L’operazione militare condotta dagli Anzac — il Corpo dell’Esercito australiano e neozelandese — durante la Prima Guerra Mondiale a Gallipoli, mirava a estromettere l’Impero Ottomano dal conflitto attraverso la conquista di Istanbul. Tuttavia, l’invasione fallì rapidamente: gli Anzac rimasero bloccati sulle spiagge, mentre le truppe turche, posizionate sulle scogliere, li tennero sotto controllo con efficienza spietata. Dopo otto mesi e oltre ottomila perdite, gli Anzac furono costretti al ritiro. Questa battaglia divenne simbolo di due realtà: da un lato, dell’indomito spirito di buona volontà e coraggio che gli Anzac dimostrarono nonostante la situazione disperata; dall’altro, della carenza di leadership militare di qualità da parte dei comandi britannici che li avevano inviati in una situazione tanto tragica.
Gallipoli si trasforma così in un racconto che spezza i legami imperiali tra l’Australia e il Regno Unito, sostituiti negli immaginari militari australiani dagli Stati Uniti, i nuovi poteri imperiali da seguire, ma spesso trattati con una punta di diffidenza o insofferenza. Questo cambiamento nel tessuto geopolitico culturale australiano pone meno enfasi sulla vittoria militare e più sull’attitudine di ironica resilienza di fronte alla sconfitta e al ritiro, sottolineando l’importanza di uno spirito collettivo che non si perde neppure nelle avversità più dure.
Il Memoriale di Guerra Australiano (Australian War Memorial, AWM) è un luogo in cui si incarnano queste memorie e sentimenti. Qui il ricordo si fa esperienza performativa. Il Roll of Honor, con i nomi incisi dei caduti e disseminati di papaveri — simbolo internazionale del ricordo bellico — insieme alla fiamma eterna, richiama alla mente il sacrificio individuale e collettivo. I visitatori, spesso studenti, interagiscono con questi simboli in modi che oscillano tra la serietà e il gesto quasi ludico, come nel caso di chi simula di gettare monete nel laghetto riflettente, evocando il desiderio o forse l’inconsapevole distacco dal significato profondo di quel luogo.
Il cuore del memoriale è la Hall of Memory, una camera cilindrica dal soffitto a cupola che richiama atmosfere quasi religiose, sebbene il luogo non sia sacro in senso tradizionale. La sacralità viene conferita dall’atteggiamento rispettoso e contemplativo dei visitatori, dalle loro azioni deliberate e silenziose, che trasformano lo spazio in un rituale collettivo. Al centro si trova la Tomba del Militare Australiano Ignoto, circondata da corone di papaveri provenienti da diverse comunità, dall’elementare alle istituzioni governative di stati lontani come le Fiji.
Dopo la Grande Guerra, molti paesi alleati scelsero di commemorare il sacrificio umano attraverso corpi non identificabili, che rappresentassero simbolicamente tutte le vite perse. L’Australia, in particolare, rifiutò l’idea britannica di un Militare Ignoto a rappresentare l’intero Impero, chiedendo invece un proprio simbolo autonomo, un atto di riconoscimento dell’identità nazionale e del proprio peso storico. Il corpo anonimo diventa così un catalizzatore di significato, un assemblaggio di pietra, corone e azioni di memoria che produce un’esperienza condivisa e continua di ricordo e identità.
Questo esempio illustra la geopolitica quotidiana del patrimonio, dove il passato si intreccia con il presente attraverso pratiche sociali e performative. Entrare in relazione con testi, musei, film o spazi commemorativi non è un atto passivo ma una partecipazione attiva, in cui il senso viene costruito e negoziato continuamente. Il concetto di assemblaggio aiuta a comprendere queste relazioni fluide tra corpi, oggetti e significati, mostrando come ogni elemento influenzi gli altri generando eventi e processi culturali che si sviluppano nel tempo.
È fondamentale comprendere che la memoria storica non è mai univoca o statica, ma si costruisce nel quotidiano attraverso molteplici livelli di interazione culturale e sociale. La memoria di Gallipoli e dei sacrifici degli Anzac, ad esempio, si trasforma in mito, rituale e narrazione identitaria proprio grazie a questa dinamica partecipativa. Le commemorazioni, i simboli e gli spazi di memoria sono pertanto luoghi di mediazione tra storia e vita quotidiana, in cui l’individuo si inserisce come soggetto attivo e non come mero spettatore.
Il patrimonio culturale, quindi, non è solo un archivio di eventi passati, ma un campo vivo di produzione di senso, nel quale ogni gesto, ogni racconto, ogni silenzio partecipa a un dialogo incessante tra passato e presente. La dimensione emotiva e performativa di questi luoghi di memoria è ciò che li rende centrali per la costruzione dell’identità collettiva, perché attraverso di essi le società negoziano le proprie radici, le proprie ferite e le proprie aspirazioni future.
Cos’è la geopolitica e come si intreccia con la cultura popolare?
La geopolitica, pur essendo un termine di uso comune nei media, spesso resta avvolta in un alone di ambiguità e semplificazione. In apparenza, essa sembra fornire risposte rapide a complessi fenomeni globali: dalla "geopolitica del petrolio" alle "strategie muscolari della Russia" fino alla "dinamica geopolitica del Medio Oriente". Tuttavia, dietro questi slogan si cela un’intera tradizione di pensiero che ha influenzato profondamente il ventesimo secolo e che continua a plasmare il modo in cui interpretiamo i rapporti internazionali nel presente. La geopolitica, quindi, non è solo una parola di moda o una chiave di lettura giornalistica, ma un campo di studi che analizza la relazione tra potere politico e spazio geografico, con tutte le implicazioni culturali, sociali e militari che ne derivano.
Un aspetto spesso trascurato, ma di fondamentale importanza per comprendere la geopolitica, è il ruolo della cultura popolare come strumento di influenza e identità. Non sorprende che governi come quello degli Stati Uniti investano risorse militari in produzioni cinematografiche e fumetti con chiari orientamenti ideologici, rivolgendosi in particolare alle giovani generazioni di aree strategiche, come il Medio Oriente. Questi prodotti culturali, infatti, rappresentano un mezzo efficace per trasmettere modelli di comportamento, narrazioni identitarie e messaggi educativi, contribuendo così a plasmare le percezioni e le convinzioni delle future élite e masse.
Le radici della geopolitica affondano nel tardo Ottocento, quando la teoria darwiniana della selezione naturale venne applicata allo studio degli stati nazionali. Friedrich Ratzel, geografo tedesco, elaborò la cosiddetta teoria organica dello stato, in cui la forza di una nazione era strettamente connessa all’estensione del suo territorio, visto come un organismo vivente che necessitava di espandersi per sopravvivere e prosperare. Questa visione riduceva la politica a una lotta per lo spazio vitale (“Lebensraum”), legittimando in qualche modo il conflitto permanente e la competizione territoriale come processi naturali e inevitabili.
Tale impostazione ebbe profonde ripercussioni nel XX secolo, soprattutto nel contesto europeo, dove figure come Rudolf Kjellén e Karl Haushofer svilupparono ulteriormente la disciplina, integrando il concetto di stato con quello di società e dotandola di una dimensione strategica e militare. Nonostante Haushofer non fosse un nazista e anzi si opponesse ad alcune idee del regime, le sue teorie vennero sfruttate dalla propaganda nazista per giustificare l’espansionismo e la violenza, dimostrando quanto le idee geopolitiche possano essere manipolate e distorte.
Parallelamente, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, si sviluppò un filone geopolitico marittimo, grazie ad autori come Alfred Mahan e Halford Mackinder, che sottolinearono l’importanza del controllo delle rotte navali e delle vie commerciali per il mantenimento del potere globale. Mahan, in particolare, influenzò le strategie militari di potenze come il Giappone, la cui offensiva su Pearl Harbor fu ispirata dalla necessità di dominare il mare per assicurarsi la supremazia economica e militare.
Questo intreccio di idee, storie e strategie dimostra che la geopolitica è molto più di un semplice termine giornalistico: è un modo di interpretare il mondo che combina elementi geografici, politici, culturali e militari in una visione complessa e spesso controversa. Per comprendere a fondo le dinamiche globali contemporanee, non basta quindi conoscere i fatti geopolitici, ma è necessario anche considerare come essi si riflettano nella cultura popolare e nelle narrazioni collettive che influenzano le identità e le percezioni dei popoli.
È importante ricordare che la geopolitica non è una scienza esatta e che le sue interpretazioni possono essere soggette a ideologie e manipolazioni. La sua storia insegna che le teorie geopolitiche possono legittimare conflitti e ingiustizie, se non vengono analizzate criticamente alla luce di valori etici e morali. Inoltre, la diffusione della cultura popolare come strumento geopolitico sottolinea la necessità di un’educazione consapevole, capace di riconoscere i messaggi nascosti e di sviluppare un pensiero critico rispetto alle rappresentazioni offerte dai media e dai prodotti culturali.
Come può la disinformazione alterare le elezioni democratiche?
Per decenni, le elezioni sono state considerate il fondamento delle democrazie liberali, un momento in cui il potere si legittima attraverso la volontà popolare. Tuttavia, in modo sottile ma sistematico, la Russia ha individuato proprio in queste elezioni – e nella libertà d'espressione che le accompagna – il punto debole dell'Occidente. Un varco aperto per l'interferenza.
Nel 2016, l'intelligence militare russa, il GRU, ha condotto operazioni informatiche mirate contro la campagna presidenziale di Hillary Clinton, il Comitato Democratico Nazionale (DNC) e il Comitato per le Elezioni Congressuali Democratiche (DCCC). La tecnica principale era il cosiddetto spearphishing: email apparentemente autentiche, ma progettate per sottrarre credenziali di accesso e infiltrare malware. Una volta penetrati nelle reti, gli agenti russi potevano osservare in tempo reale il lavoro dei dipendenti del DNC e DCCC. Le email compromettenti raccolte venivano poi pubblicate strategicamente nei momenti chiave della campagna elettorale per distogliere l'attenzione dagli scandali legati a Trump e concentrarla su Clinton.
Questo attacco informatico era solo un tassello di una più ampia strategia di guerra informativa. Parallelamente, un’ondata di account falsi sui social media – soprattutto Twitter – veniva attivata per amplificare la portata dei documenti trafugati. Grazie agli algoritmi delle piattaforme, che favoriscono contenuti virali o ampiamente discussi, anche l’attività di bot apparentemente inoffensivi acquisiva potere politico, spingendo i contenuti in cima ai feed degli utenti e aggirando i tradizionali filtri dei media. Il risultato era una disinformazione che viaggiava più veloce, colpiva più a fondo, emotivamente più intensa, e soprattutto resistente, alimentata dal confirmation bias delle camere d’eco online.
Al centro di questa operazione si trovava l’Internet Research Agency (IRA), un’azienda con sede a San Pietroburgo, creata nel 2013. Nell’estate del 2016, oltre 80 impiegati lavoravano esclusivamente a manipolare la narrazione politica americana, appropriandosi delle identità di cittadini statunitensi e gestendo pagine che si fingevano autentiche. Fingendosi attivisti reali, si inserivano nei discorsi partigiani, diventando attori credibili sia per l’elettorato conservatore che per quello progressista.
Durante le primarie democratiche, l’IRA promuoveva propaganda anti-Clinton a favore di Bernie Sanders; nelle primarie repubblicane, sosteneva Donald Trump a scapito degli altri candidati. La narrazione privilegiava figure outsider, percepite come in grado di sovvertire l’establishment della politica estera americana. L’intervento era finanziato in violazione delle leggi statunitensi sul finanziamento elettorale: venivano acquistati annunci mirati (spesso pagati in rubli), sfruttando le capacità di profilazione del Big Data per colpire segmenti specifici della popolazione con messaggi polarizzanti.
L’obiettivo non era solo influenzare il risultato elettorale, ma minare la fiducia nel sistema democratico stesso. Le campagne miravano a instillare sfiducia nei confronti di entrambi i candidati, della politica tradizionale, e perfino tra i gruppi religiosi ed etnici. L’IRA gestiva contemporaneamente account come “United Muslims of America” e “Army of Jesus”, progettati per esacerbare i conflitti interreligiosi e culturali. Uno degli account più noti, @TEN_GOP, si fingeva il profilo ufficiale del Partito Repubblicano del Tennessee, raccogliendo oltre centomila follower.
Ma la manipolazione non si fermava al mondo virtuale. L’IRA organizzava manifestazioni fisiche nelle città americane, con l’obiettivo di alimentare lo scontro anche nella realtà. Un esempio emblematico è il raduno pro-Clinton “Support Hillary. Save American Muslims” a Washington, D.C., promosso attraverso una finta pagina Facebook. In realtà, l'evento era progettato per provocare la reazione viol

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