Kant concepisce l’ospitalità come diritto naturale dell’essere umano, radicato nella finitezza della Terra e orientato verso una costituzione cosmopolitica. L’ospitalità, in questa visione, non è semplice regolamentazione tra estranei, ma un movimento etico e giuridico che supera la separatezza per costruire una comunità universale. Essa diventa il mezzo per approssimarsi a un diritto cosmopolitico che ingloba tutte le differenze entro una razionalità condivisa. L’atto di accogliere non è solo un gesto morale, ma un dispositivo giuridico fondamentale per il futuro dell’umanità. L’ospite ha il diritto di tentare relazioni con l’abitante, e in tale tentativo si prefigura il superamento dell’alterità.

Nietzsche, al contrario, rifiuta radicalmente le fondamenta universali della morale kantiana. L’ospitalità, per lui, non si basa su diritti o doveri, ma su un’esperienza estetica e spirituale del diverso. Non cerca di dissolvere l’alterità, ma la esalta come condizione necessaria per l’apparizione della bellezza. L’approccio nietzscheano si sviluppa attraverso una metafora musicale: per amare davvero qualcosa di nuovo, bisogna prima imparare a tollerarne la stranezza. Solo attraverso una paziente tolleranza – la disponibilità a convivere con l’estraneità senza tentare di ridurla – si può giungere a un amore profondo e trasformativo.

La tolleranza, nella forma descritta da Nietzsche, non è un valore liberale nel senso moderno, ma un’esperienza radicale di esposizione allo sconosciuto. Non si tratta di riconoscere l’altro nel quadro delle categorie esistenti, come vorrebbe un approccio hegeliano o tayloriano, ma di accettare che l’altro possa rimanere irriducibilmente altro. L’ospitalità non è dunque integrazione o assimilazione, ma accoglienza della differenza nella sua piena eccentricità. Il nuovo, in quanto tale, è inizialmente scomodo, bizzarro, a volte persino inquietante. Ma proprio da questa resistenza iniziale nasce la possibilità di una bellezza non ancora codificata, che si rivela gradualmente a chi ha saputo sospendere il proprio giudizio immediato.

Nietzsche insiste su questo punto: ciò che rende l’ospitalità preziosa non è la pace, bensì la tensione che essa introduce. Il vero valore risiede nel mantenimento della differenza, nella sua custodia attiva, nella sua impossibilità di riduzione. La relazione tra ospite e ospitante si configura così come una relazione agonistica, in cui entrambi restano distinti eppure si incontrano. L’amore per il nuovo è un effetto della nostra ospitalità: è solo grazie a essa che possiamo scorgere una bellezza che altrimenti sarebbe rimasta nascosta.

In opposizione alla sintesi kantiana di diritto e razionalità universale, Nietzsche propone un’etica dell’ospitalità fondata sul particolare, sull’incontro imprevedibile, sull’onore per ciò che ci sfida. Questo spirito agonistico trova la sua espressione più compiuta nell’enemistà nobile, dove il rispetto per l’avversario è una forma di riconoscimento che non cerca la pacificazione. L’enemico, per Nietzsche, è colui che ci costringe a diventare ciò che siamo. La rivalità non è da evitare, ma da spiritualizzare, poiché solo nel confronto con l’altro che ci resiste possiamo affermare la nostra singolarità.

L’ospitalità nietzscheana non mira alla riconciliazione, ma alla valorizzazione della distanza. È in questa distanza che si trova la vera forza creativa del pensiero europeo. Il “buon europeo” nietzscheano non ha patria, non ha nostalgia di ritorni né fede nel progresso. Non è conservatore né liberale, ma “senza casa”, cioè estraneo a ogni identità politica costituita. La sua appartenenza è al nomadismo dello spirito, al rischio del pe

La critica del cosmopolitismo e l'alternativa della cittadinanza "glocale" di James Tully

Nel periodo che ha preceduto gli eventi cruciali del 2016 negli Stati Uniti e nel Regno Unito, è emersa una convergenza tra le forze politiche di sinistra e di destra che si opponevano alla globalizzazione e al cosmopolitismo. Questo fenomeno è stato particolarmente visibile nelle opposizioni al Trans-Pacific Partnership (TPP) negli Stati Uniti tra il 2015 e il 2016, dove sia Donald Trump del Partito Repubblicano che i senatori Bernie Sanders ed Elizabeth Warren tra i Democratici si sono schierati contro il trattato. Analogamente, la complessa politica del dibattito sulla Brexit nel Regno Unito ha rivelato attitudini ambivalenti verso l'Unione Europea, condivise sia dal populista di destra Nigel Farage e dal suo Partito dell'Indipendenza del Regno Unito (UKIP), che dai Laburisti di sinistra radicale guidati da Jeremy Corbyn. A molti osservatori, i critici del cosmopolitismo provenienti dalla sinistra politica sono visti principalmente come attivisti concentrati sulla pratica politica, piuttosto che su una teoria politica sistematica. Tuttavia, nel caso in cui il movimento progressista anti-globalizzazione mantenga la sua forza politica e continui a impegnarsi su un piano filosofico, la questione prevalente riguarda la necessità di riconsiderare e rielaborare il valore della democrazia partecipativa come risposta alla dinamica imperialista che molti progressisti ritengono insita nel capitalismo globale.

Un autore fondamentale per analizzare la critica al cosmopolitismo da sinistra è James Tully, uno dei pensatori progressisti più influenti nel mondo anglofono. Al centro della sua proposta di una nuova teoria politica democratica, che definisce "filosofia pubblica", c'è una critica alle tendenze universaliste del razionalismo illuminista, incarnato dalla filosofia cosmopolita di Immanuel Kant. Per Tully, l'ideale cosmopolita kantiano ha fornito una giustificazione filosofica per la vasta rete di strutture imperiali, sia formali che informali, che per secoli hanno de-territorializzato gli spazi socio-economici e politici attraverso un sistema di diritto internazionale e libero scambio. Oggi, questa dinamica di globalizzazione, che ha due facce, significa sia che i cittadini possono organizzarsi più efficacemente a livello locale e globale per resistere all'imperialismo ispirato dal cosmopolitismo kantiano, sia che istituzioni di governo globale come l'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), le Nazioni Unite (ONU), il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e le multinazionali esercitano un potere informale sulle disuguaglianze globali ereditate dal periodo coloniale.

Tully contrappone alla tradizionale "costituzionalità rappresentativa" del governo, tipica della cittadinanza occidentale e dello stato di diritto, il concetto di "cittadinanza glocale", che lui propone come modello alternativo per un'era globalizzata e de-imperializzata. In tale modello, le pratiche di democrazia genuina possono emergere da reti di gruppi locali impegnati nella resistenza contro le oppressioni e le disuguaglianze. Tully cerca di sostituire il modello tradizionale di "teoria politica elite-driven" con una nuova comprensione della democrazia come una filosofia pubblica che incoraggi il coinvolgimento civico e le "strategie della libertà". Queste pratiche della libertà civica, tuttavia, non sono un concetto universale e immutabile: il loro contenuto concreto varia in base alle circostanze e ai contesti locali, ma la visione di Tully della democrazia si distingue soprattutto per ciò che essa non è. Non si tratta di un modello teorico universale, ma di una prassi che emerge dal basso, radicata nelle realtà concrete.

Un aspetto centrale della filosofia pubblica di Tully è il suo rifiuto della tradizionale teoria politica "elite", che tende a ridurre la democrazia a un insieme di norme e precondizioni stabilite in anticipo, e che soffoca il potenziale dialogico e costruttivo del cittadino. Tully, al contrario, propone una visione di democrazia che abbraccia l'agone, il conflitto e la disobbedienza civile, pur mantenendo un impegno per il dialogo continuo e la negoziazione. La sua concezione della disobbedienza pacifica è molto più ampia e dinamica rispetto a quella offerta dalla visione idealistica di John Rawls, che ha una definizione più rigida della disobbedienza come strumento teorico.

In contrasto con il cosmopolitismo kantiano, che Tully considera l'eredità di un sistema imperialista e giuridicamente regolato, il concetto di "glocalismo" rappresenta un'alternativa radicale che tiene conto delle pratiche democratiche al di fuori delle istituzioni tradizionali. Queste pratiche sono ancorate nelle condizioni locali concrete, ma hanno il potenziale di resistere alle tendenze predatorie delle istituzioni globali, proprio perché rinviano alla riscoperta della democrazia locale e partecipativa. In un mondo sempre più globalizzato, il glocalismo offre una via per un'azione politica che può sfuggire alla dominazione delle grandi istituzioni internazionali e restituire potere ai cittadini a livello locale.

Nel valutare la posizione dell'Unione Europea rispetto al cosmopolitismo, Tully si chiede se possa costituire un'alternativa non imperialista all'ordine globale regolato dal diritto internazionale. Pur riconoscendo il valore dell'UE come possibile alternativa al sistema globalizzante, Tully conclude che il modello dell'Unione Europea non affronta adeguatamente le problematiche politiche, culturali e costituzionali derivanti dall'eredità dell'imperialismo. La sua visione di un'alternativa "glocale" è, secondo lui, più promettente e radicale, in grado di rispondere alle sfide poste dall'imperialismo e dalle disuguaglianze globali, mantenendo comunque il principio della democrazia partecipativa e della cittadinanza come pratica di libertà.

La Critica di James Tully al Cosmopolitismo e all'Imperialismo: Una Visione Glocalizzata della Democrazia

Le relazioni di consenso autorevole tra governanti e governati, incentrate sull'idea di partnership dialogiche, si radicano nell'esperienza locale di conflitto e negoziazione, molto più accessibili al controllo democratico rispetto a quelle offerte dalle istituzioni di Bretton Woods, come il FMI e la Banca Mondiale. L'accento posto da Tully sul glocalismo come forma di prassi si riflette nelle leggi e tradizioni locali, così come negli esperimenti di modelli economici alternativi, come le cooperative, il Commercio Equo e Solidale, l'aiuto reciproco e la profonda ecologia. Il principio del glocalismo favorisce naturalmente la creazione di reti di persone e pratiche, costituendo "probabilmente la più grande coalizione diversificata e non centralizzata di movimenti nel mondo". Le caratteristiche di queste reti di attori locali sono in molti casi determinate dal contesto specifico e dalle problematiche che hanno originato l'opposizione locale.

Dal 1999, con le prime manifestazioni contro l'OMC a Seattle, fino alla creazione del Forum Sociale Mondiale a Porto Alegre, Tully offre un quadro teorico che chiarisce i principi fondamentali della filosofia pubblica democratica che ha animato la sinistra antiglobalizzazione. La visione di Tully per un futuro glocalizzato raccoglie diverse correnti di prassi democratica, spesso considerate troppo eterogenee e nebulose per costituire una filosofia politica, per fornire un quadro teorico coerente. Questo quadro ha permesso di stabilire il Forum Sociale Mondiale come un contrappeso riconosciuto a livello internazionale rispetto all'incontro annuale degli élite politiche ed economiche globali a Davos, in Svizzera.

Perché, ci si potrebbe chiedere, il glocalismo ha preso piede e si è diffuso diventando una rete globale di pratiche e istituzioni democratiche? Tully sostiene che la resistenza inevitabile alla globalizzazione da parte di chi è maggiormente impattato negativamente dalle multinazionali, dalle istituzioni finanziarie globali o da enti intermedi come l'ONU, il FMI e la Banca Mondiale, ha prodotto una rinascita della partecipazione civica locale. Così, l'intersezione tra questioni globali e locali genera una dinamica distinta di resistenza, cooperazione e solidarietà. Tully afferma che esiste anche una sorta di "reticolazione" delle pratiche civiche locali, che ha dato vita a una federazione globale, o meglio glocalizzata. La collaborazione tra attivisti, ricercatori e decisori politici su temi di interesse comune evita generalmente le tendenze antidemocratiche delle strutture istituzionali formali, che riflettono gli interessi potenti e consolidati.

In contrasto con le teorie postcoloniali più consolidate, l'obiettivo della teoria democratica glocalizzata non è quello di far sì che i subalterni diventino "indipendenti" dal colonialismo come definito dai poteri imperiali, ma di creare relazioni costruttive e dialogiche in cui le parti coinvolte diventino progressivamente "interdipendenti", attraverso relazioni democratiche, non subordinate e non esploitative. La critica di Tully al cosmopolitismo liberale offre così una cornice teorica per un appello pratico all'azione, caratterizzato da vari aspetti distintivi.

Innanzitutto, Tully vede nell'approccio glocalizzato un'opportunità per gruppi ecologici e popolazioni indigene di collaborare per portare l'attenzione internazionale su questioni locali di grande rilevanza globale. In questo modo, forme specifiche di partenariato nate da proteste locali, come quelle a Standing Rock contro il progetto di oleodotto XL-Keystone, producono un modello alternativo di attivismo ambientale rispetto agli accordi internazionali di macro-livello, come il Protocollo di Kyoto o l'Accordo di Parigi. Tully incoraggia anche nuove forme di cooperazione tra cittadini urbani e rurali, come le cooperative agricole biologiche o i progetti di sostenibilità regionale. Queste forme di cooperazione possono suscitare controversie, poiché potrebbero disturbare la catena di approvvigionamento alimentare e promuovere il principio precauzionale contro gli organismi geneticamente modificati, opponendosi agli interessi delle potenti aziende agro-alimentari.

Inoltre, Tully celebra le campagne specifiche condotte da Organizzazioni Non Governative, movimenti sociali e federazioni civiche che si impegnano in "improvvisazioni creative" nel contesto locale. Per esempio, il glocalismo mette in evidenza le azioni di organizzazioni come Médecins Sans Frontières, che operano al di fuori delle convenzioni del diritto internazionale, nonché i boicottaggi extra-legali contro le multinazionali che utilizzano "sweatshop". Infine, Tully vede un grande potenziale nelle crescenti alleanze Nord-Sud, come quelle informali che promuovono il Commercio Equo e Solidale. Il Forum Sociale Mondiale svolge un ruolo cruciale in questo senso, poiché non prende posizioni su questioni specifiche, ma fornisce uno spazio civico in cui i partecipanti, provenienti da diverse esperienze di cittadinanza, si impegnano in dialoghi di traduzione, critica, ricerca e ulteriori collaborazioni.

La critica di Tully al cosmopolitismo liberale non nega tuttavia il fatto storico che il cosmopolitismo ha reso necessaria e possibile una futura democrazia glocalizzata. Forse, parallelamente, il teorico politico e il cittadino democratico del futuro dovranno riflettere sul concetto stesso di ordine globale cosmopolita, per tornare nuovamente a vedere il mondo con occhi chiari e con una nuova energia, sperimentando la realtà in cui ci troviamo ora.

La crisi della democrazia: La visione di Manent e Allan sul declino del ruolo delle nazioni e della sovranità popolare

Nel dibattito contemporaneo sul futuro della democrazia, la crescente ondata di populismo e le trasformazioni politiche a livello globale hanno suscitato numerose riflessioni teoriche. Due pensatori, Pierre Manent e James Allan, sono tra quelli che hanno anticipato questi sviluppi, offrendo una visione critica delle forme di governo liberale e della crescente disconnessione tra democrazia e sovranità nazionale. Le loro analisi, pur provenendo da contesti e tradizioni filosofiche differenti, convergono nel denunciare una progressiva erosione del ruolo delle nazioni e della democrazia tradizionale, a favore di un progetto di governance cosmopolita che rischia di minare le basi stesse della democrazia.

Pierre Manent, filosofo politico francese, ha sviluppato una critica serrata nei confronti dell'Unione Europea, identificandola come uno degli esempi più evidenti della tendenza a superare le strutture politiche nazionali in favore di un’unione sovranazionale. Secondo Manent, la scoperta della forma politica della "nazione" è stata cruciale per la realizzazione della democrazia moderna. La nazione, pur nelle sue contraddizioni storiche, ha permesso lo sviluppo di un sistema democratico capace di dare voce e rappresentanza ai cittadini. Manent avverte che il progetto europeo, con la sua enfasi sul cosmopolitismo e sull’umanitarismo, sta progressivamente separando la democrazia dalle sue radici storiche, mettendo in discussione la legittimità delle decisioni politiche che non derivano da un consenso popolare diretto.

Il pensiero di Manent, tuttavia, non si limita a una semplice difesa della nazione per nostalgia storica. È consapevole delle problematiche legate alla nascita delle nazioni, spesso segnate da pratiche colonialiste e militariste, che hanno alimentato conflitti e guerre nel corso del Novecento. Nonostante ciò, Manent sostiene che la nazione rimanga la forma politica più adatta per la democrazia, poiché permette una connessione diretta tra governanti e governati, un aspetto che rischia di essere perso in una struttura sovranazionale come quella dell’Unione Europea. La sua critica si concentra sulla difficoltà di immaginare una democrazia legittima a livello sovranazionale, dove le decisioni politiche sono spesso prese da istituzioni lontane e difficilmente controllabili dai cittadini.

James Allan, nel suo libro Democracy in Decline, offre una visione complementare ma differente, concentrandosi soprattutto sulle democrazie liberali dell'Anglosfera: Stati Uniti, Nuova Zelanda, Canada, Regno Unito e Australia. Allan denuncia come, a partire dagli anni '60, questi paesi abbiano progressivamente ridotto l'incidenza del voto popolare e dell’autorità democratica, delegando sempre più decisioni a organizzazioni sovranazionali, leggi internazionali e, in particolare, a un’interpretazione della Costituzione sempre più elastica e soggetta a revisioni giuridiche. Secondo Allan, questo processo ha indebolito la capacità dei cittadini di influenzare direttamente le politiche pubbliche, trasformando la democrazia in un sistema dove le decisioni politiche sono prese da élite giuridiche e internazionali, piuttosto che da rappresentanti scelti dal popolo.

Il punto centrale della critica di Allan è che, in tutti questi paesi, la democrazia è diventata una "democrazia senza sovranità" in cui il popolo ha sempre meno voce in capitolo. La crescente influenza dei tribunali costituzionali e delle corti internazionali ha trasformato la politica in un gioco tra élite legali e politiche, escludendo gradualmente i cittadini dalla possibilità di decidere sulle questioni che li riguardano. In particolare, Allan si concentra sulla tendenza di questi paesi ad adottare decisioni politiche senza un adeguato mandato popolare, come dimostrato dai processi di integrazione europea e dalla crescente influenza delle istituzioni sovranazionali.

Manent e Allan, pur partendo da prospettive diverse, offrono un'analisi coerente della crisi della democrazia contemporanea, che vede una progressiva separazione tra le istituzioni politiche e la volontà popolare. La loro riflessione suggerisce che, mentre l'Unione Europea e altre forme di governance sovranazionale si pongono come alternative al sistema delle nazioni, queste strutture non sono in grado di garantire una vera democrazia, poiché non rispondono direttamente alla volontà dei cittadini. La critica di entrambi gli autori solleva interrogativi cruciali per il futuro delle democrazie liberali: se la sovranità nazionale è in declino e le nuove forme di governance non riescono a sostituirla efficacemente, quale sarà il destino delle democrazie moderne?

È importante comprendere che la crisi della democrazia, come la descrivono Manent e Allan, non è solo una questione di sfide politiche immediate, ma una trasformazione profonda delle modalità con cui la politica è organizzata. Le nuove forme di governance, se non correttamente orientate, rischiano di ridurre il potere democratico a una mera formalità, dove le decisioni vengono prese lontano dalle persone, riducendo la capacità di questi ultimi di influire concretamente sui destini delle proprie nazioni. Questo fenomeno di globalizzazione e di superamento dei confini nazionali potrebbe anche portare a una crescente frustrazione tra i cittadini, che vedono la propria voce silenziata in favore di processi decisionali che sfuggono al loro controllo. La riflessione proposta da Manent e Allan ci invita a ripensare il rapporto tra democrazia, nazione e sovranità in un mondo che sembra sempre più lontano dalle sue origini politiche.