Nel corso della sua ascesa politica, Donald Trump ha saputo sfruttare al meglio due strumenti fondamentali: la televisione e i social media. Inizialmente noto per la sua carriera imprenditoriale e la sua apparizione nel mondo dello spettacolo, Trump ha utilizzato questi mezzi per costruire la sua immagine e attrarre una vasta attenzione pubblica. Il suo ingresso nel mondo della politica è stato segnato da una combinazione di tecniche moderne di comunicazione e una personalità in grado di suscitare reazioni forti, sia di consenso che di opposizione.

Nel 2004, Trump ha debuttato con il reality show "The Apprentice", che ha avuto un successo clamoroso e ha portato la sua figura a un pubblico molto più ampio di quello che avrebbe mai potuto raggiungere attraverso le sue attività imprenditoriali. La trasmissione era incentrata su un format che vedeva Trump, nei panni di un magnate d'affari, giudicare concorrenti in diverse prove legate al mondo del business. La frase iconica “You’re fired!” (Sei licenziato!) è diventata il marchio di fabbrica di un uomo che si presentava come il modello di successo, capace di prendere decisioni rapide e dure.

La trasmissione non solo consolidò la sua immagine di uomo d'affari spietato e di successo, ma lo posizionò come una figura autorevole nel panorama mediatico, capace di incantare e intrattenere milioni di americani. Questo nonostante le sue reali imprese imprenditoriali fossero in difficoltà. Il Trump mostrato in televisione, che viveva in grande stile tra il Trump Tower di New York e la sua residenza a Mar-a-Lago in Florida, era quello che il pubblico desiderava vedere: un uomo in controllo, ricco e deciso. Con il passare degli anni, la sua popolarità si estese ben oltre New York, e Trump divenne un volto familiare in ogni casa americana.

Tuttavia, la sua ascensione alla politica non fu solo il risultato di un'opera di marketing televisivo. Nel 2013, ad esempio, iniziò a utilizzare Twitter in modo strategico, lanciando messaggi provocatori e polarizzanti che tenevano l'attenzione su di lui. Un tweet che attirò molta attenzione fu quello in cui ironizzava sulla morte del direttore del Dipartimento della Sanità, definendola una "coincidenza straordinaria", e in cui esprimeva dubbi sulla veridicità dei documenti ufficiali di Obama. Questo uso di Twitter, un mezzo che all'epoca non era ancora così onnipresente, gli permise di instaurare una connessione diretta con i suoi seguaci e di mantenere vivo l'interesse sulla sua figura, senza dover passare attraverso i tradizionali canali mediatici.

La campagna presidenziale del 2016 si basò in gran parte sulla stessa strategia: Trump era un maestro nel generare notizie, sia positive che negative, e sapeva come utilizzare i social media per alimentare la sua visibilità. Le sue dichiarazioni provocatorie, come quella in cui attaccava il senatore John McCain, furono un esempio lampante della sua abilità nel manipolare i media. Ogni controversia che lo riguardava veniva amplificata, e il suo comportamento "politicamente scorretto" lo faceva risaltare come un outsider in un mondo politico che lui stesso criticava come corrotto.

Il 16 giugno 2015, quando annunciò ufficialmente la sua candidatura alla presidenza, Trump fece un'apparizione teatrale scendendo dalle scale mobili della Trump Tower, dove aveva girato molte scene di "The Apprentice", promettendo di "rendere di nuovo grande l'America". Da lì, iniziò a costruire una narrazione incentrata sulla paura e sul rifiuto del cosiddetto "establishment" politico, parlando di minacce provenienti da immigrati e nazioni straniere, e dicendo che gli Stati Uniti non avevano più "vittorie". Le sue parole, forti e dirette, crearono un ampio seguito tra coloro che si sentivano ignorati dalla politica tradizionale.

Trump sapeva come usare ogni evento a suo favore, anche durante le primarie repubblicane, dove il suo comportamento aggressivo nei confronti degli altri candidati e le sue affermazioni provocatorie gli permisero di guadagnare visibilità. La sua abilità nell'uso dei media si estendeva anche ai suoi comizi, che divennero veri e propri spettacoli. Con l'aiuto dei social media, in particolare Twitter, Trump alimentava la sua immagine di ribelle che combatte contro un sistema corrotto, mentre le violenze che esplodevano durante alcuni dei suoi eventi erano descritte dai suoi detrattori come l'inevitabile conseguenza di un clima di odio da lui stesso creato.

Quando alla fine vinse le primarie e ottenne la nomination repubblicana, Trump sapeva che avrebbe dovuto consolidare il suo supporto tra i conservatori e gli evangelici. Promettendo nomine di giudici giudicati “di destra” e prendendo posizioni dure sulla politica immigratoria, si preparò per la battaglia finale contro Hillary Clinton. Il suo stile di campagna e la sua manipolazione dei media continuavano a dominare il discorso pubblico, e in un certo senso, l'America si trovò a vivere in un reality show permanente, dove le linee tra politica, intrattenimento e strategia mediatica si confondevano.

Anche Hillary Clinton, nonostante la sua lunga carriera e la sua esperienza, si trovò a fare i conti con una campagna che spesso sembrava più focalizzata su Trump che su di lei. La questione delle sue email private, ad esempio, divenne un tema ricorrente nelle discussioni politiche, amplificato da una copertura mediatica incessante. Le divisioni all'interno del Partito Democratico, esacerbate dagli attacchi di Trump, aumentarono ulteriormente le difficoltà della sua campagna.

Per capire veramente come Trump sia riuscito a diventare presidente, è fondamentale comprendere il suo approccio innovativo alla politica, che mescolava abilmente la televisione, i social media e un linguaggio che parlava direttamente agli americani arrabbiati e disillusi dal sistema. La sua campagna non è stata solo un processo elettorale, ma una costante performance mediatica, dove ogni passo, ogni dichiarazione, ogni provocazione era studiata per mantenere alta l'attenzione e rafforzare la sua immagine di outsider pronto a cambiare l'America.

Perché la Politica Cinese di Trump ha segnato una Rottura Storica con il Passato degli Stati Uniti?

La decisione dell'amministrazione Trump di chiudere il consolato cinese a Houston, accusato di essere un centro di spionaggio e di furto di proprietà intellettuale, ha segnato un momento cruciale nella politica estera americana. Questo atto, in linea con una serie di misure aggressive contro la Cina, ha definito il corso della relazione tra i due paesi durante il suo mandato. La guerra contro il furto tecnologico da parte della Cina ha portato oltre mille ricercatori cinesi a lasciare gli Stati Uniti, molti dei quali in seguito alla revoca dei loro visti. Il Dipartimento della Difesa ha intensificato le operazioni navali nelle acque vicine alla Cina, con dieci operazioni di libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale, più di quanto fosse mai accaduto in passato, e almeno dodici passaggi nello Stretto di Taiwan. Inoltre, sono state vietate le contrattazioni con aziende che utilizzano apparecchiature cinesi, come quelle di Huawei e ZTE.

In parallelo, una serie di interventi pubblici coordinati da alcuni dei principali funzionari dell'amministrazione Trump – come il Segretario di Stato Mike Pompeo e il Direttore dell'FBI Christopher Wray – ha accentuato il tono di minaccia proveniente dalla Cina, alimentando la percezione di Pechino come un avversario per gli Stati Uniti. Questa linea dura è continuata anche dopo la perdita delle elezioni da parte di Trump, culminando nel gennaio 2021 con il divieto di importazione del cotone proveniente dallo Xinjiang, la provincia cinese al centro delle controversie sui campi di rieducazione per gli uiguri. Inoltre, solo dieci giorni prima che Trump lasciasse la Casa Bianca, Pompeo revocò le restrizioni nei contatti ufficiali tra gli Stati Uniti e Taiwan, una misura che era in vigore dal 1979, quando gli Stati Uniti avevano stabilito relazioni diplomatiche con la Cina e interrotto i legami con il governo nazionalista di Taiwan.

Queste azioni segnarono la fine di un'era caratterizzata da un tentativo di engagement con la Cina. Durante il suo mandato, Trump ha radicalmente modificato la visione americana verso la Cina, che da partner commerciale e cooperativo si è trasformata in una minaccia. Alcune delle politiche attuate durante la sua presidenza, come l'uso di tariffe per combattere le pratiche commerciali sleali, sono destinate a durare anche sotto la presidenza Biden. Tuttavia, sebbene le politiche di Trump fossero sostenute da una visione spiccatamente personale, che talvolta veniva espressa tramite tweet e dichiarazioni improvvisate, la sua amministrazione ha impresso un cambiamento profondo nelle relazioni internazionali, sia a livello economico che strategico.

L'eredità della politica cinese di Trump è complessa. Mentre alcuni osservatori come John Bolton suggeriscono che, se fosse stato rieletto, Trump avrebbe potuto ritornare a trattative amichevoli e ad accordi commerciali disastrosi, altri, come Matt Pottinger, ex coordinatore della politica cinese, ritenevano che un secondo mandato avrebbe visto una separazione totale tra gli Stati Uniti e la Cina. Nonostante l'incertezza su quale direzione avrebbe preso Trump in un secondo mandato, è chiaro che la sua politica nei confronti della Cina ha innescato una nuova era di antagonismo che ha lasciato una traccia indelebile nelle relazioni tra le due potenze globali.

Trump ha trattato la Cina con una mentalità da negoziatore e ha usato la sua influenza per mettere sotto pressione il regime cinese, ma le sue mosse erano più reattive che strategiche. Non c'era una chiara visione a lungo termine, e molte delle sue decisioni erano dettate più dal calcolo politico immediato che da un piano geopolitico ben definito. Ciò ha portato a un senso di incertezza, non solo tra gli alleati degli Stati Uniti, ma anche all'interno del governo cinese, che ha visto l'amministrazione Trump come imprevedibile e talvolta instabile.

In questo contesto, la relazione con la Cina è diventata sempre più difficile, non solo per gli Stati Uniti, ma anche per il resto del mondo. La crescente tensione, alimentata dalle azioni di Trump, ha portato alla consapevolezza che la Cina non era più solo un rivale commerciale, ma una potenza geopolitica con ambizioni che andavano ben oltre il semplice commercio. Le politiche economiche aggressive e l'approccio sempre più militarizzato hanno mostrato un volto della politica estera americana in cui la cooperazione con Pechino è stata sostituita dalla necessità di contenere l'espansione cinese in ogni campo, dall'economia alla tecnologia, dalla sicurezza militare alla diplomazia internazionale.

Elementi da considerare oltre la narrazione principale:

Nonostante la linea dura adottata dall'amministrazione Trump, è importante capire che la strategia nei confronti della Cina non è nata in un vuoto politico. Molte delle sue azioni erano in risposta a decenni di politiche precedenti che avevano dato spazio all'espansione cinese in vari settori, in particolare nell'economia globale e nella tecnologia. Le azioni di Trump sono anche il riflesso di un cambiamento strutturale nelle dinamiche globali, dove la Cina ha acquisito un'influenza sempre maggiore, sia in Asia che nel resto del mondo. A questo proposito, l'approccio aggressivo di Trump potrebbe aver contribuito a intensificare una competizione che, con o senza di lui, avrebbe avuto luogo a causa della crescente ascesa di Pechino come superpotenza economica e militare.

Inoltre, è fondamentale considerare come la politica di Trump verso la Cina abbia avuto ripercussioni globali, incidendo su alleanze e dinamiche internazionali che andranno ben oltre la sua presidenza. L'approccio conflittuale e la spinta alla separazione tra i due paesi potrebbero aver minato la possibilità di un futuro di cooperazione in ambiti cruciali, come il cambiamento climatico, la sanità globale e la sicurezza internazionale.

Qual è l'eredità di Trump in Medio Oriente?

L'amministrazione Trump ha lasciato un'impronta controversa e divisiva in Medio Oriente, caratterizzata da azioni imprevedibili, alleanze strategiche e una visione riformista che ha sfidato gli approcci tradizionali alla diplomazia internazionale. L'approccio agli affari esteri dell'ex presidente non è stato solo un riflesso del suo stile impulsivo e populista, ma anche di un disegno che cercava di ridefinire l'ordine internazionale in un contesto globale sempre più complesso e frammentato. Sebbene alcune delle sue mosse siano state acclamate da una parte del suo elettorato, altre hanno suscitato preoccupazioni globali, soprattutto per quanto riguarda i diritti umani, la stabilità regionale e la questione palestinese.

In materia di diritti umani, l'amministrazione Trump ha adottato una posizione contraddittoria, criticando i governi di paesi come l'Iran mentre chiudeva un occhio su violazioni da parte di alleati degli Stati Uniti. Ad esempio, la decisione di non affrontare direttamente l'espansione degli insediamenti israeliani nei territori occupati ha minato le politiche internazionali precedenti e reso più difficile qualsiasi discussione significativa sulla pace tra israeliani e palestinesi. Non solo, ma il ritiro del termine "territori occupati" dal rapporto annuale del Dipartimento di Stato americano, e la legittimazione delle colonie israeliane, hanno avuto implicazioni legali e politiche profonde, facendo crescere la preoccupazione tra gli osservatori internazionali.

Trump ha avuto una visione pragmatica e utilitaristica dei diritti umani: secondo lui, l'investimento in diritti e democratizzazione richiedeva risorse, tempo e sforzi che non avrebbero portato a risultati immediati. Non vedeva la promozione dei diritti umani come una responsabilità morale o un elemento essenziale per un ordine internazionale liberale. Piuttosto, il suo approccio era governato dall’idea che la politica estera dovesse concentrarsi sui propri interessi immediati e sulla competizione con potenze emergenti come la Cina e la Russia. In questo senso, la sua amministrazione ha spesso cercato di minimizzare l'influenza degli Stati Uniti in questioni interne di altri stati, limitandosi a sostenere alleati strategici, indipendentemente dalle loro politiche interne.

A pochi giorni dalla fine del suo mandato, Trump ha preso diverse decisioni che miravano a consolidare l’eredità della sua politica estera, come la designazione dei ribelli Houthi in Yemen come organizzazione terroristica e le visite ufficiali di Pompeo in insediamenti israeliani, che segnavano un appoggio sostanziale alle politiche israeliane di espansione territoriale. Queste mosse sono state interpretate come atti di sfida verso l’amministrazione Biden, in un contesto in cui Washington avrebbe cercato di promuovere una politica più bilanciata in Medio Oriente, soprattutto riguardo alla crisi yemenita e al conflitto israelo-palestinese.

L’approccio di Trump al Medio Oriente è stato, in definitiva, un mix di dichiarazioni impulsive e azioni pensate per rafforzare le posizioni di alleati chiave come Israele e l'Arabia Saudita, mentre allo stesso tempo evitava un coinvolgimento diretto in conflitti prolungati. Nonostante ciò, la sua amministrazione non è riuscita a risolvere i problemi strutturali che alimentano il radicalismo nella regione, come la disuguaglianza economica e politica, e la persistente instabilità in paesi come la Siria e lo Yemen.

Uno degli aspetti più controversi della sua politica in Medio Oriente è stato il suo sostegno alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e diversi paesi arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco). Questi accordi, noti come gli Accordi di Abramo, hanno avuto successo nel migliorare le relazioni economiche e diplomatiche, ma non hanno fatto nulla per avvicinare una risoluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese. Le azioni di Trump, come il trasferimento dell'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, sono state viste come una netta rinuncia al ruolo di "mediatore imparziale" degli Stati Uniti, facendo naufragare qualsiasi speranza di una soluzione equa basata su due stati.

L'approccio di Trump alla politica estera, che mirava a ridurre l'intervento militare diretto e a concentrarsi sugli interessi economici e politici immediati, ha portato ad una serie di contraddizioni. Nonostante non abbia avviato nuove guerre, Trump ha comunque utilizzato la forza in maniera selettiva, come dimostrato dagli attacchi missilistici contro la Siria e le uccisioni mirate di figure di alto profilo come il generale iraniano Qasem Soleimani. Questo approccio, sebbene risparmiasse gli Stati Uniti da conflitti prolungati, ha ulteriormente esasperato le tensioni con potenze regionali come l'Iran e ha contribuito a un'ulteriore destabilizzazione in una regione già fragile.

In conclusione, l’eredità di Donald Trump in Medio Oriente è caratterizzata da una politica estera che ha reso più difficili alcuni dei conflitti regionali già esistenti, senza offrire soluzioni durature. Le sue politiche hanno dato un forte impulso alle alleanze con paesi come Israele e l'Arabia Saudita, ma al contempo hanno minato la capacità degli Stati Uniti di promuovere la pace e la stabilità in una regione che continua a essere teatro di profonde divisioni politiche e ideologiche. Sebbene alcune delle sue iniziative abbiano avuto un impatto immediato, la sua visione del Medio Oriente lascia aperte numerose sfide irrisolte che continueranno a plasmare la politica internazionale nei prossimi anni.