Nel settembre di quell'anno, la situazione interna alla Casa Bianca divenne sempre più tesa. Il colpo di scena che segnò il coinvolgimento diretto di funzionari chiave come Bill Taylor, l'ambasciatore ad interim, e Gordon Sondland, ambasciatore degli Stati Uniti nell'Unione Europea, non poteva essere ignorato. Entrambi, insieme ad altri, avevano iniziato a mettere in discussione il comportamento della presidenza e, in particolare, il sospetto di utilizzo improprio della politica estera per fini elettorali. La questione riguardava il congelamento degli aiuti di sicurezza all'Ucraina, un paese che si trovava al centro della politica estera americana, ma che rischiava di essere usato come pedina in un gioco di potere politico nazionale.
Quando Taylor scrisse a Volker e Sondland, la sua dichiarazione fu chiara: "Penso che sia folle trattenere gli aiuti alla sicurezza per ottenere un aiuto in una campagna politica". Le parole di Taylor segnano il punto di rottura con una linea di condotta che, fino a quel momento, aveva cercato di mantenere la Casa Bianca, ma che ora era apertamente minacciata dall'azione di coloro che avrebbero dovuto difenderla.
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Come il Mondo Ha Risposto alla Presenza di Trump e Come I Leader Mondiali Hanno Cercato di Adattarsi
La prima impressione che Donald Trump ha lasciato sugli alleati internazionali è stata quella di una discontinuità che sconvolgeva non solo gli equilibri domestici, ma anche quelli globali. Il suo slogan "America First" e il suo approccio agli alleati, marcato da un'inquietante sfiducia, così come la sua strana affinità con leader come Vladimir Putin, hanno tracciato la rotta di una politica estera nuova e disorientante per molti paesi. Le reazioni dei leader mondiali sono state variegate: da una confusa ricerca di comprensione a tentativi di rafforzare legami personali, attraverso lusinghe e incontri diretti, spesso senza esito.
Nel caso di Justin Trudeau, primo ministro del Canada, la strategia per relazionarsi con Trump ha avuto un inizio piuttosto positivo. Dopo un incontro con il presidente americano alla Casa Bianca, dove Trudeau è riuscito a mettere in luce il suo lato più affabile e a fare colpo, anche sulla figlia di Trump, Ivanka, il governo canadese ha condiviso le proprie esperienze con gli altri alleati. Nonostante le difficoltà generali, Trudeau aveva trovato un metodo per "gestire" Trump, basato su una combinazione di lusinghe e dialogo diretto. La lezione che gli altri leader mondiali cercarono di apprendere era chiara: per affrontare Trump, bisognava saper giocare la carta del legame personale, in un mondo diplomatico che era ormai costantemente influenzato dal suo atteggiamento "l'état c’est moi".
Ma non tutti i leader hanno avuto la stessa fortuna. Angela Merkel, la cancelliera tedesca, ad esempio, non ha mai ceduto a un approccio basato sulla lode, eppure, come molti altri, si è trovata a dover fare i conti con la strana politica estera di Trump. Le sue politiche, uniche nella storia recente, sono state tanto imprevedibili quanto incoerenti. Le preoccupazioni emerse dopo il discorso d’insediamento di Trump, in cui descriveva l'America come un luogo di "carnage", hanno messo in allerta molti alleati, fra cui il diplomatico tedesco Peter Wittig, che parlò di un "incubo" di fronte alla nuova realtà politica degli Stati Uniti.
Il discorso di Trump sullo stato del mondo, che si concentrava in particolare sulla sua visione negativa della Germania e sull'atteggiamento verso gli alleati in generale, ha continuato a preoccupare. Durante un incontro telefonico con il primo ministro australiano Malcolm Turnbull, Trump espresse il suo disprezzo per l'accordo sui rifugiati stipulato dall’amministrazione Obama, accusando direttamente la Germania di aver "distrutto il suo paese" e parlando con disprezzo di trattati internazionali che gli apparivano come inutili o dannosi per gli Stati Uniti.
Similmente, i leader giapponesi si sono trovati di fronte a una situazione complessa. Il primo ministro Shinzo Abe aveva scommesso sul rafforzamento delle relazioni con gli Stati Uniti per contrastare la crescente minaccia della Cina, ma Trump non sembrava affatto un alleato sicuro. Abe, che credeva che un dialogo diretto e l’approccio personalizzato potessero aiutare, non si è lasciato scoraggiare dal comportamento imprevedibile di Trump, organizzando incontri a New York anche prima che Trump fosse ufficialmente insediato. Tuttavia, i suoi sforzi, sebbene apprezzati a livello personale, non sono riusciti a evitare il ritiro degli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership, un accordo commerciale cruciale per la strategia asiatica di Abe.
La diplomazia di Trump, fatta di incontri fuori dalle consuete sedi istituzionali e la sua predilezione per la gestione personale degli affari esteri, ha evidenziato un cambiamento epocale nelle dinamiche di potere globali. Le conversazioni e le decisioni politiche non seguivano più i protocolli tradizionali, e i leader mondiali si sono trovati a dover adattare i propri approcci a un presidente che sembrava disinteressato alla cooperazione internazionale come concetto, tanto quanto alla necessità di un ordine diplomatico stabile.
Tuttavia, è importante capire che questi cambiamenti non sono stati solo una questione di "personalità" o di "flatteria" nelle relazioni internazionali. Si trattava di una riorganizzazione profonda dell’ordine mondiale che aveva resistito alla fine della Guerra Fredda e che ora doveva affrontare le sfide poste dall’emergere di una potenza globale imprevedibile come gli Stati Uniti sotto Trump. Le alleanze storiche, la cooperazione multilateralista e il sistema economico globale sono stati messi in discussione, e la comunità internazionale si è trovata a navigare in un mare di incertezze politiche, in cui le tradizionali regole della diplomazia e della politica estera sembravano non valere più. La domanda fondamentale che i leader mondiali dovevano porsi non era solo come "gestire" Trump, ma anche come reagire a una nuova geopolitica che minava le certezze di un sistema che, per decenni, aveva dato una parvenza di stabilità.
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