sistema più promettente, MnOx/UiO-66/Ti3C2Tx, ha mostrato il valore massimo di 𝜏n, pari a 3.09 ns, suggerendo che questa combinazione potrebbe favorire un raggio di diffusione più ampio per i portatori di carica, aumentando così la probabilità di raggiungere le interfacce reattive e promuovendo le reazioni fotocatalitiche.
L'estensione della durata di vita dei portatori di carica ha implicazioni significative per la fotocatalisi, in particolare nelle reazioni di arricchimento del U(VI), dove le specie U(VI) devono essere rimosse dall'ambiente per ridurre il loro impatto. I test catalitici eseguiti su campioni sintetizzati, tra cui MnOx/UiO-66/Ti3C2Tx, hanno mostrato risultati superiori quando esposti alla luce, rispetto alle condizioni di oscurità. Per esempio, sotto irraggiamento con una lampada Xenon che emette luce a spettro completo, la capacità di arricchimento del U(VI) di MnOx/UiO-66/Ti3C2Tx è migliorata notevolmente, raggiungendo una rimozione del 98.4%, mentre altre combinazioni di catalizzatori hanno mostrato valori inferiori.
Le reazioni fotocatalitiche sono state analizzate anche in termini di cinetica, con l'uso di un modello di cinetica di primo ordine per calcolare le costanti di reazione (k). I risultati hanno confermato che MnOx/UiO-66/Ti3C2Tx ha mostrato la più alta costante di reazione, pari a 0.0948 min−1, indicando una maggiore attività fotocatalitica rispetto ad altri sistemi. La stabilità e la riusabilità di MnOx/UiO-66/Ti3C2Tx sono state anche testate, dimostrando che, anche dopo cinque cicli di reazione, il sistema mantenne una capacità di rimozione del U(VI) superiore al 92%.
Inoltre, le esperimentazioni sistematiche condotte su una vasta gamma di concentrazioni iniziali di U(VI) hanno rivelato che MnOx/UiO-66/Ti3C2Tx è efficace anche a concentrazioni elevate, con un abbattimento notevole che ha raggiunto livelli al di sotto dei limiti stabiliti dall'OMS per l'uranio nell'acqua potabile. Inoltre, la stabilità del sistema è stata mantenuta anche in soluzioni con diverse condizioni di pH e in presenza di ioni F−, organici e cationi vari, che hanno avuto un impatto limitato sulla sua capacità di rimozione del U(VI).
Un aspetto fondamentale da considerare è l'applicazione di questo sistema nella purificazione dell'acqua marina. Poiché il mare contiene enormi quantità di uranio, l'estrazione dell'uranio dall'acqua di mare è una prospettiva promettente per affrontare la crisi delle risorse di uranio. I test condotti con acqua di mare filtrata e reale hanno confermato che MnOx/UiO-66/Ti3C2Tx può estrarre uranio da queste soluzioni con una percentuale di arricchimento superiore al 90% anche in condizioni realistiche.
Oltre agli aspetti chimico-fisici, è cruciale comprendere che la fotocatalisi non è solo una questione di efficienza di rimozione, ma anche di sostenibilità a lungo termine. La stabilità dei materiali fotocatalitici è fondamentale, poiché i processi ripetitivi, se non ben gestiti, potrebbero compromettere l'efficacia del sistema nel lungo periodo. Pertanto, l'integrazione di materiali con una durata di vita dei portatori di carica più lunga non solo ottimizza la reattività fotocatalitica, ma contribuisce anche alla sostenibilità ambientale del processo.
Come l'uso della fotocatalisi e della riduzione elettronica migliora l'estrazione dell'uranio da soluzioni acquose
Il trattamento dell'uranio (VI) nelle soluzioni acquose è un campo di ricerca che ha suscitato crescente interesse, specialmente per quanto riguarda l'efficacia dei processi fotocatalitici e la riduzione elettronica. L'uranio, un elemento altamente radioattivo, è presente in molte acque sotterranee e superficiali, e la sua rimozione è di fondamentale importanza per la protezione dell'ambiente e della salute pubblica. Le metodologie di riduzione dell'uranio, in particolare tramite fotocatalisi, hanno dimostrato un potenziale significativo nella purificazione delle acque contaminate, rappresentando un'area cruciale per le tecnologie emergenti.
Un esempio innovativo di tale approccio è l'uso di materiali nanostrutturati per promuovere la riduzione fotocatalitica dell'uranio(VI) a uranio (IV), una forma meno solubile e quindi meno pericolosa. Diversi studi, come quello di Zhang et al. (2020), hanno evidenziato l'efficacia dei nanocompositi come il SnO2/CdCO3/CdS, che, irradiati con luce visibile, facilitano una riduzione altamente efficiente dell'uranio. Questi materiali sono in grado di assorbire l'energia solare e trasferirla in modo efficace per ridurre l'uranio presente nelle acque contaminate.
Un altro avanzamento significativo è l'impiego di ossidi metallici, come TiO2, che, in combinazione con altre tecnologie, migliorano il processo di fotoreduzione. Li et al. (2017) hanno studiato la rimozione del U(VI) mediante TiO2/Fe3O4, un composito magnetico che, oltre a ridurre l'uranio, facilita anche il recupero del materiale fotocatalitico. L'efficienza di questi materiali può essere ulteriormente potenziata dall'introduzione di difetti superficiali, come vacanze di ossigeno, che aumentano la capacità di assorbire la luce e stimolano la riduzione del metallo.
Oltre a materiali come TiO2 e SnO2, altri sistemi innovativi, tra cui leghe ad alta entropia, hanno mostrato potenziale nel trattamento delle acque contenenti uranio. Le leghe ad alta entropia, composte da una miscela di metalli, sono particolarmente promettenti per la loro capacità di agire come catalizzatori in reazioni fotocatalitiche. Questi materiali, studiati da Ye et al. (2016), presentano vantaggi in termini di stabilità e attività catalitica, offrendo una soluzione promettente per l'estrazione dell'uranio dalle soluzioni acquose.
A questo si aggiunge l'uso di materiali basati su MOF (framework organici metallico), che sono in grado di assorbire l'uranio e favorire la sua riduzione. Tecnologie avanzate di progettazione, come quelle descritte da Yu et al. (2022), dimostrano che i framework organici decorati con nanoparticelle metalliche plasmoniche sono in grado di migliorare la fotocatalisi, rendendo l'estrazione dell'uranio non solo più efficiente, ma anche più sostenibile. L'uso di fotocatalizzatori ibridi, che combinano proprietà ottiche e chimiche, consente di ottenere migliori risultati a luce visibile, aumentando la selettività e l'efficienza del processo.
Uno degli sviluppi più significativi è l'uso di metodi ibridi che combinano fotocatalisi e adsorbimento. La combinazione di questi due approcci permette di ottenere una rimozione completa e selettiva dell'uranio dalle soluzioni acquose. Un esempio di tale innovazione è l'uso di biosorbenti combinati con fotocatalizzatori, come nel caso di Li et al. (2019), che hanno integrato processi bioispirati nell'adsorbimento e nella fotodegradazione, migliorando notevolmente l'efficienza complessiva della rimozione.
Un altro aspetto fondamentale riguarda l'uso di tecniche di irradiamento per stimolare la formazione di difetti nei materiali fotocatalitici. La radiazione elettronica, come evidenziato da Chen et al. (2021), può essere utilizzata per indurre la formazione di zeoliti difettosi, che, a loro volta, migliorano la capacità di riduzione e la stabilità del fotocatalizzatore. Questo processo, che avviene a temperatura ambiente, apre nuove possibilità per l'uso di tecnologie scalabili e facilmente applicabili.
La ricerca sulla fotocatalisi e sulla riduzione elettronica dell'uranio è in continua evoluzione, e le soluzioni che emergono stanno rendendo possibili trattamenti più rapidi, economici ed efficienti. Tuttavia, oltre a considerare l’efficacia di questi processi, è essenziale anche tenere in conto la sicurezza ambientale e l’ottimizzazione dell'uso delle risorse. I materiali utilizzati devono essere facilmente reperibili, economicamente sostenibili e capaci di essere rigenerati o trattati senza creare nuovi problemi di contaminazione. La sostenibilità di tali tecnologie sarà determinante nel loro successo a lungo termine.
Infine, sebbene la ricerca sulla fotocatalisi stia facendo rapidi progressi, è fondamentale considerare anche le implicazioni etiche e pratiche della loro implementazione su larga scala. La gestione sicura dell'uranio e la minimizzazione dei rischi associati alla sua manipolazione e al suo trattamento devono rimanere priorità indiscusse. Inoltre, mentre i processi fotocatalitici mostrano grande promessa, la realizzazione di sistemi complessi e la loro ottimizzazione per applicazioni industriali richiederanno ulteriori investimenti in ricerca e sviluppo, con particolare attenzione alla scalabilità dei processi e alla riduzione dei costi di produzione.
Come il Ferro Zero-Valente Nanoscale (nZVI) Può Essere Utilizzato per l'Estrazione di Uranio: Un'Analisi della Tecnica di Remediation Ambientale
L'uranio, un elemento chimico utilizzato principalmente come combustibile per centrali nucleari, è un inquinante pericoloso quando si trova nell'ambiente, specialmente nelle acque reflue derivanti dall'estrazione mineraria e dalle centrali nucleari. La presenza di uranio in forma solubile (come U(VI)) in acque di scarico non solo contribuisce alla contaminazione ambientale, ma rappresenta anche un serio rischio per la salute umana. L’efficace rimozione di uranio dall'acqua è pertanto un passo cruciale per mitigare i rischi ambientali e sanitari, e uno degli approcci più promettenti in questa direzione è l'uso del ferro zero-valente a scala nanometrica (nZVI).
Il ferro zero-valente (ZVI) è da tempo conosciuto per le sue capacità di riduzione e adsorbimento dei metalli pesanti e altri inquinanti ambientali. La sua efficacia nelle operazioni di bonifica è legata alla sua capacità di cedere elettroni ai contaminanti, trasformandoli in forme meno dannose o non tossiche. Quando il ferro è ridotto a forma di nanoparticelle (nZVI), le sue proprietà reattive e adsorbenti sono notevolmente potenziate, grazie alla maggiore superficie specifica e alla densità di siti attivi che caratterizzano i materiali nanostrutturati. Di conseguenza, le particelle di nZVI sono più reattive e capaci di interagire con una varietà di atomi o molecole rispetto ai materiali di ferro convenzionali, che risultano meno efficienti nella rimozione di contaminanti.
Tuttavia, l'uso di nZVI nella bonifica ambientale presenta alcune sfide. Le nanoparticelle di ferro, grazie alla loro elevata superficie rispetto al volume, tendono ad agglomerarsi rapidamente, riducendo la loro efficacia. Inoltre, l’ossidazione del ferro nudo quando esposto all'aria può compromettere ulteriormente le prestazioni delle nanoparticelle. Diverse ricerche hanno affrontato queste problematiche cercando soluzioni per migliorare la dispersione e la stabilità di nZVI, tra cui l'uso di materiali di supporto come minerali argillosi, ossidi metallici e materiali a base di carbonio.
Un approccio innovativo per risolvere queste difficoltà è l'impiego del glucomannano di konjac (KGM), un polisaccaride noto per le sue eccellenti proprietà di biocompatibilità e gelificazione. L'assemblaggio di nZVI con KGM consente di formare un composito, nZVI@KGMC, che non solo migliora la dispersione delle nanoparticelle di ferro, ma ne aumenta anche la stabilità. Grazie alla presenza di gruppi funzionali contenenti ossigeno sulla superficie del KGM, il materiale ottenuto risulta più resistente all'ossidazione e presenta una notevole capacità di adsorbimento e riduzione, rendendolo particolarmente adatto per la bonifica delle acque reflue contaminate da uranio.
L’interazione tra nZVI e uranio nelle acque reflue comporta due processi principali. In primo luogo, le particelle di nZVI adsorbono gli ioni di uranio (U(VI)) dalla soluzione. In seguito, attraverso una reazione di trasferimento elettronico, l’uranio viene ridotto a una forma meno solubile e meno mobile, U(IV), che si precipita e viene rimosso dall'acqua. Questo processo non solo riduce la mobilità dell'uranio, ma diminuisce anche la sua biotossicità, contribuendo così a una significativa riduzione dei rischi ambientali e sanitari associati alla contaminazione da uranio.
Le nanoparticelle di nZVI modificate con KGM offrono diversi vantaggi rispetto ad altre tecniche di bonifica. Innanzitutto, la maggiore superficie specifica delle particelle consente un’adsorbimento più efficace degli ioni di uranio, mentre la stabilità del composito impedisce la rilasciabilità dell'uranio precedentemente adsorbito, caratteristica che altre tecnologie, come i riduttori chimici tradizionali o i metodi di filtrazione fisica, non possiedono. Inoltre, la possibilità di modificare la dimensione delle particelle e la superficie specifica permette di ottimizzare ulteriormente l'efficienza del processo di rimozione.
La versatilità e l'efficienza del materiale nZVI@KGMC lo rendono ideale per l'uso nelle acque reflue derivanti da miniere di uranio e centrali nucleari. La ricerca continua su questi materiali, volta a perfezionare la loro produzione e a migliorarne le proprietà, sta gettando le basi per applicazioni su larga scala in progetti di bonifica ambientale.
In conclusione, la combinazione di ferro zero-valente a scala nanometrica con il glucomannano di konjac rappresenta una soluzione promettente per affrontare il problema dell’inquinamento da uranio. L’efficienza e la stabilità di questo sistema, unita alla capacità di ridurre la biotossicità dell'uranio, lo pongono come un materiale di riferimento per la bonifica di acque contaminate. La ricerca in questo campo non solo offre soluzioni più sostenibili e sicure per il trattamento delle acque reflue, ma contribuisce anche allo sviluppo di nuove tecnologie per la gestione dei rifiuti radioattivi.
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