La teoria politica di Johannes Althusius si inserisce in un dibattito che ha visto, nel periodo della sua elaborazione, il confronto tra visioni cosmopolite e quelle più radicate nel contesto locale e comunitario. Sebbene non si possa affermare che Althusius fosse un cosmopolita nel senso moderno del termine, la sua concezione della comunità politica suggerisce un’espansione dei confini teorici, che vanno oltre i limiti del singolo stato. In effetti, come suggerisce Tihanov, la sua teoria incompleta della “fellowship universale” politica non si limita a difendere l’idea di una cittadinanza globale e universale, ma si configura come un tentativo di ridefinire i confini politici, collegando la sfera politica a un orizzonte che trascende il singolo stato.

Il pensiero di Althusius recupera una tradizione che affonda le radici nella riflessione di Cicerone e, in particolare, in quella di Ierocle, che sosteneva che l'individuo si colloca al centro di una serie di cerchi concentrici di comunità sempre più ampie: la famiglia, la città, la nazione e l'umanità. Questa visione, pur con il dovuto adattamento alle sue preoccupazioni politiche, si può interpretare come una forma primitiva di cosmopolitismo, purtroppo limitata da una visione che definisce i suoi confini sulla base di una comunità cristiana e confessionalmente determinata. Infatti, secondo gli studiosi Ramelli e Konstan, sebbene tale schema sia in linea con l’idea cosmopolita, esso presenta una qualificazione importante: “l'idea di benevolenza verso l’umanità non può che essere generica”, poiché “ogni persona può manifestare una vera benevolenza solo verso un cerchio ristretto di individui”.

Questa osservazione suggerisce una priorità naturale per i nostri affetti e le nostre alleanze, che tendono a concentrarsi sul più prossimo dei cerchi di appartenenza: quello della famiglia e della comunità locale, senza però negare la legittimità e il valore di forme più ampie di associazione sociale e politica. In tal senso, Althusius, pur non abbracciando completamente il cosmopolitismo, si presenta come un pensatore che mira a espandere i confini teorici della politica oltre il concetto limitato di stato sovrano, e in questo processo riesce a coniugare un’espansione dei confini politici con una creazione di esclusività.

Un ulteriore aspetto che merita attenzione è come Althusius non si limiti semplicemente a ridefinire i confini o a spostarli, ma crei attivamente nuovi confini, stabilendo forme di esclusività. In questo senso, la sua concezione della consociatio, la comunità di persone che si associa in base alla fede cristiana, non è in contrasto con le forme precoci di cosmopolitismo che cercavano di includere più ampia umanità, ma al contrario si inserisce in un quadro di pensiero che vede nel cristianesimo la base di una comunità politica universale, ma con una chiara delimitazione di appartenenze che si riflettono nel confessionalismo.

Althusius, pur opponendosi fermamente all’idea di una cittadinanza universale che eserciti un'autorità globale e ultima, sembra comunque suggerire un’espansione dei confini della polis, ma solo in un’immaginazione confessionale. Questo aspetto mette in evidenza la tensione tra l’idea di un cosmopolitismo che estende i confini, ma che non riesce a superare la divisione religiosa, e la realtà di una politica locale che affonda le radici in un ordine morale e teologico ben definito.

Questa visione di Althusius apre un dialogo interessante sulla relazione tra cosmopolitismo e localismo, e offre un punto di partenza per riflettere su come i confini politici possano essere rinegoziati nella contemporaneità, con una particolare attenzione ai temi della fede e della comunità religiosa. La difesa della politica locale, sebbene non escluda la possibilità di espandere i confini, porta con sé l’imperativo di non dimenticare la centralità delle piccole comunità come punto di riferimento per la costruzione della sfera politica e sociale.

Cosmopolitismo e Onore Populista: Una Prospettiva KANTIANA

L’idea della sovranità nazionale, pur difesa con fermezza da Immanuel Kant, non implica un permesso illimitato per uno stato di agire a proprio piacimento, ma piuttosto il riconoscimento che esso deve proteggere e promuovere i propri interessi all'interno di un quadro di giustizia universale. Kant sostiene che lo stato deve bilanciare le necessità interne, fondate sul diritto nazionale, con le richieste del diritto internazionale e cosmopolita. Questo bilanciamento non è solo di natura etica, ma soprattutto giuridica, nel senso kantiano, che implica che gli stati possano essere costretti a rispondere per le violazioni del diritto cosmopolita. L’importante eccezione che Kant fa alla sacralità della sovranità nazionale riguarda il concetto di "nemico ingiusto", definito come uno stato che viola i contratti pubblici, mettendo in pericolo l’ordine internazionale.

In tale contesto, Kant è molto chiaro: uno stato che violi i principi fondamentali del diritto cosmopolita può essere chiamato a rispondere dalle coalizioni di altri stati, ma non può essere sottoposto a una divisione del suo territorio, in quanto ciò equivarrebbe a una violazione della sua autonomia politica. Al contrario, una soluzione dovrebbe consistere nell’imporre allo stato aggressore l'adozione di una nuova costituzione che favorisca la pace e ostacoli le inclinazioni bellicose, preservando così la sua indipendenza politica. In questo modo, Kant difende l’autonomia politica degli stati, pur promuovendo la giustizia internazionale.

Questa posizione kantiana potrebbe essere accolta da molti populisti contemporanei, che trovano nelle sue teorie un terreno fertile per sviluppare le proprie idee. Tuttavia, il dibattito contemporaneo non riguarda solo la ragione, come spesso sperano i cosmopoliti kantiani, ma si fonda piuttosto su emozioni, in particolare sul risentimento che nasce quando le élite ignorano o trattano con disprezzo gli interessi delle masse. Il punto cruciale è che l'onore del popolo è stato lesa. Un'onore ferito non può essere placato solo con la persuasione razionale, che anzi rischia di aggravare il malcontento se percepito come condiscendente. Piuttosto, è necessario un approccio che riconosca e rispetti il senso di onore.

L'onore, secondo Kant, è una delle emozioni più pericolose, radicata nell'autocontemplazione umana, che cerca il riconoscimento del nostro valore attraverso l'opinione degli altri. A differenza degli animali, l’essere umano è caratterizzato dalla libertà, una condizione che gli permette di agire autonomamente, non determinato da impulsi naturali. L’onore, per Kant, si lega al riconoscimento di questa libertà. L’essere umano è degno di onore solo quando vive autonomamente, agendo secondo dovere. L’abbandono di tale autonomia, in contrasto, porta alla vergogna. In politica, l’essere un "essere umano onorevole" significa difendere la propria reputazione contro la calunnia e opporsi alla schiavitù.

Kant esplora anche l'onore di un popolo, non solo dell'individuo. Quando uno stato si considera onorato nella sua espansione e crescita del potere, può scivolare nell'onore falso, legato a guerre e conquiste. Sebbene le guerre siano spesso viste come nobili per il popolo, che viene spinto a combattere per l’onore nazionale, Kant osserva che questa ricerca di onore a livello statale spesso sfocia in conflitti e divisioni tra stati. La vera onore di un popolo, invece, si trova nella sua indipendenza e nell’autogoverno. L'indipendenza politica di uno stato è un'estensione dei diritti individuali alla libertà e alla dignità.

Tuttavia, Kant riconosce che questa indipendenza può risultare minacciosa per altri stati, che anch'essi aspirano alla stessa autonomia. Il "diritto naturale" tra gli stati è instabile, poiché nessuno può garantire che un altro stato rispetti i suoi confini o non violi la sua sovranità. In un tale stato di natura internazionale, l'onore di uno stato potrebbe spingere a compiere atti di forza, come la guerra, per difendere la propria autonomia.

Il cosmopolitismo kantiano, quindi, potrebbe necessitare di un esame critico del desiderio di onore a livello statale. In un mondo contemporaneo segnato da forti tensioni internazionali e da un aumento dei nazionalismi, potrebbe essere opportuno pensare a un cosmopolitismo che vada oltre la ricerca di un onore nazionale, che troppo spesso sfocia in conflitti e guerre. Il progetto cosmopolita dovrebbe, piuttosto, mirare a ridurre il desiderio di onore e a promuovere una comprensione più equilibrata della libertà e dell’autonomia, non solo per gli individui, ma anche per gli stati, in un contesto di pace e cooperazione internazionale.

Cos'è la filosofia politica autentica e quale ruolo svolge nella società contemporanea?

La filosofia politica autentica non si presenta mai come un semplice esercizio teorico astratto o una riflessione distaccata sul potere. Essa nasce dalla tensione originaria tra l’essere e il dover essere, tra l’ordine e la giustizia, tra l’autorità e la libertà. In questa tensione si innesta una ricerca che ha attraversato secoli, dai greci a Heidegger, passando per Dante, Rousseau e Althusius. Ma oggi, nel contesto della globalizzazione, del pluralismo culturale e delle crisi democratiche, la domanda sulla natura autentica della filosofia politica si impone con urgenza radicale.

Nel pensiero greco, la politica è innanzitutto praxis, un agire che si radica nella polis e nella parola condivisa. In Platone e Aristotele, essa non è strumentale, ma ontologica: è una modalità dell’essere, un’espressione della verità. La Repubblica e il Politico di Platone disegnano scenari nei quali la giustizia, l’educazione e la filosofia si intrecciano nella costruzione dell’anima collettiva. Per Aristotele, invece, la politica è la forma più alta di vita associata, dove l’uomo, animale politico per natura, realizza la sua essenza attraverso la partecipazione.

Ma questo modello greco viene radicalmente rielaborato nella modernità. In Rousseau, il contratto sociale segna una svolta. L’uomo, naturalmente buono ma corrotto dalla società, deve ritrovare se stesso attraverso un patto che istituisce la sovranità popolare. Tuttavia, questa sovranità resta fragile, sempre esposta al rischio della tirannia, della degenerazione in populismo, o peggio, in una tecnocrazia che maschera l’ingiustizia sotto la facciata della neutralità razionale. Il modello rousseauiano, pur nella sua aspirazione alla libertà razionale e all’autodeterminazione, apre questioni sulla natura della laicità, dell’identità pubblica e della legittimità.

In Heidegger, la filosofia politica assume un’altra forma: quella della domanda fondamentale sull’essere (Seinsfrage) e della verità come disvelamento. In questo contesto, il pensiero politico non si riduce a ideologia, ma diventa esperienza originaria, capace di porre in questione le strutture invisibili del dominio. Heidegger non offre una teoria politica nel senso classico, ma ci insegna a interrogare l’essenza del potere, del diritto, del linguaggio e della comunità.

Questa eredità filosofica si incrocia con la riflessione moderna sulla giustizia, sui diritti umani, sulla cittadinanza. John Rawls propone un modello di giustizia come equità, fondato sulla razionalità pubblica e sull’autonomia individuale. Ma la sua concezione resta vincolata a un orizzonte liberale, incapace di affrontare fino in fondo la complessità dei diritti collettivi, delle minoranze, delle forme di esclusione strutturale. La filosofia politica autentica non può accontentarsi della forma contrattuale o istituzionale della giustizia. Essa deve interrogare le condizioni di possibilità della convivenza, in una società attraversata da fratture etiche, religiose e culturali.

Il pluralismo contemporaneo, reso ancora più acuto dalla globalizzazione e dai processi post-coloniali, impone una nuova grammatica politica. La nozione di comunità politica non può più fondarsi sull’identità etnica, religiosa o linguistica. Deve aprirsi all’alterità, senza per questo dissolversi in un relativismo indifferente. La filosofia politica, se vuole restare autentica, deve articolare una visione della differenza che non sia solo tolleranza, ma riconoscimento. In questo senso, essa si pone al di là del multiculturalismo superficiale, per farsi esercizio radicale di giustizia nella differenza.

Ma questo esige anche una nuova comprensione della sovranità. Il modello dello Stato-nazione, con il suo legame tra territorio, popolo e potere, è messo in crisi dalla molteplicità degli attori politici, dalle reti transnazionali, dalle nuove forme di potere economico e simbolico. La sovranità non può più essere pensata come assoluta, ma come articolata, relazionale, distribuita. Questo impone una rilettura di concetti classici come l’autonomia, il federalismo, la laicità. La filosofia politica autentica deve interrogare non solo chi comanda, ma anche come, perché e per chi.

È dunque impossibile separare la filosofia politica dall’educazione, dalla poesia, dalla religione. Ogni tentativo di fondare un ordine politico giusto implica una visione dell’uomo, una concezione del bene, una forma di verità. La filosofia autentica non fugge la complessità: al contrario, l’abita. Non offre risposte definitive, ma rimette in questione l’evidenza. Solo così può evitare di diventare ideologia, o peggio, strumento del potere.

Perché, in fondo, l’autenticità della filosofia politica non si misura nella coerenza di un sistema, ma nella capacità di trasformare il pensiero in prassi, la parola in mondo. Essa non è solo un sapere, ma un atto di coraggio: quello di pensare l’impensabile, di vedere l’invisibile, di dire l’indicibile.

Importa comprendere che la filosofia politica autentica non si limita all’analisi dei concetti ma si manifesta nei conflitti reali, nei processi storici, nelle lotte per il riconoscimento. Senza una connessione viva con le domande della giustizia concreta, essa rischia di diventare sterile. Inoltre, è essenziale riconoscere che la pluralità delle tradizioni culturali e religiose non costituisce un ostacolo alla coesione politica, ma una risorsa per una democrazia più profonda. Infine, la vera sfida non è solo includere le differenze, ma rendere giustizia alla loro specificità, senza ridurle all’universalismo astratto né lasciarle chiuse nell’identitarismo.