Quando si parla di biomi tropicali, l'idea di una zona calda e umida che si estende tra il Tropico del Cancro e il Tropico del Capricorno è immediata, eppure la realtà ecologica dietro questa delimitazione è ben più complessa. Sebbene i geografi abbiano tradizionalmente definito i Tropici come una fascia circumglobale che si estende tra i due tropici menzionati, le variabili climatiche e ecologiche che caratterizzano questa zona sono molteplici e non sempre corrispondono alle aspettative generali associate alla parola "tropicale".

I biomi tropicali sono notoriamente complessi, con una varietà di ecotipi che vanno ben oltre la definizione standard di "foresta pluviale". In particolare, la differenza tra zone tropicali umide e zone tropicali secche è fondamentale per una comprensione adeguata delle dinamiche ecologiche di queste regioni. Mentre molte persone associano i Tropici con fitte foreste pluviali, le zone tropicali secche, come le savane e le foreste secche tropicali, presentano caratteristiche completamente diverse, anche se anch'esse appartengono alla stessa fascia climatica. La grande varietà di biomi che si sviluppano all'interno dei Tropici include anche le foreste montane tropicali, che, pur trovandosi in un'area tropicale, presentano un clima che non può essere considerato "tropicale" nel senso stretto del termine, ma più temperato e caldo.

La classificazione dei biomi tropicali ha subito evoluzioni nel tempo. Oggi, oltre alla definizione classica basata sul limite geograficamente definito dei Tropici, gli esperti usano altre due principali definizioni ecologiche. La prima, più pragmatica, stabilisce il confine del clima tropicale attraverso la media annuale delle temperature, usando la isoterma dei 24 °C come limite inferiore. La seconda definizione fa riferimento alla Zona di Convergenza Intertropicale (ITCZ), che rappresenta la "zona umida" dei Tropici, pur non rispecchiando la totalità del clima tropicale, poiché altre aree, come i monti tropicali, non rientrano in questa categoria.

Un aspetto cruciale nella comprensione della biodiversità tropicale è l'idea che non tutte le foreste tropicali sono uguali. Le foreste secche tropicali, ad esempio, presentano un ecosistema fondamentalmente diverso rispetto alle tradizionali foreste pluviali, non solo per le differenze climatiche, ma anche per le particolari modalità di adattamento delle piante e degli animali che le abitano. Ignorare queste differenze può portare a interpretazioni imprecise e semplificate della vegetazione tropicale globale.

La questione della classificazione, seppur complicata, diventa ancora più intricata quando si considerano le regioni specifiche, come le foreste pluviali del Sud America e quelle africane. Il caso delle foreste pluviali del Chocó-Darién, dell'Amazzonia e della Mata Atlantica mostra come vari biomi tropicali possano coesistere in spazi geografici molto ristretti, pur appartenendo a categorie bioclimatiche distinte. La separazione biogeografica di questi biomi, come nel caso delle foreste pluviali Congolesi e Guineane, sottolinea la necessità di un approccio più dettagliato nella definizione dei confini ecologici. Il concetto di "phytochorion", che raggruppa le foreste in base alle principali forme di vita vegetale, è uno strumento utile per distinguere le diverse zone e comprendere meglio le loro specificità ecologiche.

In particolare, la nuova classificazione proposta da Droissart e colleghi (2018), che divide il fitocorion Guineano in due entità distinte (Guinea Superiore e Inferiore), contribuisce a raffinare la nostra comprensione della biodiversità tropicale. Questo approccio, che impiega dati dettagliati sulle piante per segmentare le foreste, offre nuove prospettive nella creazione di mappe biogeografiche più accurate e utili per la conservazione e lo studio della biodiversità.

A livello globale, la classificazione dei biomi tropicali continua a presentare sfide significative, in particolare quando si tratta di regioni come quelle australiane o subtropicali dell'Africa meridionale, dove la suddivisione tra foreste tropicali e subtropicali è ancora oggetto di discussione. Queste difficoltà mettono in evidenza la necessità di una standardizzazione delle categorie ecologiche, in modo da facilitare il confronto tra i vari biomi tropicali in tutto il mondo. La ricerca continua in questa direzione, con l'obiettivo di comprendere meglio i meccanismi ecologici e climatici che regolano la distribuzione e la diversità di queste foreste.

Per il lettore, è fondamentale comprendere che la tropicalità di una regione non implica automaticamente un tipo di ecosistema uniforme o omogeneo. La biodiversità e la vegetazione tropicali sono soggette a una serie di fattori climatici, topografici e storici che determinano una varietà di biomi che, pur appartenendo alla stessa fascia geografica, possono differire drasticamente tra loro. Inoltre, la nozione di "foresta pluviale tropicale" deve essere trattata con cautela, poiché si riferisce a un solo tipo di foresta all'interno di una categoria molto più ampia e complessa di ecosistemi tropicali.

La Savana di Madagascar: Origini, Endemismi e Debatti sulla Natura Antropogenica

La complessità ecologica di Madagascar ha da sempre suscitato l'interesse di ricercatori e scienziati, in particolare per quanto riguarda la sua vegetazione unica, composta da praterie, foreste e altri biomi distintivi. Tra le varie questioni ecologiche, un tema centrale riguarda l'origine e la natura delle savane di Madagascar. La ricerca si è concentrata sull'idea che le savane di questa isola possano essere il risultato di attività antropiche, come l'agricoltura a taglio e bruciatura, ma recenti scoperte suggeriscono una storia molto più complessa e antica.

Studi più recenti, tra cui quelli di Goel et al. (2020), sollevano interrogativi sulla permanenza delle savane in alcune regioni dove il clima sarebbe più favorevole alla formazione di foreste. Questi ricercatori, utilizzando modelli matematici, suggeriscono che la savana e la foresta potrebbero rappresentare stati stabili alternativi all'interno di un equilibrio ecologico determinato dal feedback tra il fuoco e la vegetazione. Un'idea che ha guadagnato terreno è quella del "range pinning", ovvero un fenomeno che stabilisce un confine ben definito tra le due formazioni vegetali, che può persistere nel tempo anche senza l'intervento umano diretto.

Il concetto di "savanne antropogeniche" è stato per lungo tempo dominante nella conservazione della natura, specialmente a causa del crescente impatto dell'uomo sull'ambiente. Tuttavia, la ricerca di Bond e Zaloumis (2016) e altre analisi moleculari hanno aperto nuove interpretazioni, suggerendo che le savane di Madagascar siano di origine più antica rispetto alle teorie che le attribuiscono esclusivamente all'intervento umano. Il ritrovamento di generi endemici di graminacee, come Andropogon e Panicum, all'interno di praterie che si pensava fossero il risultato di deforestazione massiva, suggerisce che queste savane abbiano radici evolutive che precedono l'arrivo degli esseri umani sull'isola.

In effetti, i dati filogenetici suggeriscono che la diversità delle piante erbacee di Madagascar, in particolare le graminacee C4, non si riflette in quella delle savane africane. Questi gruppi di piante, come descritto da Vorontsova et al. (2016), sono talmente specializzati che la loro presenza nella regione indica che le savane non sono semplicemente il risultato della deforestazione recente, ma un elemento integrante della storia vegetativa di Madagascar.

Alcuni ricercatori hanno anche messo in discussione le assunzioni dei modelli di biodiversità, sostenendo che le praterie non sono un semplice stato di passaggio tra la foresta e la savana, ma una formazione vegetale che possiede proprie dinamiche ecologiche e che potrebbe persino essere più antica di quanto si pensasse. Le osservazioni di Goel et al. (2020) hanno infatti fatto emergere un dato importante: se le savane di Madagascar non fossero state influenzate dall'uomo, come potrebbero essere state mantenute in aree in cui il clima favorisce la crescita forestale?

Tuttavia, una delle questioni ancora aperte riguarda il ruolo che il fuoco ha nel modellare questi ecosistemi. Alcuni studi suggeriscono che le praterie di alta montagna, specialmente nelle regioni centrali dell'isola, potrebbero essere state mantenute da cicli di incendi naturali, una dinamica che ha favorito la coesistenza di specie vegetali adattate al fuoco. Sebbene molte delle praterie di Madagascar oggi siano influenzate dall'attività umana, è fondamentale non dimenticare che, in passato, le dinamiche naturali, come il ciclo del fuoco, potrebbero aver avuto un ruolo altrettanto rilevante nel plasmare il paesaggio.

Il caso delle savane di Madagascar solleva anche una riflessione più ampia sulla gestione della biodiversità e sulla conservazione degli ecosistemi. La visione convenzionale che le savane siano un fenomeno esclusivamente "secondario" potrebbe portare a interpretazioni sbagliate dei processi ecologici in corso. Al contrario, riconoscere che le savane sono ambienti dinamici con una lunga storia evolutiva potrebbe permettere di comprendere meglio le sfide ecologiche e le politiche di conservazione in un contesto più ampio. Le praterie, con la loro varietà endemica e le loro caratteristiche ecologiche, rappresentano un patrimonio naturale che non deve essere visto semplicemente come una "ricostruzione" della foresta perduta, ma come un bioma con una propria identità.

Per approfondire il tema delle savane e della loro ecologia, è fondamentale considerare che la biodiversità in Madagascar non si limita solo alle specie conosciute o a quelle che ci sono state tramandate attraverso studi storici. Le ricerche future dovrebbero concentrarsi su come la vegetazione si è adattata ai cambiamenti climatici e alla pressione antropica, e come le specie endemiche, non solo quelle animali ma anche vegetali, possano essere preservate in un contesto globale in continua evoluzione.

Perché la vegetazione naturale da fuoco non gioca un ruolo centrale nelle MTE cilene?

La domanda cruciale che sorge in relazione agli ecosistemi mediterranei (MTE) è: perché la vegetazione naturale da fuoco, pur essendo essenziale in molte altre regioni del mondo, non riveste un ruolo altrettanto importante nel MTE cileno? Sebbene teoricamente gli ecosistemi mediterranei siano caratterizzati da una fiorente interazione con il fuoco, la vegetazione cilena non sembra comportarsi con la stessa intensità e frequenza. Secondo la teoria dei "Quattro Interruttori" proposta da Mucina e Wardell-Johnson (2011), ci sono diversi fattori che determinano la presenza di incendi in un ecosistema. Questi fattori sono: (1) la quantità di carburante disponibile, (2) la combustibilità del carburante, (3) una fonte di accensione facilmente accessibile e (4) condizioni meteorologiche ideali. Sebbene questi quattro interruttori siano essenziali per l'inizio di un incendio, il loro ruolo assume funzioni limitanti diverse a seconda delle condizioni climatiche e vegetazionali locali.

Nel caso del MTE cileno, il primo fattore, la quantità di carburante, non sembra essere sempre sufficiente a garantire il verificarsi di incendi. La vegetazione in Cile, caratterizzata da un mosaico di piante con differenti livelli di adattamento al fuoco, non accumula sempre biomassa in modo tale da favorire la diffusione degli incendi. La situazione climatica, in particolare l'influenza della corrente fredda di Humboldt che modula le temperature e le precipitazioni, contribuisce a ridurre la frequenza degli incendi, creando condizioni sfavorevoli per l'accumulo di carburante. Al contrario, le regioni come il Capo e l'Australia occidentale, pur avendo un clima simile, presentano una vegetazione che è storicamente più incline al fuoco, grazie alla presenza di piante con caratteristiche morfologiche e chimiche che favoriscono la combustione.

Un altro elemento cruciale che distingue il MTE cileno da altre regioni mediterranee è la peculiarità della sua geodinamica. Il Cile è situato lungo il "Ring of Fire" e la zona di subduzione della Placca del Pacifico, dove l'attività tettonica e i terremoti sono frequenti. Questi eventi, associati alla costante elevazione delle Ande, contribuiscono a un continuo processo di rinnovamento dei suoli, che non è favorevole alla formazione di ecosistemi stabili con elevata capacità di accumulo di biomassa. La mancanza di un accumulo costante di biomassa, insieme alla bassa fertilità dei suoli in alcune zone, frena la possibilità di incendi regolari e intensi.

A livello di adattamento evolutivo, un altro fattore che influisce sulla scarsità di incendi nel MTE cileno è la selezione naturale. Come osservato da Keeley (2012), il Cile manca di specie che abbiano sviluppato una riproduzione ritardata, che è una delle caratteristiche fondamentali nelle regioni mediterranee dove gli incendi sono un evento naturale. In molti ecosistemi mediterranei, specie come il pino o l’eucalipto si riproducono con successo dopo un incendio, grazie a semi dormienti che germinano solo dopo l'esposizione al fuoco. Questo adattamento è relativamente raro nel MTE cileno, dove la risposta delle piante al fuoco è meno pronunciata.

Una teoria interessante, la "Missing Lightning Hypothesis" proposta da Gómez-González et al. (2017), suggerisce che l'assenza di eventi di fulminazione, causata dalla posizione geografica del Cile e dall'influenza della corrente di Humboldt, riduce la frequenza degli incendi nel paese. Le tempeste estive che potrebbero generare fulmini e quindi incendi sono storicamente meno frequenti in Cile rispetto ad altre regioni mediterranee, come la California o l'Australia. Questo ha portato a una selezione di specie che non sono adattate a rispondere agli stimoli del fuoco.

Infine, l'assenza di foreste mediterranee infiammabili nelle regioni del Capo e della parte sud-occidentale dell'Australia, come in altre regioni mediterranee, è in gran parte legata alla loro evoluzione geologica e climatica. Il Capo, ad esempio, non ha mai ospitato estese foreste subtropicali, a differenza di altre regioni mediterranee. La sua evoluzione è stata caratterizzata da un lungo periodo di aridificazione globale a partire dal Miocene, che ha contribuito alla sostituzione delle foreste subtropicali con vegetazione sclerofillosa e formazioni arbustive resistenti alla siccità, come il fynbos. Le foreste e i boschi mediterranei tipici di altre regioni, come il Mediterraneo o la California, non sono mai stati dominanti in questa zona.

In sintesi, il MTE cileno presenta un paesaggio molto diverso rispetto ad altre regioni del mondo in cui il fuoco gioca un ruolo centrale. L'interazione tra la geodinamica, il clima e l'evoluzione della vegetazione ha creato un ambiente che, pur essendo soggetto a eventi di fuoco, non presenta le stesse caratteristiche di infiammabilità che si osservano altrove. La scarsa accumulazione di biomassa, la bassa frequenza di fulmini e le caratteristiche geologiche che favoriscono il rinnovamento continuo dei suoli contribuiscono a mantenere un equilibrio diverso, in cui gli incendi non sono così prevalenti come in altre aree mediterranee del mondo.

Quali sono le caratteristiche e la distribuzione delle foreste temperate oceaniche?

Le foreste temperate oceaniche (OTF) sono ecosistemi che si sviluppano sotto l'influenza dei venti umidi provenienti dall'Oceano, ma differiscono dalle tradizionali foreste temperate piovose in quanto non dipendono completamente dalle correnti atmosferiche che portano le precipitazioni. Questi ecosistemi sono caratterizzati da una vegetazione che prospera grazie alle piogge che provengono da sistemi di alta pressione subtropicale nell'emisfero australe. A differenza delle foreste che si trovano sotto l'influenza diretta dei venti occidentali, che sono strettamente legate ai regimi di pioggia portati dal vento, le foreste temperate oceaniche ricevono una quantità abbondante di precipitazioni (da 1200 a 11.000 mm di MAP), rendendole veri e propri "tropicali" dal punto di vista ecologico, anche se si trovano a latitudini più elevate.

In estate, queste aree attraversano brevi periodi di siccità che non sono mai completamente privi di pioggia. Questi boschi si trovano principalmente su piattaforme costiere e catene montuose adiacenti, con una distribuzione che comprende alcune delle regioni più umide del pianeta, come la zona costiera del Cile, l'Australia (compresa la Tasmania) e la Nuova Zelanda. I modelli climatici utilizzati per la classificazione di queste foreste mostrano una distribuzione che si estende dal Sud dell'Italia fino a comprendere anche la penisola balcanica e il nord della Turchia, regioni che si trovano in un'area ecotonale, al confine tra due biomi distinti.

Le foreste temperate oceaniche del sud, come quelle presenti nella regione Valdiviana del Cile, si distinguono per la loro biodiversità. In queste foreste si trovano specie come l'Aextoxicon punctatum, l'Austrocedrus chilensis, la Nothofagus dombeyi e la Laurelia sempervirens, che sono tipiche delle foreste sempreverdi, ma anche per la presenza di piante decidue come la Lophozonia alpina e la Nothofagus nitida. La vegetazione in queste regioni è strettamente legata ai cicli stagionali e alle variazioni di temperatura, che tendono a rimanere moderate rispetto ad altre regioni temperate.

In contrasto, le foreste temperate oceaniche del nord, che si estendono dalla California alla British Columbia e alle Isole Britanniche, sono dominate dalla presenza di specie vegetali adattate a climi più freschi, con una distribuzione che si sovrappone in alcune aree ai biomi temperati semi-decidui. L'influenza dei venti umidi provenienti dall'Oceano Pacifico è determinante per la crescita di queste foreste, che godono di un ciclo annuale di precipitazioni che permette lo sviluppo di una flora particolarmente ricca.

Questi ecosistemi sono studiati da numerosi ecologi che analizzano la somiglianza ecologica e la convergenza fisiognomica con altri tipi di foreste del sud del mondo, come quelle presenti in Nuova Zelanda e in Australia. Sebbene esistano delle differenze, molte delle piante che caratterizzano le foreste temperate oceaniche sono strettamente imparentate, e le formazioni vegetali che troviamo in queste aree potrebbero essere considerate come anelli mancanti nel puzzle evolutivo delle foreste di tutto il pianeta.

Anche se le foreste temperate oceaniche sono conosciute per la loro resilienza e la loro capacità di adattarsi a un clima variabile, sono vulnerabili ai cambiamenti climatici. L'alterazione dei modelli di precipitazioni e l'innalzamento delle temperature potrebbero compromettere la loro stabilità ecologica, minacciando la biodiversità che queste foreste ospitano da secoli.

Per comprendere appieno il significato ecologico e la distribuzione di queste foreste, è necessario tenere conto della complessità delle interazioni tra clima, geografia e biodiversità. Mentre alcune aree più isolate, come le foreste Valdiviane del Cile, sono ancora relativamente intatte, altre aree più accessibili, come quelle della Nuova Zelanda, sono già state influenzate da attività antropiche. Tuttavia, la loro capacità di resilienza è ancora un argomento di ricerca, poiché le foreste temperate oceaniche continuano a svolgere un ruolo fondamentale nel bilancio del carbonio globale, oltre a mantenere una varietà di habitat per numerose specie endemiche.

Come l'Impatti Umani Modellano gli Ecosistemi: Biomi e Transizioni Ecologiche

Nel contesto degli studi ecologici, gli impatti umani sui biomi e sugli ecosistemi naturali sono profondamente legati alla definizione di come l'uomo interagisce con l'ambiente circostante. Secondo Ellis e Ramankutty (2008), le costruzioni umane come campi agricoli, piantagioni di legname, insediamenti umani e strutture di comunicazione terrestre rappresentano un cambiamento diretto e tangibile nel paesaggio naturale. Queste modifiche influiscono sullo sviluppo e la distribuzione della vegetazione, che viene spesso utilizzata come indicatore per comprendere la funzionalità degli ecosistemi.

Le unità di vegetazione, per esempio, forniscono informazioni ecologiche vitali per determinare il funzionamento degli ecosistemi. Studi come quelli di Roy et al. (2006) e Mucina (2013) dimostrano che l’analisi della vegetazione, attraverso una classificazione spaziale, consente di tracciare pattern evolutivi e dinamiche ecologiche in modo più chiaro, rivelando le interazioni tra diversi tipi di vegetazione e le caratteristiche fisiche dell'ambiente.

Un altro aspetto cruciale è la relazione tra il passato e il presente degli ecosistemi, che Moncrieff et al. (2016) esaminano attraverso una cornice macroecologica e macroevolutiva. Questo approccio cerca di correlare la distribuzione attuale di specie e forme di vita con i modelli ecologici e biogeografici passati, cercando di delineare tendenze evolutive e processi ecologici che si sono verificati su scale temporali molto ampie.

Per comprendere appieno la diversità dei biomi, è necessario anche fare riferimento ai fattori ecologici che li guidano. L'ecologo Keith et al. (2020) sottolinea che ogni biome è "unito da uno o pochi principali fattori ecologici" che regolano le funzioni e i processi ecologici. Tuttavia, non sempre sono sufficientemente dettagliati gli studi che descrivono questi driver ecologici, lasciando spazio a incertezze nella comprensione completa di come ogni componente contribuisca al funzionamento complessivo del sistema ecologico.

La distribuzione delle specie e delle forme di vita, trattata da Conradi et al. (2020), è un altro elemento fondamentale nella comprensione della struttura dei biomi. Utilizzando modelli spaziali delle distribuzioni di specie, gli scienziati possono osservare la concentrazione geografica di specie dominanti e comprendere come queste siano influenzate dai cambiamenti ecologici e biologici nel corso del tempo.

L’analisi dei biomi non può prescindere da una visione integrata che consideri non solo gli aspetti biologici, ma anche quelli fisici dell'ambiente, come il clima, il suolo e l'idrologia. Le interazioni tra questi fattori e le dinamiche ecologiche contribuiscono a determinare la distribuzione dei biomi a livello globale e regionale. È essenziale considerare la varietà di condizioni che si possono manifestare in differenti aree geografiche, come gli effetti orografici sulle precipitazioni o le variazioni termiche dovute a cambiamenti altitudinali.

Nel contesto della zonalità e della azonality, concetti proposti da Mucina (2019), la classificazione dei biomi si diversifica a seconda della loro posizione rispetto a specifici gradienti climatici. Mentre i biomi zonali si distribuiscono in modo continuo lungo le fasce climatiche, i biomi azionali possono manifestarsi in spazi geografici che non seguono una logica climatica rigorosa. In questo caso, la definizione di "zonobioma" si riferisce a unità che occupano aree ben distinte in base a caratteristiche bioclimatiche simili, mentre le aree di transizione tra i biomi, come evidenziato nella figura 1.2, sono più complesse e rappresentano ecotoni o zone di confine.

L’ecotono, termine che Van Leeuwen (1966) ha coniato per descrivere le transizioni ecologiche tra due sistemi, è un concetto fondamentale per comprendere come i biomi interagiscono tra loro. Questi spazi di transizione non sono mai netti e definiti, ma spesso presentano una "gradualità" che li rende complessi da mappare e analizzare. Secondo Van der Maarel e Westhoff (1964), le ecocline descrivono queste transizioni in modo ancora più dettagliato, evidenziando come i confini ecologici tra i biomi siano porosi e dinamici.

Infine, è importante notare che i biomi non sono entità statiche. L'interazione tra fattori ecologici locali e globali determina una continua evoluzione degli ecosistemi. Il cambiamento climatico, l'alterazione dei suoli e la perdita di biodiversità stanno modificando i confini tra i biomi e generando nuove configurazioni ecologiche che potrebbero essere difficili da classificare secondo le metodologie tradizionali.

La comprensione dei biomi, dei loro confini e delle transizioni ecologiche è quindi essenziale non solo per gli ecologi, ma anche per tutti coloro che si occupano della gestione e conservazione degli ecosistemi. Le aree ecotonali, in particolare, sono luoghi di grande importanza ecologica, poiché spesso ospitano una biodiversità elevata e sono particolarmente vulnerabili ai cambiamenti ambientali. Per una gestione ecologica efficace, è fondamentale riconoscere che questi confini ecologici non sono fissi, ma soggetti a modificazioni in risposta a fattori climatici, biologici e antropogenici.