La storia politica degli Stati Uniti è attraversata da una corrente sotterranea fatta di paura, sospetto e desiderio di purezza morale. Dalla fine del XIX secolo fino alla seconda metà del XX, la politica americana è stata plasmata non solo dalle grandi ideologie, ma anche dalle ossessioni collettive: l’anticomunismo, la difesa dell’“americanismo”, la paura dell’infiltrazione straniera, e la ricerca costante di un nemico interno. Questo filo invisibile lega figure apparentemente lontane — da Theodore Roosevelt a Richard Nixon, fino a Ronald Reagan — e rivela come la paranoia sia divenuta una forza strutturante della vita democratica statunitense.

Le opere di storici come Richard Hofstadter, Seymour Martin Lipset ed Earl Raab mostrano che il cosiddetto “stile paranoico” non è un episodio marginale, ma una tradizione politica ricorrente. Nei decenni tra le due guerre mondiali, il Ku Klux Klan rinasce come movimento patriottico, mescolando bigottismo religioso, razzismo e un senso di minaccia morale. Le elezioni del 1924 e del 1928 furono segnate da questo intreccio di paure collettive: l’idea che l’America potesse “perdersi” a causa dei cattolici, degli immigrati, dei neri emancipati o di qualsiasi gruppo ritenuto non conforme alla visione di una nazione “pura”.

Nella metà del XX secolo, la paranoia assume una forma moderna e più organizzata. Joseph McCarthy incarna questa metamorfosi: il sospetto diventa strumento di potere. La sua campagna contro i “traditori” all’interno del governo, sostenuta da un pubblico affamato di certezze morali, riflette una dinamica profonda della politica americana — la confusione tra dissenso e tradimento. Dwight Eisenhower, pur cercando di mantenere una distanza pubblica da McCarthy, finì per trovarsi intrappolato in quella stessa logica: la paura come legittimazione politica.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, il radicalismo di destra trovò un nuovo volto nella John Birch Society, fondata da Robert Welch. Il suo pensiero — che il comunismo avesse infiltrato ogni livello del governo americano, perfino l’amministrazione Eisenhower — si diffuse tra cittadini comuni, imprenditori e politici emergenti. L’ossessione per la cospirazione sostituì il dibattito politico; la verità divenne secondaria rispetto alla “purezza ideologica”. La crescita di questi movimenti, documentata da storici come D. J. Mulloy e Edward Miller, anticipa il clima polarizzato dell’America contemporanea.

Con Barry Goldwater e, successivamente, con Ronald Reagan, la destra americana imparò a integrare le energie dei movimenti estremisti senza lasciarsene travolgere. Reagan, nel 1966, seppe incarnare la speranza di un conservatorismo sorridente, ma sotto la superficie rimase la stessa tensione: come tenere a bada i “kooks”, i fanatici, senza perderne il sostegno? Le dinamiche interne tra il Partito Repubblicano e la sua ala radicale, analizzate da studiosi come Matthew Dallek e Rick Perlstein, rivelano il continuo tentativo di mediare tra rispettabilità istituzionale e fervore ideologico.

La campagna del 1968 di Richard Nixon fu il punto di sintesi di un secolo di politiche basate sulla paura. Il suo patto tacito con i segregazionisti del Sud, unito alla strategia di sfruttare il risentimento razziale e culturale della “maggioranza silenziosa”, trasformò la paranoia in consenso elettorale. Le note di H. R. Haldeman e le ricerche di John Farrell mostrano con chiarezza quanto la manipolazione della paura divenne parte integrante del potere presidenziale. La promessa di “riunire il Paese” nascondeva in realtà la volontà di governarlo attraverso la divisione.

È necessario comprendere che questi fenomeni non appartengono solo al passato. La cultura politica americana, nata dall’idea di libertà individuale, ha sempre convissuto con la tentazione di controllare, di escludere, di difendere la purezza della nazione contro un “altro” indefinito. Le teorie del complotto, da sempre presenti nella vita pubblica statunitense, riflettono una forma di disillusione democratica: la perdita di fiducia nella possibilità che il potere sia trasparente. In questo senso, la paranoia non è soltanto un sintomo, ma una costante del carattere americano — un modo di interpretare la realtà politica attraverso la lente del sospetto.

Per il lettore è importante riconoscere che la paura politica, lungi dall’essere una debolezza, è spesso uno strumento deliberato di costruzione del consenso. Ogni epoca riformula i propri fantasmi: ieri era il comunismo, oggi il globalismo, domani sarà qualcos’altro. Capire questa dinamica significa comprendere che la democrazia americana vive in un equilibrio fragile, sospesa tra libertà e controllo, fiducia e terrore, ideale e disillusione.

Come McCarthy Minacciò la Presidenza di Eisenhower e la Repubblica degli Stati Uniti

Nel cuore degli anni '50, la politica americana fu scossa dalla figura di Joseph McCarthy, un senatore del Wisconsin che con il suo attivismo ideologico e la sua caccia alle streghe anticomunista minacciò non solo la sicurezza interna degli Stati Uniti, ma anche l'integrità politica del Partito Repubblicano e la leadership del presidente Dwight D. Eisenhower. McCarthy, che aveva preso il comando della sottocommissione sulle indagini sul comunismo, operava in modo incontrollato, accusando pubblicamente e senza prove solide esponenti di governo, giornalisti e persino funzionari della Voice of America di essere simpatizzanti comunisti.

Eisenhower, pur ammettendo in privato il suo disprezzo per McCarthy, rimase inizialmente silenzioso. L'inquietudine che suscitava McCarthy tra i suoi alleati, e la sua crescente influenza nel Senato, indussero il presidente a evitare un conflitto diretto. Una reazione troppo energica contro il senatore, temeva Eisenhower, avrebbe potuto trasformarlo in un martire agli occhi dell'opinione pubblica, con gravi ripercussioni politiche e legislative, considerando che i Repubblicani avevano una maggioranza esigua nel Senato.

Il presidente, invece, adottò una strategia di non intervento pubblico: evitò di menzionare McCarthy nei suoi discorsi, sebbene in alcune occasioni non potesse fare a meno di esprimere il suo dissenso. Un esempio significativo fu il suo discorso alla Dartmouth College, dove suggerì agli studenti di "non unirsi ai bruciatori di libri", una chiara critica velata all'approccio di McCarthy. Ma la politica di silenzio, sebbene strategica, non tardò a rivelare le sue contraddizioni. McCarthy, che non si faceva scrupoli a mettere in discussione l'intero establishment americano, non esiterà a rivolgere le sue accuse direttamente contro Eisenhower stesso.

Nel novembre del 1953, durante un programma televisivo, McCarthy accusò pubblicamente Eisenhower di voler fare del comunismo un tema dimenticato, allontanandosi da un'idea che invece, per il senatore, era centrale. Dalle sue parole emergé una sfida aperta contro l'amministrazione, che McCarthy accusava di non aver fatto abbastanza per purificare il governo da presunti agenti comunisti. Il presidente, seppur contrariato da queste affermazioni, non reagì pubblicamente. Anzi, il suo vice presidente, Richard Nixon, provò a suggerire al senatore di abbassare i toni, ma McCarthy proseguì la sua campagna di denunce, ora rivolgendo le sue accuse contro l'esercito americano.

L'accusa di McCarthy contro l'esercito fece esplodere una crisi. L'idea che i militari stessi potessero essere infiltrati dai comunisti minacciò di compromettere l'immagine stessa della nazione e della sua sicurezza. Eisenhower, furioso ma ancora determinato a evitare il conflitto diretto, parlò con fermezza, affermando che "il comunismo non era più una minaccia seria per il governo americano", ma la sua mancata azione concreta contro McCarthy fu percepita da molti come una sottomissione. La situazione raggiunse il culmine durante le audizioni di McCarthy contro l'esercito, che furono trasmesse in diretta televisiva, permettendo agli americani di seguire passo dopo passo la lotta politica che minacciava la stabilità della nazione.

In questo scenario, Eisenhower si trovò in una posizione difficile. La sua volontà di non scendere a compromessi morali e non farsi coinvolgere nelle "sporche" tattiche di McCarthy non lo esentava dalle critiche, tanto da accusarlo di una passività pericolosa. McCarthy, intanto, continuava a minare la credibilità dell'intera amministrazione, ma la sua stessa condotta, eccessiva e spesso priva di fondamento, lo portò a isolarsi sempre più.

Ciò che Eisenhower comprese, e che oggi è fondamentale comprendere, è che la democrazia americana non è invulnerabile alle manipolazioni politiche. Le lotte ideologiche interne, come quella con McCarthy, possono minare la coesione e la fiducia nelle istituzioni. Nonostante i metodi discutibili del senatore, la sua presenza aveva messo in luce le vulnerabilità interne del sistema, in particolare quelle legate alla paura, al panico collettivo e alla sfiducia nelle istituzioni. L'intolleranza verso il "nemico" esterno può facilmente diventare una giustificazione per attacchi all'interno, minando le basi stesse della democrazia.

È fondamentale anche comprendere che la politica di "ignorarli e sperare che se ne vadano" di Eisenhower, seppur apparentemente pacifica, non risolse mai veramente il problema. Le crisi politiche come quella del "maccartismo" non si risolvono con l'indifferenza o l'evitamento del confronto. Al contrario, il silenzio politico può alimentare l'incertezza, conferendo potere a chi alimenta paure e divisioni, come McCarthy fece.

Come il Vicepresidente Agnew Divise l'America: Demagogia, Polarizzazione e la Politica della Paura

Negli anni iniziali della presidenza Nixon, il vicepresidente Spiro T. Agnew si assunse il compito di gettare benzina sul fuoco di una società americana che già mostrava segni di frattura. I suoi discorsi, infuocati e demagogici, miravano a demonizzare l'opposizione e a scatenare conflitti ideologici, sociali e culturali che segnarono profondamente l'epoca. In ogni angolo del paese, Agnew lanciò assalti verbali contro chiunque osasse opporsi al governo, in particolare contro i manifestanti contro la guerra, gli intellettuali e la stampa, accusandoli di essere una “corte effemminata di snob impertinenti” e “parassiti della passione”. I leader del movimento pacifista erano definiti “eunuchi ideologici” e accusati di essere complici di una minaccia crescente contro la nazione.

La sua retorica si estendeva anche alla violenza che infuriava nei campus universitari, attribuendola alla colpa di "elitisti benestanti". La stampa, secondo Agnew, era un “nemico antiamericano”, un’entità che non rappresentava più il popolo ma i “fratelli della fratria”, un termine che si rifletteva nella sua convinzione che la maggioranza silenziosa fosse completamente ignorata dai mezzi di comunicazione mainstream. E la sua visione politica, fondamentalmente polarizzante, non lasciava spazio a zone grigie: chi non sosteneva Nixon, era il nemico. Agnew non si nascondeva dietro giri di parole, e non esprimeva alcuna incertezza nel rivendicare il suo approccio bellicoso alla politica.

La strategia del vicepresidente si rifletteva nel clima politico che Nixon e il suo staff cercavano di alimentare. In una memorabile comunicazione a Nixon, Pat Buchanan, consigliere di guerra politica della Casa Bianca, suggeriva di non abbassare mai il livello della retorica ma di “agitare il fuoco” e di portare avanti una battaglia politica in cui i “liberali, i media, le élite culturali, i manifestanti e chiunque si opponesse” dovevano essere visti come il nemico, in una lotta per l’anima della nazione. Con parole forti, Agnew parlava della sua missione politica come quella di “dividere il popolo americano”, un contributo che egli stesso definiva “principale” e che non solo accettava ma in un certo senso celebrava.

Quando, nel novembre del 1969, Nixon annunciò la sua politica di “vietnamizzazione” della guerra in Vietnam, un piano che si proponeva di ridurre il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nel conflitto, aggiunse che se una minoranza vocalmente appassionata avesse prevalso sul giudizio e sulla volontà della maggioranza, “questa nazione non avrebbe futuro come società libera”. Parole che segnavano un ulteriore passo nella costruzione della divisione, nell'innalzare il muro fra due Americhe, quella dei “grandi silenziosi” e quella dei dissidenti.

Questa divisione, alimentata da una retorica incendiaria, trovava terreno fertile anche nelle questioni razziali. Il ruolo della razza nelle politiche elettorali dei Repubblicani divenne sempre più evidente: la crescita del sostegno tra i bianchi razzisti per le politiche di Nixon era alimentata dalla paura di un cambiamento in corso, con il sud che stava vedendo un’espansione della registrazione dei voti afroamericani. Nixon e i suoi alleati vedevano nei voti di coloro che temevano il cambiamento razziale una chiave per il successo elettorale, utilizzando una retorica di paura e risentimento che mirava a capitalizzare sull’odio esistente.

Le conseguenze di questa polarizzazione si manifestarono drammaticamente durante le manifestazioni contro la guerra del Vietnam. Il 31 aprile 1970, Nixon annunciò attacchi contro i “santuari nemici” lungo il confine cambogiano-vietnamita, un'invasione che scatenò una serie di manifestazioni di protesta in tutto il paese. Ma fu l'incidente di Kent State, il 4 maggio, a esemplificare la violenza che stava crescendo nella società. La Guardia Nazionale, durante un incontro di protesta contro la guerra, aprì il fuoco, uccidendo quattro studenti e ferendone nove. La risposta del governo fu un attacco verbale contro i manifestanti, etichettati come “vagabondi” e “comunisti”, ma il contrasto tra le parole e i fatti divenne chiaro.

Il 8 maggio 1970, una manifestazione pacifica di studenti anti-guerra a New York venne attaccata da un gruppo di operai edili, i quali, spinti dalla retorica della maggioranza silenziosa, aggredirono i manifestanti. I lavoratori, urlando slogan nazionalisti e provocatori, picchiarono studenti, insegnanti e persino passanti che cercavano di difendere i manifestanti. L'attacco fu brutale, e solo l’intervento della polizia riuscì a fermare la furia di una folla che, come dichiarato da uno degli aggressori, aveva rotto il silenzio e non intendeva più restare in silenzio.

Queste manifestazioni di violenza non solo riflettevano la crescente divisione della nazione, ma anche l'incapacità di risolvere i conflitti attraverso il dialogo. La politica del “dividi et impera” non faceva che allargare il divario e consolidare una frattura sociale che sarebbe perdurata a lungo nel tempo. La retorica di Nixon e Agnew mirava non solo a consolidare un consenso tra i gruppi più conservatori, ma anche a marginalizzare chi esprimeva dissenso, a creare una divisione netta tra “noi” e “loro”.

Importante è comprendere che queste dinamiche non si limitarono al contesto politico dell'epoca. La polarizzazione indotta dalla retorica di Agnew e Nixon divenne un modello che, in vari modi, continuò a influenzare la politica americana per decenni. La lezione che ci lascia è che il populismo, quando alimentato dalla paura e dalla divisione, può creare cicatrici durature nella società, trasformando la politica in un terreno di battaglia dove la cooperazione e il compromesso sono visti come debolezza, mentre l'inimicizia e la separazione vengono celebrate come virtù. L’idea che “un nemico comune” possa unire, nonostante la devastazione che comporta, è uno dei concetti più pericolosi che la politica può sfruttare.