Negli ultimi anni, molte persone hanno rivolto la loro attenzione a ridurre i rifiuti, cercando prodotti che promettono sostenibilità e rispetto per l’ambiente. Tra questi, le buste in silicone Stasher sono diventate un simbolo del “non-plastica” alternativo, pubblicizzate come le ultime buste per alimenti che si dovranno mai acquistare. Ma è davvero così semplice? La questione è complessa, perché la definizione di silicone come materiale “naturale” o “ecologico” dipende molto da chi la interpreta. Tecnicamente, il silicone è prodotto partendo dalla sabbia, il che potrebbe farlo sembrare un materiale più simile alla gomma che alla plastica tradizionale. Tuttavia, è importante considerare che il silicone è una sostanza sintetica contenente additivi chimici derivati da combustibili fossili, e soprattutto non è biodegradabile né si decompone nell’arco di una vita umana. Questo significa che il silicone si accumula nell’ambiente come qualsiasi altro polimero plastico persistente, rappresentando una minaccia ambientale non trascurabile.

Molti prodotti in silicone sono pubblicizzati come sicuri per il contatto con gli alimenti, privi di sostanze tossiche comuni nelle plastiche come BPA, BPS o ftalati, e lavabili in lavastoviglie. Questo ha creato l’illusione che siano la panacea dei problemi legati alla plastica. In realtà, il silicone offre molti dei vantaggi della plastica senza essere realmente una soluzione definitiva. Il rischio è che si crei un circolo vizioso, spingendo a sostituire un prodotto problematico con un altro che alla lunga può presentare problemi simili, senza affrontare la radice del problema: la produzione e il consumo eccessivo di oggetti monouso o comunque a vita limitata.

Nel contesto della quotidianità, come nel caso delle bevande calde, la situazione è ancora più complicata. I bicchieri usa e getta sono spesso rivestiti internamente da uno strato di polietilene, mentre le bustine di tè possono contenere plastica come polipropilene tereftalato o nylon. L’uso di capsule di caffè monouso, come le famose K-cup, introduce una quantità significativa di plastica non riciclabile, e recenti studi indicano che l’interazione di liquidi caldi con questi materiali rilascia nanoparticelle di plastica. Queste particelle, invisibili e microscopiche, possono entrare nel flusso sanguigno e accumularsi in tessuti e organi, con potenziali conseguenze ancora poco chiare ma allarmanti.

Un’alternativa concreta e pratica è portare sempre con sé una tazza personale riutilizzabile, evitando così il contatto diretto con materiali plastici monouso. Inoltre, preferire sistemi di preparazione del caffè che utilizzano materiali come l’alluminio, il vetro o l’acciaio inox e che non impiegano capsule di plastica, rappresenta un approccio più sostenibile. Per il tè, l’uso di foglie sfuse e filtri compostabili riduce ulteriormente la quantità di plastica ingerita e smaltita.

Importante è anche riflettere sulla natura stessa del consumo e dell’idea di “prodotto sostenibile”. Non tutto ciò che è pubblicizzato come ecologico lo è davvero, e spesso il desiderio di acquistare oggetti belli o funzionali rischia di trasformarsi in una nuova forma di consumismo mascherato da ambientalismo. L’attenzione dovrebbe piuttosto rivolgersi a una riduzione reale del consumo, a favore di oggetti duraturi e di materiali il più possibile naturali o riciclabili, evitando sostituzioni inutili che alimentano ulteriormente la produzione industriale e lo sfruttamento di risorse.

Oltre alla scelta dei materiali, è fondamentale comprendere l’importanza di un approccio consapevole: la vera sostenibilità non si misura solo nella composizione chimica di un prodotto, ma nella sua durata, nel ciclo di vita e nella capacità di ridurre l’impatto complessivo sull’ambiente. Ogni scelta deve essere valutata non solo in base alla sua immediatezza, ma pensando alle conseguenze a lungo termine, ambientali e di salute pubblica. La strada verso un consumo responsabile è complessa e richiede un equilibrio tra praticità, etica e attenzione scientifica, evitando soluzioni semplicistiche o di facciata.

Come gestire i rifiuti organici in città: tra compostaggio domestico e sfide urbane

Amare il compostaggio è facile, ma praticarlo in città comporta complessità notevoli. La mia compostiera di legno, amata e curata, è stata spostata ben lontano dalla casa quando i topi l’hanno scoperta. Oggi i roditori sono spariti grazie a mio marito, un tiratore provetto, ma altri ospiti occasionali, come opossum, gatti randagi o puzzole, si affacciano spesso sulle nostre montagne di materia organica in decomposizione. La questione è importante, perché secondo varie stime tra il 20 e il 60% dei rifiuti che finiscono nelle discariche è materiale organico che potrebbe essere compostato. Purtroppo, nei rifiuti sigillati in discarica, le condizioni non permettono la biodegradazione, e questo rappresenta uno spreco enorme e dannoso.

Per chi vive in città, però, il compostaggio diventa molto più complicato. In alcune comunità urbane si è introdotto il ritiro della frazione organica insieme a immondizia e riciclabili, ma in quartieri come quello di Brooklyn dove abitano Greta e Steven, le opzioni sono limitate a trasportare personalmente i rifiuti organici a punti di raccolta dedicati. Pensare a una giovane donna di diciannove anni che raccoglie ogni settimana avanzi di cibo per portarli in metropolitana o con un Uber è poco pratico, senza contare che non si accettano carne, pesce o latticini, e allora per questi scarti, si potrebbe solo sperare che qualche gatto randagio li raccolga.

Un’alternativa molto low-tech e diffusa tra gli abitanti eco-consapevoli delle città è il vermicompostaggio domestico, con lombrichi in una scatola in un armadio, ma la realtà di un appartamento piccolo, come quello di Greta, rende anche questa soluzione difficile da adottare.

Dopo un po’ di ricerche, all’inizio del 2020 abbiamo acquistato un compostatore domestico Vitamix “Food Cycler” per loro. Considerando l’impegno richiesto di ridurre i rifiuti in un appartamento di New York, era il minimo. Il costo di quattrocento dollari rappresentava un investimento significativo, ma purtroppo, con la fuga improvvisa dall’epidemia, l’hanno usato forse una volta sola. Quando l’ho recuperato qualche mese dopo, ho voluto provarlo io stessa. Ammetto di essere poco rigorosa con le regole del compost: inserisco anche carne, pesce, latticini, carta e tessuti naturali come lana o capelli. Ho smesso solo con la peluria dell’asciugatrice dopo aver capito che contiene microplastiche. Il principio che mi guida è che, comunque, meglio compostare che gettare in discarica.

Il Food Cycler si è rivelato quasi miracoloso: in poche ore trasforma bucce di banana e scarti vegetali in terra scura e ricca, e persino ossa di pollo si decompongono completamente. Usa elettricità ma produce un rumore minimo, simile a un ventilatore. Tuttavia, la compostiera domestica ha un problema: l’odore irresistibile attira gatti e galline che scavano ovunque, rovinando le piante. Per un po’ ho abbandonato il dispositivo, finché ho scoperto che nel frattempo il compostaggio esterno con legna era stato devastato da un orso attratto dagli avanzi di carne. Mettere carne nel compost vicino a casa e al pollaio era quindi una pessima idea.

Oggi usiamo il Food Cycler solo per carne e ossa, il cui compost poi uniamo al resto della materia organica all’esterno, ma lontano dalla lettiera dei gatti. È una soluzione più sicura e libera dai visitatori indesiderati. E immagino che anche l’opossum apprezzi.

Il compostaggio urbano richiede dunque pazienza, sperimentazione e adattamento. Non è un processo semplice, ma anche piccoli sforzi possono ridurre significativamente i rifiuti organici e migliorare la gestione ecologica degli scarti. È essenziale capire che non esiste una soluzione unica: bisogna bilanciare praticità, sicurezza e sostenibilità, soprattutto quando si convive con animali domestici e fauna selvatica.

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