Nel corso della campagna presidenziale del 1968, Richard Nixon seppe interpretare e sfruttare il crescente malcontento della società americana riguardo alla violenza, al crimine e alle tensioni razziali. Il suo appello alla “legge e ordine” non fu solo una risposta alla paura di una parte significativa dell'elettorato, ma anche uno strumento abilmente utilizzato per consolidare il supporto di un ampio segmento conservatore, che temeva la crescente violenza nelle strade e l'instabilità sociale.

Molti degli elettori che si sentivano minacciati dai movimenti per i diritti civili e contro la guerra, e da un percepito disordine urbano, trovarono nelle parole di Nixon una rassicurante promessa di stabilità. La sua retorica si concentrò sull'idea che fosse necessario ripristinare l'ordine, un ordine che, nel contesto dell'epoca, assumeva spesso significati impliciti legati al razzismo, alla repressione delle minoranze e a un ritorno a una visione del mondo in cui i bianchi, specialmente quelli delle aree suburbane, si sentivano protetti. Nixon, infatti, non si limitò a invocare la sicurezza, ma suggerì che ci fosse una divisione profonda tra "buoni" americani e "altri" americani, in particolare tra i cittadini rispettosi delle leggi e coloro che sfidavano l'ordine costituito.

L'emergere del movimento per i diritti civili, la violenza nelle strade e le manifestazioni contro la guerra del Vietnam avevano polarizzato la società americana. Quando i Democratici si riunirono a Chicago per la loro convention, la violenza e il caos che ne seguirono dimostrarono quanto fosse fragile la stabilità nel paese. Mentre i Democratici non riuscivano a trovare una soluzione alla guerra in Vietnam e a mettere fine alle violenze interne, Nixon si presentava come la figura capace di riportare l'ordine.

La sua retorica, tuttavia, non si limitava a evocare la necessità di un ritorno alla sicurezza, ma rifletteva anche una strategia politica più sottile, che mirava a sfruttare i timori razziali degli elettori bianchi. Nixon non si preoccupava di fare campagne per il voto nero, come confermato dai suoi stessi commenti privati, in cui affermava che non avrebbe rischiato di alienarsi l'elettorato suburbano per corteggiare gli elettori neri. Anzi, la sua campagna si concentrò su un messaggio che enfatizzava la necessità di mantenere un controllo locale sulle scuole e di sostenere la legge e l'ordine, riducendo al minimo qualsiasi riferimento diretto alla segregazione razziale o ai diritti civili.

La strategia di Nixon si basava anche sul cosiddetto “Southern Strategy”, che cercava di guadagnare il supporto dei bianchi del Sud, facendo leva sulla loro resistenza alla desegregazione e alla diffusione di politiche federali. In questa fase, Nixon evitava di criticarlo apertamente, lasciando che fosse la retorica di George Wallace a polarizzare ulteriormente l'elettorato. Nixon si presentava come il candidato che, pur mantenendo un approccio conservatore, sarebbe stato capace di offrire una leadership stabile e responsabile.

Alla fine, la strategia ebbe successo. Con una campagna incentrata su legge e ordine, Nixon riuscì a guadagnarsi una vittoria schiacciante nei sobborghi bianchi e a sedurre un ampio numero di elettori dei sudisti, che avevano un’inclinazione conservatrice. Nonostante la vittoria risicata, la sua campagna aveva fatto leva sulle paure sociali e razziali, rafforzando la divisione tra le diverse componenti della società americana.

Il concetto di "legge e ordine" non fu mai solo una questione di sicurezza. In realtà, fu utilizzato come un modo per nascondere e mascherare una più profonda disuguaglianza sociale e razziale. La retorica di Nixon non riuscì mai a ridurre le divisioni sociali, ma riuscì, invece, a capitalizzare su di esse. L’elezione del 1968 rappresentò una vittoria non solo per Nixon, ma anche per un modo di fare politica che riusciva a manipolare le paure e le frustrazioni di una società divisa.

Nixon capì che non bastava solo puntare sulle promesse di stabilità: per vincere, doveva riuscire a parlare a una parte dell'elettorato che, pur non volendo manifestare apertamente sentimenti razzisti, temeva un futuro in cui il controllo delle leggi e delle politiche sarebbe stato fuori dal loro controllo. Il risultato fu un'America sempre più polarizzata, un paese diviso tra le sue speranze per un futuro migliore e le sue paure di un mondo in rapido cambiamento. La politica della legge e dell'ordine, quindi, non fu solo una risposta alla violenza; fu una riflessione della crescente disuguaglianza razziale e sociale, un tema che avrebbe continuato a influenzare la politica americana per molti anni a venire.

Come nacque il partito repubblicano e la doppia anima dell’America moderna

All’inizio del 1854, mentre il Congresso degli Stati Uniti discuteva l’organizzazione dei vasti territori dell’Ovest — Kansas e Nebraska — in gioco non vi era solo la questione morale della schiavitù, ma la struttura stessa del potere economico e politico della nazione. Il dibattito sulla legge che avrebbe consentito ai coloni di decidere autonomamente se permettere la schiavitù rifletteva un conflitto più profondo: l’equilibrio tra la forza del Sud schiavista e le aspirazioni del Nord industriale e agricolo libero. Se i nuovi territori avessero ammesso la schiavitù, il potere del Sud — una oligarchia razzista dominata dai grandi proprietari di piantagioni — si sarebbe ulteriormente consolidato, minacciando di trasformare l’America in una dittatura economica e sociale fondata sul lavoro forzato.

La Kansas-Nebraska Act scosse le coscienze e i calcoli politici. Contro la prospettiva dell’espansione della schiavitù nacque una nuova alleanza: Whig, Democratici antischiavisti, membri del Free Soil Party e i Know-Nothings si riunirono a Ripon, nel Wisconsin, per dare vita a un nuovo partito, destinato a cambiare la storia americana. Scelsero un nome evocativo: Partito Repubblicano. Pochi mesi dopo, circa trenta rappresentanti si riunirono a Washington e decisero di unirsi a questa nuova forza per contrastare l’avanzata del potere schiavista.

Abraham Lincoln, allora ex deputato e ancora legato ai Whig, rifiutò inizialmente di aderire. Ma due anni più tardi, dopo il tracollo elettorale dei sostenitori della legge pro-schavitù, si unì al movimento, diventandone in breve il volto più carismatico. Nel 1860 fu eletto primo presidente repubblicano. Con lui il partito si affermò come il difensore della libertà e dell’uguaglianza, promuovendo un’idea di governo nazionale forte e attivo, capace di sostenere l’interesse pubblico.

Il programma repubblicano dell’epoca rifletteva un equilibrio tra morale e modernità: opposizione all’espansione della schiavitù, redistribuzione delle terre ai piccoli agricoltori, tutela degli immigrati, investimenti nelle infrastrutture e nel progresso. Le tariffe doganali dovevano proteggere i lavoratori americani e finanziare uno Stato capace di agire per il bene comune — sostenendo l’educazione pubblica, creando un sistema monetario nazionale e promuovendo l’agricoltura e il lavoro. La politica di Lincoln culminò con il Tredicesimo Emendamento, che abolì la schiavitù, ma la vittoria morale fu seguita da un lungo secolo di oscillazioni interne: tra riformismo e conservatorismo, tra l’ideale dell’uguaglianza e la difesa degli interessi economici dei più potenti.

Il giornalista Theodore White, nel 1961, descrisse il Partito Repubblicano come “gemelli fratricidi”: uno rappresentava l’idealismo più alto, l’altro la brama più gretta di ricchezza. Questa duplicità accompagnò il partito fin dalle origini, in un conflitto costante tra il bene civico e l’avidità privata. Dopo la guerra civile, la questione divenne come garantire i diritti dei neri liberati: mentre alcuni repubblicani volevano una ricostruzione radicale e un sostegno economico ai nuovi cittadini, altri temevano il radicalismo e preferivano un ritorno all’ordine.

Con l’ascesa di Ulysses S. Grant alla presidenza, il partito sostenne gli emendamenti che riconoscevano la cittadinanza e il diritto di voto agli afroamericani, ma allo stesso tempo si lacerava al suo interno. Gli industriali del Nord chiedevano dazi alti e protezione per le proprie imprese, mentre i rappresentanti dell’Ovest, ancora in via di sviluppo, reclamavano credito facile e opportunità di espansione. La paura delle rivolte operaie e dell’organizzazione dei lavoratori, ispirate alla Comune di Parigi, spinse una parte del partito verso gli interessi bancari e industriali.

Alla fine dell’Ottocento, la componente “liberale” dei repubblicani iniziò a denunciare la corruzione e la sottomissione del partito ai poteri economici. Tuttavia, nonostante le critiche, i repubblicani continuarono a vincere le elezioni presidenziali, difendendo un modello di Stato interventista a servizio del capitale più che del cittadino comune. La vittoria di Rutherford B. Hayes nel 1876 segnò un punto di svolta: da un lato, l’uso della forza contro gli scioperi; dall’altro, il ritiro delle truppe federali dal Sud, che permise ai suprematisti bianchi di riprendere il controllo politico.

Così, mentre i Democratici del Sud si riappropriavano del linguaggio dei “diritti degli Stati” — un eufemismo per la difesa della supremazia bianca — il Partito Repubblicano si allontanava sempre più dalle sue origini lincolniane, trasformandosi gradualmente da partito del popolo libero a partito del capitale e della stabilità economica. Il suo percorso, fatto di vittorie e contraddizioni, riflette la tensione permanente dell’America stessa: quella tra la promessa dell’uguaglianza e la realtà del potere.

È importante comprendere che la nascita e l’evoluzione del Partito Repubblicano non rappresentano solo la storia di una forza politica, ma la storia della formazione dell’identità americana. L’idea di libertà, che in Lincoln trovava una dimensione etica e civile, si è trasformata nel tempo in una libertà economica individualista, spesso indifferente alla giustizia sociale. Per leggere davvero questa storia, bisogna vedere come l’America abbia costruito il proprio mito di libertà attraverso compromessi e contraddizioni, e come ogni generazione debba ridefinire il significato di uguaglianza, non solo davanti alla legge, ma anche davanti alle opportunità della vita.