Il dibattito sull'impeachment del presidente Donald Trump ha messo in luce la continua tensione tra il rispetto della Costituzione e l'influenza del partito politico, sollevando interrogativi fondamentali sulla definizione e l'applicabilità delle cause di impeachment. I sostenitori della sua innocenza, come il senatore repubblicano Lamar Alexander, sostenevano che le sue azioni fossero “inappropriate”, ma non giustificassero un impeachment secondo gli standard costituzionali, che richiedono un crimine grave e comprovato. Al contrario, i democratici, richiamandosi alle parole di Alexander Hamilton e George Mason, sostenevano che l'abuso di potere, pur non configurandosi come crimine in senso legale, fosse sufficiente a giustificare l'allontanamento del presidente, in quanto minaccia alla fiducia pubblica e alla democrazia.
Il concetto di "high crimes and misdemeanors", come sottolineato dai democratici, non si limita a reati codificati ma abbraccia una gamma più ampia di comportamenti che minacciano il buon funzionamento del governo e l'integrità del potere esecutivo. Tuttavia, questa visione è stata contestata da molti repubblicani, che hanno interpretato l'impeachment come un attacco politico alla presidenza, riducendo il dibattito a una questione di divergenza ideologica e non di abuso concreto di potere. I repubblicani più moderati, come Mitt Romney, hanno comunque riconosciuto che un presidente può compromettere gravemente la fiducia pubblica anche senza commettere un crimine previsto dalla legge, come nel caso di Trump.
La divisione tra i due schieramenti ha raggiunto il culmine con il voto del Senato del 6 febbraio 2020, che ha visto l'acquittamento di Trump con una maggioranza di 52-48 su abuso di potere e 53-47 su ostruzione al Congresso. Solo Romney ha votato contro, segnando una rara dissonanza all'interno del partito repubblicano. L'esito del processo di impeachment ha rafforzato l'idea che la politica partigiana possa impedire il funzionamento corretto del sistema costituzionale, facendo sorgere dubbi sul valore effettivo dell'impeachment come strumento di controllo presidenziale.
Dopo l'acquittamento, molti democratici hanno cominciato a chiedersi se fosse possibile, in futuro, trovare un presidente che rispondesse veramente per un abuso di potere. L'incapacità di perseguire Trump ha portato alla sensazione che l'impeachment fosse diventato uno strumento inefficace nelle mani di una politica sempre più polarizzata. I repubblicani, da parte loro, hanno visto l'acquittamento come una riaffermazione della forza della Costituzione, che, a loro avviso, aveva protetto l'autorità presidenziale da interferenze eccessive. Tuttavia, i segnali di un governo presidenziale sempre più autocratico sono diventati evidenti con la gestione delle elezioni del 2020, quando Trump ha tentato di delegittimare il sistema elettorale e di minare i risultati attraverso accuse infondate di frodi elettorali.
Il contesto storico che ha alimentato questa crisi è profondo e radicato nelle vicende del passato degli Stati Uniti. La storia del paese è segnata da momenti di grande instabilità costituzionale, come la crisi elettorale del 1876, che, pur avendo portato a una soluzione legislativa temporanea, non ha mai ricevuto una risposta definitiva da parte della Costituzione. La legge passata nel 1887, che regola la procedura di conteggio dei voti elettorali, nasce da una situazione simile a quella che si è verificata nel 2020, quando le elezioni furono contestate in modo drammatico. Tuttavia, sebbene la Costituzione offra delle linee guida, non sempre queste si rivelano sufficienti per affrontare le sfide moderne, specialmente quando la politica parte dal presupposto che il presidente sia al di sopra di ogni critica.
In definitiva, il caso di Trump ha esemplificato la tensione tra il rispetto delle istituzioni democratiche e la polarizzazione politica. Mentre i democratici cercavano di difendere la Costituzione come uno strumento vivo, capace di proteggere la democrazia da comportamenti autoritari, i repubblicani vedevano l'impeachment come un'arma partigiana, utilizzata per minare la legittimità di un presidente eletto. La domanda che resta aperta è se il sistema costituzionale degli Stati Uniti sia ancora capace di gestire il potere presidenziale in modo equo e giusto, senza piegarsi alle spinte partigiane che rischiano di corrompere le sue fondamenta.
La censura dei social media e il potere delle piattaforme digitali nella politica moderna: un'analisi del caso Trump
Nel gennaio 2021, l'attacco al Campidoglio degli Stati Uniti ha sollevato nuove questioni sul ruolo dei social media nel fomentare violenze politiche e destabilizzare il discorso pubblico. In questo contesto, la decisione di Twitter di bandire Donald Trump dalla piattaforma ha scatenato un ampio dibattito sull'equilibrio tra la libertà di espressione e la responsabilità delle piattaforme digitali nel regolamentare i contenuti.
Il 9 gennaio 2021, la notizia della sospensione dell'account di Trump su Twitter ha avuto un impatto immediato. L'ex presidente, che aveva utilizzato Twitter come una delle sue principali armi di comunicazione, si è visto privato del suo megafono digitale. Mentre alcuni sostenevano che tale decisione fosse necessaria per prevenire ulteriori incitamenti alla violenza, altri hanno messo in dubbio se una piattaforma privata dovesse esercitare tale potere, soprattutto in un paese che si fonda sul primo emendamento della Costituzione, che garantisce la libertà di parola.
La risposta di Twitter è stata giustificata dalla necessità di proteggere l'integrità delle elezioni e di prevenire violenze future, ma ha anche messo in evidenza il crescente potere delle grandi piattaforme tecnologiche nel determinare quali discorsi sono considerati accettabili. Secondo un'analisi di Kevin Roose, il fatto che una singola azienda come Twitter possa "sospendere un presidente in carica" solleva interrogativi sulle dinamiche di potere nel mondo digitale. In un'epoca in cui il discorso pubblico è sempre più mediato dalle piattaforme online, il controllo su ciò che viene detto e condiviso ha implicazioni ben più ampie rispetto alla semplice gestione di un account.
Questo fenomeno è emblematico del dibattito più ampio sulla regolamentazione dei social media. Alcuni studiosi, come Tim Wu, sostengono che il primo emendamento potrebbe non essere più sufficiente a proteggere la libertà di espressione nel contesto delle moderne piattaforme digitali, che sono essenzialmente monopolistiche e non soggette agli stessi limiti costituzionali che regolano le azioni del governo. Altri, come Lincoln Caplan, sollevano la questione se piattaforme come Facebook e Twitter debbano essere trattate come entità pubbliche, soggette a leggi che regolano la libertà di parola, o se devono essere libere di determinare autonomamente le proprie politiche di contenuto.
L'interrogativo fondamentale che emerge da questi eventi è come bilanciare la protezione della libertà di espressione con la necessità di prevenire l'uso della piattaforma per diffondere contenuti dannosi, tra cui disinformazione e incitamento alla violenza. La risposta a questa domanda non è semplice. Le leggi esistenti non sono sempre adeguate a fronteggiare la complessità dei social media moderni, che operano su scala globale e sono in grado di influenzare direttamente il processo politico in modi senza precedenti. L'incapacità di regolare adeguatamente questi spazi ha già portato a situazioni in cui le piattaforme si trovano costrette a prendere decisioni drastiche senza una chiara direzione legale o politica.
Dal punto di vista teorico, la visione di Jürgen Habermas sulla trasformazione della sfera pubblica assume una nuova rilevanza. Habermas ha descritto come i media tradizionali, un tempo strumenti di comunicazione pubblica, abbiano ceduto il posto a nuovi canali digitali, in cui le conversazioni politiche non sono più dominate dalle istituzioni pubbliche ma da attori privati che controllano l'accesso e la diffusione delle informazioni. Questo cambiamento ha portato a una frammentazione del discorso pubblico, dove la verità e l'oggettività sono sovente messe in discussione da opinioni personali e da narrazioni che si diffondono in modo virale.
Il caso di Trump è significativo anche per le sue implicazioni più ampie sul concetto di responsabilità politica nell'era digitale. Se da un lato le piattaforme hanno il diritto di decidere quali contenuti ospitare, dall'altro esse sono diventate entità così potenti da influenzare la politica globale. Il loro ruolo nella diffusione di notizie false, nel manipolare l'opinione pubblica e nel consentire la polarizzazione del discorso politico è ormai un fatto incontrovertibile. La vera sfida risiede nel trovare un equilibrio tra la protezione della libertà di espressione e la necessità di garantire che l'uso di queste piattaforme non porti a danni irreparabili alla democrazia stessa.
Inoltre, è fondamentale che gli utenti di piattaforme come Twitter e Facebook comprendano che la libertà di espressione non significa impunità. La responsabilità di come vengono utilizzati questi strumenti è condivisa tra gli utenti e le aziende che li gestiscono. Le piattaforme devono essere più trasparenti nelle loro decisioni, fornendo chiarezza su come e perché vengono prese determinate azioni contro determinati contenuti o utenti.
Infine, è importante notare che la crescente centralità dei social media nella politica non deve essere vista come una fatalità, ma come un'opportunità per rivedere il nostro modo di concepire la libertà di parola, la responsabilità dei media e l'accesso alle informazioni. I social media hanno il potenziale di democratizzare il dibattito pubblico, ma per farlo devono essere regolati in modo che non diventino veicoli di polarizzazione e disinformazione.
Come la Postmodernità ha Influito sulla Crisi della Verità nell'Era di Trump?
Nel corso degli ultimi decenni, le teorie postmoderne hanno esercitato un'influenza indiscutibile sulla filosofia sociale e politica. Tuttavia, la loro influenza, pur essendo stata oggetto di approfonditi dibattiti accademici, ha assunto nel contesto politico degli Stati Uniti una forma piuttosto controversa, in particolare con l'emergere del trumpismo. Alcuni teorici hanno addirittura suggerito che la diffusione di idee postmoderne abbia contribuito in modo significativo alla crisi della verità e alla proliferazione delle menzogne politiche nell'era di Trump. La figura di Donald Trump, con il suo disprezzo dichiarato per i fatti e le verità convenzionali, ha suscitato un'intensa discussione su come le teorie postmoderne, che mettono in discussione la nozione stessa di "oggettività", possano avere un impatto sulla percezione della verità.
Bruno Latour, storico delle scienze e uno dei pensatori più importanti nella critica al postmodernismo, ha sollevato una domanda cruciale. Nel 2004, dopo la guerra in Iraq e la crescente consapevolezza sui cambiamenti climatici, Latour ha avvertito che il principale pericolo per la nostra epoca non proveniva più da un'eccessiva fiducia nei "fatti ideologici", ma piuttosto da una sfiducia eccessiva nei "fatti buoni", travestiti da pregiudizi ideologici. In altre parole, la sfida del nostro tempo potrebbe non risiedere nell'affrontare le ideologie che mascherano la verità, ma piuttosto nella capacità di riconoscere e difendere i fatti oggettivi contro l'incredulità e la manipolazione delle informazioni.
Tuttavia, l'idea che il postmodernismo sia responsabile della crisi della verità legata al trumpismo non è così semplice. La relazione tra il pensiero postmoderno e il trumpismo è complessa e le connessioni tra i due fenomeni non sono facilmente tracciabili. Teorici come Jean-François Lyotard, Michel Foucault e Richard Rorty, che vengono spesso associati al postmodernismo, hanno lottato per dissociarsi dall'idea che le loro teorie contribuiscano a una forma di "nihilismo epistemologico". Il postmodernismo, pur avendo avuto un enorme impatto sulla teoria sociale e politica, non ha avuto la stessa risonanza nelle scienze sociali tradizionali e nelle scienze politiche, e la sua influenza è stata limitata soprattutto al campo della critica letteraria.
Inoltre, la demografia che sostiene Trump – soprattutto gli americani bianchi, anziani e senza un'istruzione universitaria – è tra i gruppi meno probabili ad essere stati esposti alle teorie postmoderne. L'idea che il trumpismo derivi da un'influenza postmoderna sembra pertanto più un'inferenza basata su una generalizzazione culturale che una realtà storica solida. Il postmodernismo, in realtà, non ha mai avuto un'influenza diretta sulla base di supporto di Trump, e le teorie che cercano di attribuire a queste idee la responsabilità per il trionfo di Trump trascurano la mancanza di connessione diretta tra la teoria e la pratica politica di quella parte della popolazione.
Nel contesto della presidenza di Trump, la sua costante diffusione di disinformazione tramite Twitter è stata una manifestazione di una sfida ben più ampia al concetto di verità. Nel maggio del 2020, Trump twittò che non esisteva alcuna possibilità che le votazioni per posta non fossero fraudolente, nonostante l'assenza di prove concrete. Questo tipo di dichiarazione, pur priva di fondamento, ha alimentato una narrativa di sfiducia nelle istituzioni democratiche e nella verità in sé. In risposta, Twitter ha cominciato a contrassegnare i suoi tweet come erronei, ma non senza attirare critiche. Trump ha immediatamente accusato Twitter di "stifolare la libertà di espressione". Questo scontro tra il presidente e le piattaforme social è stato emblematico di un fenomeno più ampio: il conflitto tra la libertà di parola e la necessità di combattere la disinformazione.
Tuttavia, non sono solo i social media a giocare un ruolo in questa crisi della verità. La frammentazione dei mezzi di comunicazione, descritta dal giornalista Bill Bishop come il "Big Sort", ha accelerato il processo di polarizzazione, con i media che si sono sempre più identificati con visioni politiche contrastanti piuttosto che con verità condivise. Questo fenomeno ha portato alla creazione di bolle informative, dove le persone ascoltano solo ciò che conferma le loro convinzioni preesistenti. In questa realtà, le verità condivise diventano sempre più rare, e l'informazione si trasforma in uno strumento di manipolazione piuttosto che in un mezzo per la comprensione oggettiva dei fatti.
Per combattere la disinformazione, alcune teorie politiche hanno cercato di recuperare una visione della verità come qualcosa di fisso e incontrovertibile. Tuttavia, la ricerca di una "verità" indiscutibile si scontra con le difficoltà insite nel mondo contemporaneo, dove le narrazioni politiche sono sempre più complesse e sfumate. La nostalgia per un passato in cui la verità sembrava più semplice e sicura non offre soluzioni concrete alla crisi attuale.
L'esperienza di Trump ha messo in luce una domanda che le teorie postmoderne avevano sollevato decenni prima: qual è il ruolo della verità in un mondo in cui le informazioni sono sempre più frammentate e manipolate? La risposta, probabilmente, non sta nel recupero di un'idea di verità assoluta, ma piuttosto in un impegno critico per riconoscere e affrontare le forze che minano la fiducia nella conoscenza condivisa. In un'epoca in cui le verità sono diventate il campo di battaglia per la politica, non è solo la manipolazione delle informazioni che conta, ma anche come queste vengono interpretate e contestualizzate dai diversi gruppi sociali.
L'Immagine della Donna nell'Amministrazione Trump: Tra Comunicazione e Paradossi
Durante la presidenza di Donald Trump, le donne hanno svolto un ruolo centrale nella strategia comunicativa della Casa Bianca, tanto come figure politiche quanto come simboli di una retorica e di un'ideologia politica ben definite. Nonostante la retorica spesso populista e l'approccio anti-azione positiva promossi dall'amministrazione, le donne hanno giocato un ruolo fondamentale nell’articolare e difendere le posizioni del presidente, cercando di costruire una narrativa che rispondesse sia alle critiche interne che internazionali.
Tra le figure più emblematiche ci fu Kellyanne Conway, che, con la sua abilità retorica, diventò uno dei principali consiglieri di Trump. In un famoso episodio televisivo, rispondendo a un’accusa di falsità riguardante le dichiarazioni sulla dimensione della folla all'inaugurazione presidenziale, Conway coniò il termine “fatti alternativi”, sancendo un approccio che avrebbe contraddistinto gran parte della comunicazione della Casa Bianca. Quello che inizialmente sembrava un semplice espediente retorico, divenne un invito ad abbracciare una realtà distorta, dove la verità poteva essere manipolata per rispondere alle necessità politiche.
Questo concetto di "fatti alternativi" non si limitava alla manipolazione della realtà mediatica, ma si estendeva anche alla definizione di un’eredità storica parallela, spesso distaccata da quella condivisa dalla maggior parte dei media mainstream. La negazione di eventi significativi, come la Women’s March, non veniva solo vista come una questione di opinioni diverse, ma come una vera e propria riscrittura della storia in tempo reale. Trump e i suoi consiglieri cercarono di ridurre o ignorare l’importanza di movimenti sociali come il movimento delle donne, favorendo invece una narrativa che enfatizzasse il sostegno e il radicamento della sua base elettorale.
La componente femminile della squadra comunicativa di Trump era significativa non solo per il numero, ma anche per l’esperienza politica che queste donne portavano con sé. Figure come Sarah Huckabee Sanders, Stephanie Grisham e Kayleigh McEnany non solo avevano una lunga carriera nel Partito Repubblicano, ma avevano anche un’esperienza consolidata nel settore delle comunicazioni, riuscendo a gestire le crisi politiche con grande abilità. Sanders, per esempio, non si limitava a rispondere alle domande, ma utilizzava anche un linguaggio che mescolava politica e vita familiare, come quando definiva la sua casa una prova tangibile di caos, un parallelo con l’amministrazione Trump, apparentemente travolta dal caos, ma in realtà sempre abile nel manovrare l’opinione pubblica.
Un altro aspetto interessante di questa amministrazione era l’approccio distintivo verso il personale governativo. Trump aveva promesso di "svuotare la palude", un obiettivo che in teoria doveva eliminare la burocrazia eccessiva e le inefficienze governative, ma che, nella pratica, si tradusse in un attacco alle donne nel governo federale. La politica di congelamento delle assunzioni e la riorganizzazione dell'amministrazione federale colpì in modo sproporzionato le donne, riducendo la loro partecipazione negli organi decisionali. Inoltre, sotto Trump, l’ufficio per la gestione del personale, che supervisionava l'implementazione delle politiche di parità di genere e diversità, vide una significativa erosione dei suoi poteri, con l’elezione di Janet Dhillon alla guida della Commissione per le Pari Opportunità di Lavoro (EEOC), la quale rallentò notevolmente le denunce di discriminazione sul posto di lavoro.
Nel contesto di una presidenza che aveva promesso di restaurare valori tradizionali, Trump stesso sembrava applicare un modello retrogrado di femminilità al personale femminile della Casa Bianca. Era circolato infatti il presunto "codice di abbigliamento" non ufficiale, che imponeva alle donne di vestirsi “da donne”, ovvero con abiti aderenti e tacchi alti, un ideale estetico che sembrava provenire direttamente dagli anni '60, con una visione della donna che ricalcava l’immagine di un'epoca passata, lontana dalle conquiste dei movimenti femministi. Questo aspetto visivo della femminilità, che richiamava alla mente l’immagine stereotipata della donna negli anni del Mad Men, ha suscitato un’ondata di critiche sui social media e ha sollevato interrogativi sul ruolo della donna nella politica contemporanea.
Oltre a questi aspetti, è importante riconoscere che la comunicazione di Trump era spesso una battaglia per la definizione di verità e realtà. Le donne che lavoravano nella sua squadra di comunicazione non erano semplici portavoce, ma divennero figure centrali nel gioco di potere che si svolgeva ogni giorno. La loro capacità di adattarsi a un ambiente caratterizzato da continue crisi e attacchi non solo da parte dei media, ma anche all’interno dello stesso governo, evidenziava una strategia politica di resistenza e controllo dell’immagine pubblica. La gestione delle crisi, la manipolazione delle informazioni e la creazione di narrative alternative divennero non solo una necessità politica, ma una vera e propria strategia di difesa, sia sul piano interno che internazionale.
Queste dinamiche ci dicono molto sulle complessità della politica contemporanea, dove le immagini e le percezioni sono tanto influenti quanto le azioni concrete. L’uso della figura femminile in un contesto così controverso non è solo una questione di estetica o di comunicazione, ma un campo di battaglia ideologico che riflette le sfide più ampie della nostra società. Le scelte politiche che riguardano il personale, le normative sull’occupazione e le politiche sociali devono essere comprese non solo in termini di risultati concreti, ma anche alla luce delle narrazioni che vengono costruite attorno a esse.
La Muraglia e la Politica dell'Infrastruttura nella Presidenza Trump
Durante la presidenza di Donald Trump, uno degli aspetti più controversi e al contempo simbolici della sua politica è stato il progetto della costruzione della "muraglia" al confine con il Messico. Non si trattava solo di un’infrastruttura fisica, ma di una messa in scena politica che ha radicalmente influenzato il discorso pubblico e le politiche relative all'immigrazione. Sin dal suo primo giorno alla Casa Bianca, Trump ha costantemente promesso che il Messico avrebbe pagato per la costruzione di un muro lungo il confine sud degli Stati Uniti. Tuttavia, la realtà di questa promessa si è rivelata ben diversa.
Il muro, che Trump voleva dipinto di nero per aumentare il calore e il dolore per chiunque lo toccasse, è stato costruito attraverso una serie di stratagemmi finanziari che eludevano il controllo del Congresso. Nonostante i rifiuti ripetuti da parte del Congresso di stanziare fondi per il progetto, la Casa Bianca è riuscita a finanziare la costruzione utilizzando fondi federali destinati ad altri scopi, come i programmi per la lotta alla narcotici e la costruzione militare. La scelta di dipingere il muro di nero, che comportava un costo aggiuntivo di circa 1,2 milioni di dollari per ogni miglio costruito, è stata una decisione che, pur apparentemente simbolica, ha avuto anche una dimensione pratica, aumentando la durezza dell’esperienza per chiunque tentasse di attraversare il confine.
Il progetto della muraglia non è stato solo un’operazione fisica, ma anche un’operazione retorica. Trump ha utilizzato questa infrastruttura per rafforzare il suo messaggio politico, in particolare riguardo alla sua posizione sull’immigrazione. La costruzione del muro ha avuto un duplice effetto: da una parte, ha alimentato il risentimento verso gli immigrati, soprattutto quelli provenienti da America Centrale e Messico; dall’altra, ha consolidato il supporto della sua base elettorale. Il muro, per Trump, è diventato un simbolo della sua lotta contro l’immigrazione illegale, una battaglia che ha descritto come essenziale per la sicurezza nazionale.
Questo progetto non si è fermato alla costruzione del muro fisico. Ha avuto implicazioni più ampie per la politica delle frontiere, comprendendo un ampio aumento dell’apparato burocratico incaricato di gestire l’immigrazione. Agenti come quelli della Customs and Border Protection (CBP) e dell'Immigration and Customs Enforcement (ICE) sono stati fondamentali nel rafforzare la capacità di controllo del confine, attuando politiche restrittive come i Migrant Protection Protocols (MPP), che obbligavano migliaia di richiedenti asilo a rimanere in Messico in attesa di un’udienza negli Stati Uniti. Queste politiche, sebbene formalmente giustificate come misure di sicurezza, hanno avuto un impatto devastante sulle persone, costringendo decine di migliaia di rifugiati, inclusi bambini, a vivere in condizioni precarie.
Inoltre, la retorica del muro è stata usata per giustificare altre politiche dure, tra cui il divieto di ingresso per i cittadini di paesi a maggioranza musulmana e l’intensificazione delle deportazioni. Trump ha alimentato la paura di invasioni di migranti, dipingendo un’immagine distorta di una minaccia alla sicurezza nazionale, anche se le prove di tale minaccia erano minime. Questo ha avuto un risvolto più ampio nella sua politica: il muro non è stato solo un’opera di cemento e acciaio, ma una manifestazione della sua visione della "grandezza" americana, fatta di separazioni nette e politiche escludenti.
Tuttavia, l'idea che il muro fosse solo una barriera fisica e politica è limitata. Come notato da molti analisti, il vero significato della muraglia risiede nel suo uso come strumento di legittimazione ideologica. Analogamente a come Franklin Roosevelt aveva utilizzato il New Deal per rafforzare il suo potere politico attraverso la costruzione di infrastrutture durante la Grande Depressione, Trump ha utilizzato la promessa del muro per consolidare il sostegno della sua base, facendo leva su paure e rancori verso i migranti. La visione del muro come un simbolo di protezione e purezza razziale ha alimentato un clima di intolleranza e xenofobia, che ha avuto effetti devastanti non solo sulle politiche di immigrazione, ma anche sulle dinamiche sociali e politiche interne agli Stati Uniti.
In effetti, la costruzione della muraglia non può essere vista solo come un progetto fisico, ma come un tentativo di legittimare una visione del mondo che esclude, marginalizza e stigmatizza. Trump, con l’aiuto delle sue agenzie governative, ha cercato di rafforzare il controllo sulle frontiere attraverso una serie di politiche che hanno mirato a ridurre le possibilità di accesso e accoglienza per i migranti, rivelando il lato più oscuro della sua agenda politica.
Infine, sebbene la muraglia sia un simbolo potente del suo mandato, è importante notare che la sua costruzione non è mai stata veramente completata. Molti tratti del muro sono stati eretti solo temporaneamente, in modo che potessero essere giustificati come risultati concreti per una politica che, al fondo, non ha mai ricevuto il supporto universale o legislativo necessario per un cambiamento significativo e duraturo. La vera "muraglia" che Trump ha costruito, dunque, è quella ideologica, un muro che divide la società americana non solo lungo il confine fisico, ma nelle sue concezioni fondamentali di ciò che significa essere "americani".
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