La vita nelle alte vette del Tibet presenta sfide che non si trovano facilmente altrove. Campi di neve perenni, venti impetuosi e temperature gelide costringono a soluzioni pratiche e ingegnose. A Takhtsang Lhamo, a oltre dodicimila piedi sopra il livello del mare, abbiamo dovuto adattarci alla durezza del clima, dove il freddo e la mancanza di risorse naturali rendevano difficile ogni attività quotidiana. La vita del campo, pur essendo sufficientemente confortevole grazie alla capacità di adattarsi agli ambienti estremi, rimaneva sempre influenzata da condizioni ambientali che imponevano una continua preparazione e precauzione.

Un aspetto fondamentale di questa vita di adattamento era l’utilizzo di risorse limitate. La maggior parte dei villaggi circostanti produceva solo rutabaga, e il clima non permetteva la coltivazione di altri ortaggi, nemmeno le patate. Sebbene fosse possibile acquistare carbone nei mercati vicini, la vera sfida era mantenere il calore all'interno delle tende, specie durante le frequenti tempeste di pioggia e grandine. I fuochi venivano alimentati con "cow-chips", un combustibile povero e difficile da gestire, ma che si rivelava necessario per sopravvivere. Imparare ad usare il "fire-bag", un bellows in pelle di capra, è stato uno degli aspetti più difficili da apprendere. La tecnica del "fire-bag", anche se grezza, si rivelò essenziale, permettendoci di ottenere una fiamma vivida, silenziosa e di grande calore, anche quando il materiale era difficile da accendere.

Nel contempo, la nostra attenzione si spostò sulla preparazione a difenderci da un altro grande ostacolo: i mastini tibetani. Questi cani, dall’aspetto stupido ma di grande forza, rappresentano una minaccia per chi attraversa le terre tibetane. I racconti di feroce aggressività di questi animali si intrecciavano con le storie di briganti e rapine che avevano luogo nelle regioni circostanti. La preparazione di fruste con pelle grezza era necessaria per proteggersi, e le lunghe ore di lavoro intorno al fuoco erano dedicate alla realizzazione di strumenti adeguati, da utilizzare per tenere a bada i mastini durante il viaggio.

Nonostante il clima ostile, le risorse limitate e la minaccia di aggressioni da parte di animali e uomini, c'era una continua curiosità e apertura da parte dei tibetani nei confronti dei viaggiatori. La mappa del Tibet, oggetto di discussioni con molti dei tibetani incontrati durante il viaggio, era un punto di grande interesse. La geografia, i fiumi, le montagne, le rotte commerciali e i percorsi di pellegrinaggio venivano identificati, esplorati e raccontati in dettagli sorprendenti. La conversazione su questi temi non era mai banale; ogni tibetano che incontravamo, anche i più poveri, conosceva la regione con una precisione e una passione che non si trovano facilmente in altre culture. Questi incontri, che potevano sembrare casuali, erano in realtà momenti di straordinaria condivisione e apprendimento.

Un aspetto interessante della cultura tibetana che divenne evidente nel corso del nostro soggiorno fu la gestione delle relazioni umane. La gerarchia sociale, pur essendo chiara e ben definita, si esprimeva in modi molto diversi rispetto alle strutture che conosciamo in Occidente. La disponibilità di aiuto da parte dei tibetani, anche di fronte alla povertà, era sorprendente. Un commerciante di Taochow che si trovava in una condizione di grande miseria, dopo essere stato derubato di tutti i suoi beni da briganti, fu comunque accolto con grande generosità. La sua protezione, concessa grazie a legami con amici influenti nei monasteri, è solo uno degli esempi di come le relazioni in Tibet siano spesso mediate dal senso di comunità e dalla necessità di protezione reciproca. La solidarietà era una legge non scritta che attraversava tutte le classi sociali, e il rispetto per i più deboli sembrava radicato nella cultura tibetana, tanto quanto la devozione religiosa.

Durante il nostro soggiorno, le discussioni sul futuro e sulla possibilità di visitare altre zone, come Ngawa, erano frequenti. Nonostante la disponibilità di aiuti concreti da parte di alcuni dei tibetani che incontravamo, come lettere di presentazione per accedere a determinate aree, la vita in Tibet rimaneva segnata dalla necessità di rimanere vigili e pronti a reagire ad ogni imprevisto. Le parole di un monaco, che ci spiegava come "non fosse mai necessario sparare a qualcuno", ci ricordavano costantemente che la percezione del rischio e della minaccia era diversa in questo contesto rispetto ad altri luoghi.

Anche se le difficoltà sembravano infinite, la nostra esperienza si arricchiva di momenti di profonda introspezione e crescita. La vita tibetana, con la sua durezza, ci insegnava la pazienza, la resilienza e la capacità di adattarsi, ma anche il valore delle relazioni e della comunicazione tra esseri umani, che in Tibet assumono forme che vanno oltre il semplice scambio materiale.

Il Tibet, con la sua cultura e la sua bellezza naturale, è una terra che costringe ad un confronto diretto con le proprie forze interiori, con la propria capacità di adattamento e resistenza. La vita lì è una sfida continua, ma anche una fonte di inestimabili lezioni di vita.

Qual è il valore dell'incontro tra culture nel cuore delle terre di Ngawa?

Mentre ci dirigiamo verso l'ultimo passaggio, i pastori di cavalli ci indicano la via. I campi di orzo e senape, solitari e aridi, sembrano testimoniare una quiete interrotta solo dal suono dei nostri cavalli. È strano, però, come quella calma sia interrotta da una sensazione di abbattimento: il cavallo grigio di Ien, l'unico per cui non avevamo le redini, è stato rubato durante la notte. Nonostante il furto, continuiamo il nostro cammino, rimanendo il più possibile allegri, attraverso valli con torrenti gonfi che alimentano il fiume Giallo, un paesaggio che non vediamo da settimane. La polvere si solleva, qualcosa che non avevamo visto da tempo, e ci accompagna, stendendosi con noi in una fitta nube.

Saliamo su una collina e, dietro di essa, appare il vasto panorama del villaggio degli agricoltori di Ngawa. Il paesaggio è sconvolgente nella sua semplicità: casette sparse come blocchi di gioco e tende nere, che si alzano nel mezzo di una pianura che sembra uno scenario mai immaginato prima. Tra queste tende, alcune delle quali sono simili a quelle mongole, ci fermiamo. Una di esse, da come le bandiere di preghiera appese la contraddistinguono, è una cappella privata.

Siamo finalmente giunti al mei sang, il palazzo del Mei Rgyalwo. Ma quando arriviamo, apprendiamo che il Mei Rgyalwo non è al campo. È partito presto quella mattina per tornare alla sua casa nelle terre agricole. Il custode del suo bestiame sembra scettico e indifferente, ma quando gli mostriamo la lettera di presentazione che ci ha dato Takhtsang Lhamo, la sua attitudine cambia. Ci fa sapere che possiamo accamparci nei pressi e ci indica una zona dove montare le tende.

Quella stessa sera, mentre ci prepariamo al campo, decidiamo che il giorno successivo avremmo dovuto partire per una visita rapida nella valle. L'idea è di vedere il Mei Rgyalwo, ma le informazioni riguardo al soggiorno sono vaghe. I commercianti cinesi che ci circondano parlano con convinzione, dicendo che il nostro soggiorno è garantito, ma dove passeremo la notte è un mistero. Le tende sono tutte occupate e non c'è spazio nella stessa dimora del palazzo. Comunque, ci viene promesso che, sebbene non ci sia invito ufficiale, saremo trattati con rispetto.

Il mattino seguente, con il sole appena sorto sulla collina orientale, partiamo alla volta di una valle che sembrava lontana un secolo. Il paesaggio cambia, e la sensazione di sentirsi osservati si intensifica. Il contatto con gli altri abitanti di Ngawa è, per noi, una sorpresa continua. L'accoglienza che riceviamo non è mai rude o trascurata, ma cortese e solenne. In questo mondo, l'educazione sembra diffusa, e anche tra i laici c'è una sorprendente capacità di lettura. Non è raro, infatti, incontrare monaci o laici che leggono avidamente i testi che abbiamo distribuito. Un giovane laico, che vive praticamente nel nostro campo, ci racconta che un tempo era stato monaco, ma che aveva abbandonato il monastero per poter vivere liberamente la sua vita, rifiutando le rigide convenzioni monastiche. Il suo desiderio di cambiare la sua vita lo aveva portato a cercare nuovi orizzonti, tra cui quello cristiano, ma la sua motivazione sembrava essere più una ribellione nei confronti della rigidezza dei monasteri che una vera e propria conversione.

La percezione che abbiamo di Ngawa è quella di un luogo che incarna una cultura apparentemente più avanzata rispetto ad altre zone tibetane, ma non priva di contraddizioni. Sebbene sembri esserci un profondo rispetto per la tradizione, la modernità, rappresentata dalla lettura e dal pensiero critico, sembra essere in grado di farsi largo. La cultura di Ngawa non è solo un retaggio del passato, ma una realtà viva, che si fonde con la possibilità di nuove scelte di vita. La letteratura che circola tra le mani dei suoi abitanti è segno di un movimento verso una consapevolezza collettiva che sfida i vincoli di un sistema tradizionale ormai obsoleto per molti.

In questi luoghi, ogni incontro è un'opportunità per esplorare non solo le tradizioni, ma anche le tensioni tra vecchio e nuovo, tra fede e ragione. Mentre il nostro gruppo si sposta nella valle, è chiaro che siamo testimoni di una realtà culturale che non si adatta facilmente a definizioni semplici, ma che ci invita a riflettere sul valore dell'incontro tra culture apparentemente distanti. La nostra esperienza con la gente di Ngawa, i loro usi e la loro curiosità per il mondo esterno, è un esempio di come le radici profonde di una cultura possano coesistere con le sfide moderne, mantenendo viva una tradizione che non rinuncia alla possibilità di evolversi.

Perché il Regno di un Piccolo Sovrano può Esistere in un Paese di Grandi Contraddizioni?

Quando ci si addentra in terre lontane, per lo più sconosciute, la percezione di un piccolo regno che si erge come un faro nel mezzo di una distesa di territori vasti e selvaggi non è certo un fatto singolare. Come ci raccontano i mercanti e i tibetani, la realtà di un piccolo sovrano che comanda su un territorio remoto non è meno complessa di quella di un impero riconosciuto. In questo mondo, la misura di un re non si trova tanto nei numeri delle sue forze armate, quanto nell’assoluta influenza che riesce ad esercitare sulla sua gente e sul territorio.

Nel nostro viaggio, abbiamo avuto modo di conoscere un giovane re, sovrano di una piccola regione montuosa. Nonostante le affermazioni dei commercianti locali, che lo descrivevano come capace di radunare un esercito di diecimila soldati in soli tre giorni, il suo regno, a ben vedere, era fatto più di leggi morali e religiose che di una vera e propria forza militare. La sua vita e il suo potere erano legati a un equilibrio molto più sottile, dove la religione e le influenze monastiche dominavano in modo indiscusso, togliendo al sovrano la libertà di fare scelte autonome.

Il giovane re, a differenza del suo predecessore, non era più la figura dominante che un tempo aveva governato con assoluta potenza. Oggi, il suo potere era intaccato dall’influenza di monaci e lama che detenevano, di fatto, il vero controllo sul territorio. La figura del sovrano, pur rimanendo centrale, non era più intoccabile, perché, come ci hanno detto, la sua autorità dipendeva da un fragile equilibrio con le religioni locali e le credenze popolari.

La sua regina, che accompagnava il re durante la nostra visita, mostrava un atteggiamento di tranquillità assoluta nei confronti della nostra presenza. Nonostante la sua posizione di potere, non aveva paura di mostrarci la sua cultura, le sue tradizioni e persino il nostro libro, che lei definiva “prezioso”, pur non comprendendo a fondo il suo significato. Questa scenetta, in cui la regina ci restituiva il Nuovo Testamento, simbolo della nostra fede, metteva in evidenza un aspetto fondamentale: la differenza di mondi che coesistono sotto la stessa superficie.

Visitarono insieme, poi, un grande raduno religioso, una sorta di fiera sacra, dove uomini e donne si radunavano sotto tende nere, mentre i monaci recitavano preghiere incessanti. In quel contesto, tutto sembrava ruotare attorno a un sistema religioso che permeava ogni aspetto della vita quotidiana, dal più piccolo dettaglio all'architettura stessa del villaggio. Ma, in quel vasto mondo di fede e di devozione, ci accorgemmo di come la figura del sovrano, pur mantenendo il suo titolo, fosse in realtà un mero simbolo di una potenza che non riusciva più a manifestarsi in modo tangibile.

Al di là di questa dimensione religiosa, il giovane re ci parlò delle difficoltà che avrebbero affrontato i suoi sudditi se il clima si fosse guastato, minacciando le colture e mettendo a rischio la sopravvivenza del suo popolo. La sua mente non sembrava concentrata su come affrontare guerre o battaglie, ma su come risolvere i problemi quotidiani che affliggevano la sua terra: la carestia, le malattie e la fame. Ciò che sembrava più importante per lui non era l’espansione del regno o la crescita del potere, ma la protezione e la cura dei suoi sudditi.

Questa riflessione, per quanto astratta, è una delle verità fondamentali che risiede nel cuore di ogni piccolo regno: la forza di un sovrano non si misura solo attraverso la sua capacità di guerreggiare, ma anche attraverso la sua abilità di proteggere la sua gente e di garantire loro la sopravvivenza e la prosperità, in un mondo che spesso appare più grande e più potente di lui. Un re che non ha né l’esercito né la terra da espandere può trovare il suo valore nell’equilibrio che riesce a mantenere fra le forze che lo circondano, a volte invisibili ma potenti.

In conclusione, la nostra visita ci ha mostrato un aspetto del potere che è tutt’altro che una questione di numeri e forze fisiche. La vera forza di un sovrano risiede nell’abilità di governare la propria terra non solo attraverso l’imposizione della legge, ma anche attraverso la capacità di tenere unite le forze religiose, politiche e culturali di una regione. Il giovane re, nonostante il suo potere limitato, rimaneva il cuore pulsante di una comunità che viveva tra i contrasti della tradizione e del cambiamento, sempre in bilico tra la paura della perdita e la speranza di un futuro migliore.