Nel 2016, le dinamiche del voto negli Stati Uniti hanno rivelato tendenze interessanti riguardo al comportamento elettorale dei vari gruppi demografici, in particolare tra i bianchi disagiati e le minoranze etniche. Un’analisi approfondita della composizione del voto in relazione a fattori socioeconomici e religiosi mostra come il successo di Donald Trump alle elezioni presidenziali si basi in larga parte sulla capacità di attrarre una base elettorale composta da bianchi meno privilegiati e cristiani rinati, gruppi che hanno tradizionalmente votato per i Repubblicani ma che, in molte circostanze, si erano distaccati dal partito durante le precedenti elezioni.
L’analisi dei comportamenti elettorali del 2016 mostra come le donne bianche, pur essendo generalmente più inclini a sostenere Hillary Clinton rispetto agli uomini, abbiano manifestato un supporto inferiore rispetto alle donne non bianche. Allo stesso modo, tra i bianchi disoccupati, la propensione a votare per Trump era significativamente maggiore rispetto ai non bianchi disoccupati. Questo dato si estende anche a gruppi religiosi specifici: i cristiani rinati bianchi erano più inclini a votare per il partito repubblicano rispetto ai loro omologhi non bianchi.
Interessante è anche il comportamento del voto tra i diversi gruppi di reddito. Sebbene in generale i votanti con redditi più bassi fossero meno inclini a sostenere Trump, i bianchi con il reddito più basso si sono distinti per il loro maggiore sostegno al candidato repubblicano rispetto ai non bianchi nella stessa fascia di reddito. Inoltre, la relazione tra il livello di istruzione e il voto ha visto i bianchi senza diploma di scuola superiore sostenere in misura maggiore Trump rispetto ai non bianchi privi di tali qualifiche.
Questi risultati suggeriscono che Trump abbia attratto in misura maggiore il sostegno di quei gruppi demografici più vulnerabili che sono stati al centro della sua campagna. A partire dal 2012, un numero significativo di bianchi disagiati, che avevano precedentemente votato per Barack Obama, si è spostato verso Trump nel 2016. Questi elettori non solo hanno cambiato il loro voto, ma molti di loro sono tornati a votare nel 2016, dopo essersi astenuti nel 2012. Al contrario, tra gli elettori di Obama del 2012, molti hanno scelto di astenersi nel 2016, contribuendo a indebolire il supporto a Hillary Clinton, in particolare in quegli Stati chiave che Trump è riuscito a conquistare.
Le analisi dei cambiamenti nel comportamento elettorale indicano anche che la transizione da Obama a Trump tra gli elettori bianchi svantaggiati è stata più marcata rispetto a quella di Romney a Clinton, suggerendo che questi elettori erano più attratti dalla retorica di Trump, che si presentava come un outsider in grado di contrastare l’élite politica tradizionale. Al contrario, il supporto a Clinton da parte degli elettori afroamericani e latini è stato significativamente ridotto da un'alta percentuale di astensionismo tra coloro che avevano votato per Obama nel 2012.
La strategia elettorale di Trump ha avuto un impatto determinante in quegli Stati noti come "Rust Belt", tra cui Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, dove la percentuale di voti persi da Clinton tra i bianchi disagiati potrebbe aver determinato la sua sconfitta. Trump è riuscito a mobilitare efficacemente questi elettori, mentre Clinton ha visto un declino relativo del supporto soprattutto tra gli elettori non bianchi e in particolare tra gli afroamericani, che avevano dato un forte sostegno a Obama.
La geografia della campagna elettorale di Trump si è concentrata in modo strategico sui cosiddetti “swing states” – quegli Stati che erano passati da Obama a Romney e che avevano un equilibrio politico molto delicato. La sua campagna ha effettuato numerose visite in questi Stati, con un’intensa attività pubblicitaria, mentre Clinton ha registrato un maggiore impegno economico, sebbene concentrato su un numero minore di Stati.
Non è solo una questione di voti individuali, ma anche di una combinazione di mobilitazione e astensione che ha avuto un impatto determinante. Il supporto di Trump tra i bianchi disagiati e i cristiani rinati si è rivelato un fattore cruciale nel suo successo, ma ciò che ha realmente spostato la bilancia a favore di Trump è stata la sua abilità nel mantenere il sostegno dei suoi elettori repubblicani del 2012, mentre Clinton ha perso non solo voti tra i bianchi disagiati ma anche tra gli elettori di Obama, molti dei quali hanno scelto di non partecipare al voto del 2016.
Le differenze nei pattern di voto tra i vari gruppi etnici e sociali dimostrano quanto sia complesso il panorama elettorale degli Stati Uniti e quanto sia importante comprendere le motivazioni profonde che spingono gli elettori a cambiare il loro comportamento tra un'elezione e l'altra. Se il successo di Trump è stato determinato in parte dalla sua capacità di attrarre i bianchi svantaggiati, è altresì fondamentale riconoscere il ruolo cruciale della campagna elettorale e delle scelte fatte riguardo a dove concentrare gli sforzi di mobilitazione.
Cosa rappresenta l'America Jacksoniana e perché è ancora rilevante oggi?
L'America Jacksoniana, come descritta da Walter Mead, rappresenta un insieme di valori e ideali radicati nella storia degli Stati Uniti, che hanno continuato a modellare la politica americana fino ai giorni nostri. Jackson, che divenne presidente nel 1828, ha incarnato un tipo di leadership che sfidava le élite consolidate e parlava direttamente alla gente, difendendo una visione di politica centrata sulla popolarità e sull'assertività, piuttosto che sull'istituzionalizzazione del potere. Questo approccio, con il suo coraggio e la sua sfida alle élite, continua ad essere una forza che attraversa le dinamiche politiche dell'America contemporanea, come è evidente nell'elezione di Donald Trump nel 2016, che è stato descritto come una "rinascita" del "Jacksonianismo". La continua esistenza di movimenti politici che attingono a questi ideali dimostra quanto questi concetti siano ancora vivi, sebbene in forme nuove e adattate ai tempi moderni.
L'America Jacksoniana ha due facce: il cuore dell'America, che si trova nelle aree rurali e suburbane, e la periferia, che è rappresentata dalle città e dalle coste. La distinzione tra queste due aree è emersa chiaramente nelle recenti elezioni, dove le zone rurali e semi-rurali, con una forte presenza di elettori bianchi non laureati, hanno sostenuto Trump, riflettendo un contrasto con le città, più cosmopolite e culturalmente diverse. Questi elettori, che in molti casi si oppongono all'immigrazione illegale e a politiche che favoriscono i poveri urbani, sostengono anche politiche di polizia aggressiva e pene detentive lunghe per i crimini violenti. Tuttavia, nonostante le apparenti divisioni politiche, ci sono anche elementi di apertura e liberalismo che caratterizzano la cultura popolare jacksoniana, in particolar modo nelle sue forme rurali.
Il cuore dell'America Jacksoniana è strettamente legato all'idea di una società che aspira a una leadership forte e dominante, ma che non deve necessariamente essere intollerante. L'autorevolezza, la determinazione e la capacità di sfidare l'establishment sono qualità che continuano a essere esaltate nella politica moderna, dove Trump è visto come un leader che capisce e difende i valori americani tradizionali. In questo senso, l'America Jacksoniana non è semplicemente una nostalgia per il passato, ma una reazione culturale alla crescente globalizzazione e alle trasformazioni sociali ed economiche che hanno messo in discussione i valori tradizionali.
Inoltre, è importante notare che le divisioni nell'America Jacksoniana non sono soltanto politiche, ma anche storiche e culturali. La "Midwest", la regione che più di tutte incarna lo spirito jacksoniano, è un terreno di battaglia tra forze opposte. La sua storia, che risale alla guerra civile americana, mostra come la regione fosse un crogiolo di conflitti ideologici. Mentre da una parte i movimenti democratici e inclusivi cercavano di promuovere una visione più progressista, dall'altra i sentimenti autoritari, radicati nei temi del dominio e della leadership forte, continuavano a prevalere. La persistente divisione tra Nord e Sud si riflette ancora oggi nelle politiche, e la relazione tra il Midwest e il Sud è particolarmente rilevante. Nonostante la crescente polarizzazione, le dinamiche interregionali continuano a esercitare un'influenza determinante sulle scelte politiche.
Le elezioni del 2016 sono emblematiche di questo fenomeno: molti dei territori che nel 1856 votarono per John Frémont, il candidato anti-schiavitù, sono oggi fortemente favorevoli a Trump, il che suggerisce una continuità di sentimenti e inclinazioni politiche che vanno al di là delle generazioni. Questo legame tra passato e presente è un elemento fondamentale per comprendere l'evoluzione della politica americana, ma anche la persistenza di alcune caratteristiche culturali che continuano a modellare il dibattito pubblico.
Il conflitto tra i valori democratici e quelli autoritari che caratterizzano l'America Jacksoniana non è un fenomeno estraneo alla storia, ma rappresenta una tensione costante tra visioni del mondo contrastanti che ancora oggi definiscono l'identità politica americana. La ricerca sociologica suggerisce che la lealtà verso Trump sia stata alimentata non tanto da un senso di disagio economico o da un'ideologia populista diretta, ma più da un’identità culturale che trova radici in una lunga tradizione storica. In questo contesto, le dinamiche di votazione e le preferenze politiche non possono essere semplicemente ridotte a fattori economici o sociali, ma devono essere comprese anche come espressioni di un retaggio culturale che continua a influenzare la politica americana.
Oltre alle questioni politiche ed economiche, è essenziale considerare come la cultura regionale influisca sulla percezione e sulla risposta alle sfide moderne. Il Midwest, con le sue complesse radici storiche, è un esempio perfetto di come l'identità americana sia frammentata e articolata. La tensione tra il desiderio di un leader forte e l’aspirazione a una società più inclusiva continua a giocare un ruolo cruciale nella formazione dell’opinione pubblica.
La Sovranità Contrattuale e le Relazioni Internazionali: L'Approccio Trumpiano
Nelle aree devastate dalla guerra, ricche di risorse economiche e di una cultura comune, ma impoverite dal conflitto, Trump ha identificato territori nei quali gli attori locali avrebbero potuto lavorare come alleati degli Stati Uniti per sconfiggere un nemico comune. In ogni spazio, Trump dichiarava il diritto degli amici locali di rappresentare gli interessi americani in territori eccezionali. Come osserva Carl Schmitt nella sua Teologia politica (1922), "l'autorità di sospendere la legge valida, sia in generale che in un caso specifico, è tanto il segno della sovranità effettiva" (Schmitt, 1922, p. 9). La legge emerge nell'ordine trumpiano come aperta alla rinnegoziazione sovrana contrattuale.
Pochi mesi dopo la visita in Arabia Saudita, Trump osservò che la sconfitta di ISIS richiedeva il rinnovamento della straordinaria architettura legale dei "combattenti nemici illegali", elaborata durante l'amministrazione George W. Bush. Con una sospensione extragiudiziale delle norme e dei trattati legali internazionali, Trump sosteneva che il ramo esecutivo potesse esercitare il suo dovere sovrano per identificare e sconfiggere i nemici degli Stati Uniti. Tutto ciò faceva parte, come notava, del servire gli amici americani e "ripristinare la chiarezza riguardo ai nostri nemici" (Trump 2018a). Questo ampliava anche la ricerca della sovranità americana attraverso relazioni contrattuali. Tale chiarezza è il riflesso di un esercizio della decisione sovrana. Gli spazi di eccezione emergono dalla negoziazione della distinzione tra amici e nemici operata dall'amministrazione Trump. Questi spazi sono aree in cui gli amici dell'amministrazione sono coinvolti nella costruzione della sovranità come una forma di transazione.
Anche durante la campagna, Trump si vantava delle straordinarie capacità delle forze armate statunitensi, sia umane che tecnologiche, pur rimanendo riservato riguardo al suo desiderio di estendere la presenza di quelle stesse forze in tutto il mondo. L'approccio dell'amministrazione Trump al Medio Oriente somiglia alla comprensione di Schmitt secondo cui tutta la legge è situazionale, in cui un vero sovrano "produce e garantisce la situazione nella sua interezza" (Schmitt, 1922, p. 13). Perseguendo quelli che considera gli interessi reali degli Stati Uniti, l'amministrazione Trump autorizza i poteri locali a perseguire i propri interessi sovrani. Quando tali interessi sovrani si sovrappongono con gli obiettivi di politica estera degli Stati Uniti, l'amministrazione accoglie calorosamente quei governi come amici e, proclamandoli tali, estende la portata della sovranità americana all'interno di un ordine realistico di politica estera.
Gli stati amici sono anche quelli che contribuiscono al progresso degli obiettivi interni dell'amministrazione Trump, mentre aiutano a promuovere le rivendicazioni degli Stati Uniti di proclamare amici ed eliminare nemici in tutto il mondo. Dopo l'inaugurazione, Trump e il suo vicepresidente Mike Pence proclamarono la loro protezione della libertà religiosa attraverso la promessa di campagna di un "blocco totale e completo" degli immigrati provenienti da paesi a maggioranza musulmana. L'Ordine Esecutivo 13769 richiedeva la sospensione del rilascio di visti e benefici di immigrazione per i cittadini di Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen per almeno 90 giorni. Dopo la contesa legale e una serie successiva di ordini esecutivi volti a chiarire la costituzionalità delle restrizioni, il numero totale di rifugiati siriani ammessi negli Stati Uniti è sceso a 62 nel 2018, rispetto ai 12.587 nel 2016 (Zezima, 2019). La diminuzione dei rifugiati che entrano negli Stati Uniti non implica certamente la loro scomparsa dai numeri migratori. Dopotutto, Turchia, Iraq, Libano e Giordania hanno accolto circa 5,3 milioni di rifugiati nel 2018, quasi un quarto della popolazione prebellica della Siria (Connor, 2018).
Le nazioni che sono state considerate come quelle che hanno accettato la loro giusta parte di rifugiati sono state spesso destinatari della gratitudine di Trump. Nel suo discorso in Arabia Saudita, Trump ha lodato Giordania, Turchia e Libano per aver ospitato i rifugiati del conflitto siriano. Tale lode riflette il modello di clientelismo della sovranità contrattuale in pratica. Trump inquadra i rifugiati come possedenti un'eredità culturale comune con i paesi vicini e quindi di maggiore beneficio per i loro paesi di origine. Per le economie mediorientali, suggeriva, i rifugiati rappresentano una forma di capitale umano che potrebbe "costruire società ed economie stabili... [dando] ai giovani speranza per un futuro migliore nei loro paesi e nelle loro regioni" (Trump, 2017d). Le nazioni che comprendono il beneficio di contenere il flusso dei rifugiati e mantenere le persone sfollate vicino alle loro culture sono quelle che l'amministrazione considera come amici eccezionali – permessi a violare le norme internazionali e le leggi nel perseguire obiettivi condivisi con gli Stati Uniti.
La ricerca della sovranità contrattuale da parte dell'amministrazione Trump, che identifichiamo come una componente del realismo principiante, colloca gli amici che sono autorizzati ad operare sospensioni della legge per perseguire i propri – e gli Stati Uniti – nemici. Tali stati sono promessi al sostegno degli Stati Uniti – sotto forma di armi, tecnologia e trattamenti economici preferenziali – per la loro cooperazione. Forse altrettanto importante, tuttavia, è la promessa esplicita fatta dall'amministrazione che gli Stati Uniti proteggeranno gli alleati dalle pressioni degli osservatori internazionali che cercano di difendere l'ordine liberale delle norme legali internazionali.
L'amministrazione Trump nella sua ricerca di ciò che definiamo "amici eccezionali" ha dimostrato una rottura rispetto alle precedenti relazioni contrattuali con i governi del Medio Oriente, che almeno simbolicamente rispettavano le leggi internazionali e i diritti umani. Uno degli esempi più prominenti di questa frattura si è manifestato nella dimissione del segretario alla Difesa James Mattis. Nella sua lettera datata 20 dicembre 2018, Mattis scrisse: "Le mie opinioni sul trattare gli alleati con rispetto e sull'essere anche lucidi riguardo sia agli attori maligni che ai concorrenti strategici sono fortemente convinte... Dobbiamo fare tutto il possibile per avanzare un ordine internazionale che sia più favorevole alla nostra sicurezza, prosperità e valori, e siamo rafforzati in questo impegno dalla solidarietà delle nostre alleanze" (Mattis, 2018). Qui, Mattis segnalava che la distinzione tra amici e nemici dell'amministrazione Trump si allontanava da un ordine internazionale, sebbene eroso, che garantiva gli interessi americani. Nei giorni precedenti alle dimissioni di Mattis, Trump aveva segnalato la sua intenzione di ritirare le forze americane dalla Siria dopo una conversazione con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in cui quest'ultimo assicurava a Trump che le forze turche avrebbero potuto gestire i militanti rimasti. Per Trump, le assicurazioni turche completavano quella che era, senza dubbio, una negoziazione contrattuale tra l'amministrazione Trump e Erdogan.
Qual è il ruolo dell'eccezionalismo nelle alleanze diplomatiche durante l'amministrazione Trump?
Nel maggio del 2019, Donald Trump dichiarò su Twitter che non esisteva alcun "accordo" con la Turchia per fornire alcun sollievo economico in seguito al rilascio di Andrew Brunson, un pastore americano detenuto in Turchia. Nonostante ciò, le tariffe imposte alla Turchia furono ridotte dal 50% al 25%, livello che rispecchiava la situazione originale di agosto 2018. Il rilascio di Brunson rappresentò una possibile eccezione nei rapporti tra Stati Uniti e Turchia. Trump testò questa eccezionalità con la sua dichiarazione di ritiro dalle politiche che prevedevano sanzioni aggiuntive. Da parte sua, Erdogan cercò di confermare pubblicamente la sua disponibilità a giocare un ruolo da "amico eccezionale", sottolineando che la Turchia fosse uno degli alleati più stretti degli Stati Uniti e della NATO nella regione, in particolare nella lotta contro l'ISIS, che entrambi consideravano un nemico comune.
Tuttavia, il linguaggio di Erdogan rivelò una comprensione specifica della sovranità contrattuale. Mentre cercava di giustificare le sue azioni contro il PKK, il gruppo curdo considerato una minaccia per la Turchia, Erdogan ribadì il diritto del suo paese di controllare i propri confini e le aree siriane alla ricerca di elementi del PKK da neutralizzare. Trump, da parte sua, segnalò la disponibilità a fare propri questi termini, a condizione che la Turchia accettasse la creazione di una "zona sicura" di 20 miglia per separare i gruppi curdi alleati degli Stati Uniti dai nemici dichiarati da Erdogan.
Mentre si sviluppava questa dinamica, l'amministrazione Trump continuava a curare con attenzione i legami con il Regno dell'Arabia Saudita. Nell'estate del 2018, Trump twittò elogiando l'impegno saudita per il ricostruire la Siria, oltre alla disponibilità ad aiutare a compensare eventuali benefici economici per l'Iran e il Venezuela derivanti dalla vendita di petrolio. Tuttavia, il rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita fu messo alla prova nell'ottobre dello stesso anno, quando il giornalista Jamal Khashoggi scomparve in un consolato saudita in Turchia e fu accusato di omicidio alcuni stretti collaboratori del principe ereditario saudita Muhammad bin Salman. Erdogan, pur senza fare riferimenti diretti a bin Salman, cercò di esercitare pressioni sulla leadership saudita, utilizzando la questione per ottenere concessioni dall'amministrazione Trump. Nonostante le indagini sulla morte di Khashoggi, Trump continuò a sostenere pubblicamente l'Arabia Saudita, affermando che il Regno stava lavorando per identificare e portare alla giustizia i responsabili.
La morte di Khashoggi non minò significativamente le relazioni tra Trump e l'Arabia Saudita, e l’amministrazione giustificò il sostegno agli sforzi sauditi nella lotta contro l’Iran e Hizbollah in Medio Oriente come motivo per continuare a considerare il Regno un "amico eccezionale", degno di perdonare le violazioni dei diritti umani. Con una retorica simile, gli Emirati Arabi Uniti e l'Egitto godevano di una relazione privilegiata con gli Stati Uniti, che non esprimevano alcuna condanna per le violazioni dei diritti umani da parte dei rispettivi governi, nonostante i loro atti di repressione interna. Piuttosto, Trump esaltava il progresso in termini di libertà religiosa e tolleranza, come nel caso dell’invito del Papa a Abu Dhabi nel 2019.
La lotta contro l'Iran, infatti, appariva come un obiettivo strategico centrale per l'amministrazione Trump. La decisione di ritirarsi dal Piano d'Azione Complessivo congiunto (JCPOA), accordo nucleare firmato dall'amministrazione Obama, segnalò chiaramente che l'Iran era considerato un nemico. Tuttavia, il trattamento dell'Iran non rientrava completamente nel contesto di alleati eccezionali come l'Arabia Saudita. Piuttosto, le politiche verso l'Iran sembravano rientrare in un "territorio eccezionale", come quello della Siria orientale e dello Yemen, dove gli alleati degli Stati Uniti venivano trattati con una certa indulgenza, nonostante le controversie umanitarie derivanti dai conflitti in corso.
Lo Yemen rappresenta un esempio emblematico di questa filosofia della "sovranità contrattuale" dell'amministrazione Trump. Nonostante le preoccupazioni internazionali riguardo le atrocità commesse durante le campagne saudite ed emiratine, Trump continuò a sostenere attivamente gli sforzi bellici di questi paesi, considerando la lotta contro l'Iran come un obiettivo centrale. Quando il Congresso cercò di limitare il sostegno a questi alleati, Trump usò il suo potere di veto, ritenendo che la sua autorità costituzionale non dovesse essere indebolita, poiché ciò avrebbe potuto compromettere la capacità degli Stati Uniti di prevenire la diffusione di organizzazioni terroristiche come al-Qa'ida e ISIS.
In questo contesto, l'amministrazione Trump ha sviluppato un concetto di amicizie diplomatiche eccezionali che si fondano non solo su legami economici, ma anche sulla capacità di trattare determinate aree di conflitto come "spazi eccezionali", dove la violenza può essere impiegata senza troppo riguardo per le implicazioni legali o umanitarie. La logica di questo approccio ha messo in evidenza una gerarchia di alleanze, dove la fedeltà politica e la condivisione degli obiettivi strategici determinano chi è considerato un "amico eccezionale" e chi è destinato a essere trattato come un avversario da isolare.
È fondamentale notare che questa visione del mondo non è stata priva di contraddizioni. Gli alleati eccezionali di Trump spesso si sono trovati ad agire in modi che sfidano le tradizionali norme internazionali di diritti umani e legalità. La diplomazia, in questo caso, si è trasformata in una questione di interessi geopolitici e non di valori universali, con le alleanze costruite sulla base di ciò che gli Stati Uniti consideravano più vantaggioso per i propri obiettivi globali, piuttosto che sulla promozione di ideali comuni condivisi.
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