Quando penso a quanto accaduto su Crater Ridge, a volte mi viene da pensare che Giles Angarth e Felix Ebbonly abbiano progettato tutto come un'enorme beffa. Forse sono ancora vivi da qualche parte e si stanno facendo beffe di un mondo che si è visto sconcertato dalla loro misteriosa scomparsa. A volte, mi vengono in mente dei piani, anche se provvisori, per tornare su Crater Ridge e cercare, se possibile, quei massi di cui parlava Angarth, che sembrano essere colonne crollate. Ma fino a questo momento, nessuno ha trovato tracce degli uomini scomparsi, né ha sentito voci o indizi che possano portare a una spiegazione. L'intera faccenda sembra destinata a rimanere uno degli enigmi più singolari e frustranti della storia.

Angarth, la cui fama come scrittore di narrativa fantastica probabilmente sopravvivrà a quella di molti altri autori di riviste, aveva trascorso l'estate tra le Sierras, vivendo in solitudine fino all'arrivo di Ebbonly, che andò a trovarlo. Ebbonly, di cui non avevo mai sentito parlare di persona, era noto per le sue opere pittoriche e per le illustrazioni che aveva realizzato per alcuni dei romanzi di Angarth. I campeggiatori vicini si allarmarono per la lunga assenza dei due uomini e per questo iniziarono a cercare indizi nella cabina. Fu trovato un pacchetto, indirizzato a me, che giaceva sul tavolo. Lo ricevetti poco dopo, insieme alla lettura di numerose speculazioni sui giornali riguardo la doppia sparizione. Il pacchetto conteneva un piccolo taccuino rilegato in pelle. Angarth aveva scritto sulla prima pagina: "Caro Hastane, puoi pubblicare questo diario se ti piace. La gente lo considererà l'ultima e più folle delle mie finzioni—a meno che non pensino che sia uno dei tuoi racconti. In ogni caso, andrà bene così. Addio. Fedelmente, Giles Angarth." Ora sto pubblicando il diario, che senza dubbio avrà la ricezione che Angarth aveva previsto. Ma non sono altrettanto certo riguardo alla veridicità della storia. L'unico modo per capire veramente sarebbe trovare i due massi; ma chiunque abbia visto Crater Ridge e si sia perso tra i suoi chilometri di terreno roccioso e desolato capirà le difficoltà di un simile compito.

31 luglio 1930
Non ho mai avuto l'abitudine di tenere un diario, forse perché la mia vita è stata finora priva di eventi degni di nota. Tuttavia, ciò che è accaduto stamattina è talmente strano, lontano dalle leggi e dai paralleli del mondo comune, che mi sento obbligato a scrivere quanto è successo, cercando di descrivere al meglio delle mie capacità. Inoltre, terrò un resoconto della possibile ripetizione e continuazione della mia esperienza. Sarà perfettamente sicuro farlo, poiché chiunque legga il resoconto difficilmente crederà a ciò che vi è scritto.
Stavo facendo una passeggiata su Crater Ridge, a meno di un miglio dalla mia cabina vicino a Summit. Sebbene questo luogo differisca notevolmente dai paesaggi circostanti, è uno dei miei posti preferiti. È estremamente spoglio e desolato, con poco più di girasoli selvatici, cespugli di ribes e qualche pino storto dal vento e tamarack resistenti. I geologi negano che abbia un'origine vulcanica, ma le sue sporgenze di pietra grezza, i grandi cumuli di detriti sembrano proprio i resti scoriacei di forni ciclopici, gettati nell'antichità e raffreddati nel tempo per assumere forme di una grottesca infinita. Tra questi, ci sono pietre che somigliano a frammenti di bassorilievi primordiali, o piccole statue preistoriche. Altre sembrano incise con lettere sconosciute di una lingua indecifrabile.

All'improvviso, trovai un piccolo laghetto su un lato della cresta, un lago che non è mai stato misurato in profondità. La collina è un'interruzione bizzarra tra le lastre di granito e le vette frastagliate, le valli e le gole alberate della regione. Era una mattina limpida e senza vento, e mi fermai più volte ad ammirare la magnificenza dei panorami che mi circondavano. Mi incantavo davanti alle mura titaniche di Castle Peak, le masse rocciose di Donner Peak, e alla valle ai miei piedi, con il suo verde morbido dei salici. Era un mondo lontano e silenzioso, e l'unico suono che sentivo era il fruscio delle cicale tra i cespugli di ribes. Continuai a camminare per un bel po' in modo casuale, e presto mi trovai in una delle aree più accidentate della cresta, piena di massi e detriti sparsi. Cominciai a cercare qualche pietra che fosse abbastanza interessante da conservare come curiosità. Avevo già trovato diverse pietre simili durante le mie precedenti passeggiate.

Poi, senza preavviso, arrivai in uno spazio vuoto, circolare, tra i detriti. Al centro, due massi, simili per forma e separati da circa un metro e mezzo. Mi fermai per osservarli più da vicino. La loro sostanza, di un grigio-verde smorto, sembrava differente da qualsiasi altra pietra nei dintorni. A un tratto, mi venne in mente un pensiero bizzarro: e se fossero i resti di colonne antiche, consumate dal tempo, con solo i piedistalli rimasti? La loro forma perfettamente rotonda e uniforme era veramente strana. Pur non essendo un esperto di geologia, non riuscivo a identificare il materiale di cui erano composti. La mia immaginazione cominciò a galoppare, ma le fantasie che mi vennero in mente sembrarono insignificanti rispetto a ciò che accadde quando feci un passo in avanti, proprio nel vuoto tra quei due massi.

Immaginate la sensazione di scivolare in un abisso invisibile sotto i piedi. La sensazione di cadere nel nulla, mentre davanti a me il paesaggio svaniva, le immagini si frantumavano, e la vista diveniva completamente buia. Un freddo glaciale, quasi iperboreo, mi pervase, e una nausea indescrivibile mi colse. Non riuscivo a respirare, come se un'invisibile forza mi impedisse di farlo. La confusione mentale che provavo era totale, e per un momento mi sembrò di non cadere verso il basso, ma di salire o muovermi in un angolo strano. Alla fine, sentii come se avessi fatto una giravolta completa, e quando riaprii gli occhi, mi trovai di nuovo in piedi, senza il minimo impatto, su un terreno solido.

Mi guardai intorno, ma ciò che vidi non aveva nulla a che fare con Crater Ridge. La scena che mi si presentava davanti era stranamente diversa: una collina dolce, coperta da un'erba viola, e intervallata da enormi pietre monolitiche. Di fronte a me, una vasta pianura si estendeva, con prati ondulati e foreste alte di una vegetazione sconosciuta, i cui colori predominanti erano il viola e il giallo. La pianura sembrava finire in una parete di nebbia d'oro, che si sollevava fino a dissolversi in un cielo ambrato e luminoso. Quello che provai in quel momento non era altro che il gelo dell'assoluta estraneità: mi sentivo come un uomo catapultato su un altro pianeta, senza alcun punto di riferimento. La sensazione di essere lontano, di non appartenere a quel luogo, era assoluta.

Qual è il vero significato di “andare”? Un viaggio tra mondi e possibilità infinite

Cameron si avventurò, spinto da un semplice ordine: "Vai". E, come era prevedibile, lo fece. Che altro avrebbe potuto fare? Una volta ottenuta la libertà, abbandonò il suo universo natale per intraprendere un viaggio in quello sconosciuto. Ma attenzione, non ho detto un "universo migliore", bensì "diverso". Un passo incerto in un terreno sconosciuto. La scelta di partire era una scommessa, un rischio che avrebbe potuto costargli tutto ciò che gli stava a cuore, senza la garanzia di guadagnare nulla di veramente prezioso. Ma così è la vita. Ogni giorno è una scommessa simile: ogni volta che varchi una porta, metti in gioco te stesso. Non sai mai cosa troverai oltre, eppure scegli di giocare lo stesso.

Come potrebbe un uomo diventare tutto ciò che è capace di essere, se trascorre tutta la sua vita percorrendo lo stesso cortile? "Vai", dunque. E vai, e vai ancora. Ogni passo, ogni decisione, crea nuovi universi, nuove possibilità. Basta un semplice bivio, una scelta tra sinistra e destra, una spinta sul pedale dell'acceleratore, o il suono di un clacson. Ogni azione si traduce in intere galassie di possibilità. Siamo immersi in una zuppa di infiniti, una rete di scelte che si moltiplicano all’infinito. Se reprimere uno starnuto può generare un continuum alternativo, che dire delle azioni più significative della vita? Le uccisioni, le inseminazioni, le conversioni, i rinnegamenti? Ogni grande gesto apre una nuova dimensione.

Durante questo viaggio, c'è un’altra parte del gioco che si fa interessante: capire cosa ha determinato il mondo che stai esplorando. Ogni luogo, ogni epoca ha la sua storia, e parte della sfida è scoprirla. Guardando un villaggio con strade sterrate e carretti trainati da asini, potresti pensare che qui non ci sia stata la rivoluzione industriale, che il progresso sia stato soffocato nella sua culla. Una sensazione di purezza nell'aria suggerisce una realtà più semplice, un’epoca più primitiva. Ma poi, come nel caso di Cameron, puoi trovarti in un altro luogo, dove la tua stessa identità è rifiutata, dove non esiste più Elizabeth. E allora, cosa fare? Ripartire, come sempre.

Il movimento è fondamentale. Cameron si trova immerso in una frenesia che non può sfuggire: una parata di volti e bandiere, fotografi e folle esultanti. Persone che si avvicinano a lui con offerte assurde, come il ragazzo con una scatola di gioielli provenienti da Patagonia, o la donna che, preoccupata, gli parla di voci che ora sono state confermate. Le scene che Cameron attraversa sono vivide, eppure sempre più caotiche, sconcertanti. Il festival si trasforma in un incubo senza fine, e Cameron, sopraffatto, si rifugia in un vicolo silenzioso, cercando un po’ di respiro.

Proseguendo il suo cammino, Cameron si imbatte in uno scenario completamente diverso: una vasta pianura che si estende fino all'orizzonte, forse la steppa del Gobi. Qui non ci sono città, nemmeno villaggi, solo qualche tenda nera, simbolo di un’umanità più primitiva. Ma gli occhi di Cameron si fermano su figure oscure che si stagliano in lontananza. Sono cavalli, forse, o centauri? La percezione di Cameron è disturbata dall’ignoto. Questi esseri lo stanno osservando, e la loro corsa verso di lui non lascia spazio alla fuga. Gli uomini che si avvicinano sono piccoli, ma robusti, con le facce piane e le pelli dorate, eppure non sono indiani. Mongoli, realizza Cameron. I figli di Gengis Khan.

Questi uomini, una volta dominatori di un intero continente, ora vivono lontano dalle città, tra le steppe, ancora fedeli ai riti della loro storia guerriera. Non c'è posto per Cameron in questo mondo. Nonostante la loro forza, il loro spirito di conquista sembra lontano da quello che lui cerca. Dopo un breve incontro, in cui gli viene offerto un liquido denso e acido, un segno di rispetto o forse di sfida, Cameron si allontana. Il cammino continua.

Ogni mondo, ogni luogo che si esplora, non è mai definitivo. Ogni passo è un’ulteriore biforcazione, ogni incontro un’opportunità per scoprire qualcosa di nuovo o per tornare indietro, rifiutando ciò che non corrisponde alla propria ricerca. Il viaggio di Cameron ci ricorda che la vita è fatta di infinite possibilità, tutte ugualmente valide, ma nessuna davvero certa. Ogni scelta ci definisce, ogni nuovo universo che esploriamo è una parte di noi che si apre. La vera domanda, allora, non è se il viaggio valga la pena, ma se siamo pronti a fare il passo successivo.

Come viene percepito il mondo senza la vista? Un'analisi sulla "terra dei ciechi"

Nel paese dei ciechi, la visione è un concetto straniero, ridotto a una leggenda che ha perso il suo significato originale. Quando Nunez, un uomo proveniente da un mondo che affida il suo significato alla luce e ai colori, arriva in un villaggio isolato, privo di contatti con il resto del mondo, si trova davanti a una realtà incomprensibile. La gente di quel posto non vede, non conosce la luce, e quindi non ha un concetto reale di ciò che è la vista. Questo isolamento dal mondo "normale" ha dato vita a una cultura totalmente diversa, in cui la percezione del mondo è filtrata esclusivamente attraverso il tatto, l'udito e l'olfatto.

Quando Nunez arriva, i suoi nuovi compagni di viaggio, tutti ciechi, lo esaminano curiosamente, toccandolo e sentendolo con mani delicate ma ferme, cercando di decifrare ciò che sono e ciò che lui rappresenta. Il loro comportamento è al contempo curioso e rigido, come se lui fosse una novità assoluta. Nunez, con un grande stupore, scopre che non sono in grado di comprendere nemmeno le sue parole: non conoscono il concetto di "vista", e la sua dichiarazione di poter "vedere" risulta incomprensibile per loro.

Il villaggio, una comunità di ciechi che ha vissuto isolata per generazioni, non ha mai conosciuto la luce solare. Le loro vite si svolgono in un perpetuo "buio", il che equivale per loro al concetto di "giorno" e "notte". La luce, per questi individui, non ha alcuna realtà tangibile. La loro percezione del mondo si è adattata a questa condizione: non vedono, ma sentono e toccano. La loro concezione della realtà si è evoluta esclusivamente tramite il contatto fisico con gli altri, l'udito e l'olfatto, dando vita a una cultura che ha rinunciato a ciò che Nunez considera fondamentale.

Questo incontro tra Nunez e la popolazione cieca svela un tema profondo: la difficoltà di comunicare e di comprendere concetti che dipendono da esperienze sensoriali non condivise. Nunez cerca di spiegare loro la realtà esterna al loro mondo, parlando di montagne, cielo, e della luce solare. Tuttavia, per loro, queste parole non evocano immagini comprensibili. I concetti di "visione" e di "luce" non sono mai esistiti nella loro cultura, e quindi il tentativo di Nunez di comunicare diventa una lotta senza speranza.

La gente del villaggio, purtroppo, non è disposta a mettere in discussione le proprie convinzioni. La loro visione del mondo, limitata dalla mancanza della vista, è profondamente radicata e trasformata nel tempo in una forma di filosofia e religione. Le loro credenze riguardo l’origine del mondo e degli esseri umani si basano su un processo di adattamento che ha sostituito la percezione visiva con quella tattile e uditiva. A poco a poco, i ciechi hanno sviluppato una nuova comprensione della loro esistenza, completamente svincolata dai concetti che Nunez trova naturali.

Nel corso della sua esperienza, Nunez si rende conto che la sua aspettativa di meraviglia e reverenza per la sua origine e le sue capacità è destinata a rimanere delusa. I ciechi non sono affascinati dalla sua storia. Anzi, li confonde, e questo lo rende ancor più alieno agli occhi di quelle persone che vivono da generazioni senza alcuna idea di cosa sia la luce o la vista.

Ciò che Nunez percepisce come il suo punto di forza, la sua capacità di vedere e comprendere il mondo visivamente, non è affatto valorizzato, ma anzi messo in discussione. La sua lotta per farsi comprendere diventa una metafora della difficoltà di comunicare attraverso limiti sensoriali, di un mondo che si è evoluto in modo completamente diverso da quello che conosciamo.

Il punto centrale della riflessione che emerge da questa esperienza è la relatività delle percezioni sensoriali. In un mondo dove la vista non esiste, altre forme di conoscenza sensoriale si sviluppano, e la cultura di quella comunità ha costruito intorno a queste un proprio sistema di significati e verità. La nostra concezione della realtà, a cui attribuiamo un valore indiscutibile alla percezione visiva, può sembrare altrettanto priva di fondamento se paragonata alla realtà di chi non conosce la luce.

È fondamentale che il lettore comprenda come questa storia non parli solo della limitazione di chi è privo della vista, ma anche di come le percezioni sensoriali possano definire un’intera cultura e la sua comprensione del mondo. Il paesaggio che Nunez descrive, che comprende montagne e cieli sconfinati, è completamente irrilevante per i ciechi, perché la loro realtà non si costruisce su quelle nozioni. Inoltre, la narrazione invita a riflettere sulla forza delle convinzioni e sulle difficoltà che si presentano quando si tenta di trasmettere un concetto a chi non ha gli strumenti per comprenderlo.

Nel comprendere questo racconto, è essenziale tenere a mente come la società si possa adattare alle proprie condizioni fisiche e sensoriali, creando un sistema di valori che rispecchia le proprie esperienze. La vista, quindi, non è solo un senso fisico, ma anche una chiave di lettura del mondo che condiziona profondamente il modo in cui costruiamo la nostra cultura e le nostre convinzioni.

Come si vive tra mondi: l’incontro di due realtà parallele

Elizabeth ha uno dei quartetti di Mozart sul fonografo. Siede rannicchiata sulla finestra del soggiorno, sfogliando una rivista. È tardo pomeriggio e lo skyline di San Francisco, chiaramente visibile attraverso la grande finestra, è avvolto dalla luce dorata del tramonto che sfuma lentamente. Un piccolo vaso di cristallo contiene fiori freschi sul tavolo di legno di sequoia; il profumo delle gardenie e dei gelsomini si diffonde nell'aria. Senza fretta, alza lo sguardo, incontra i suoi occhi, lo acceca con la calda luminosità del suo sorriso e dice: "Ehi, ciao!"

"Hei, Elizabeth."

Lei si avvicina a lui.

"Non pensavo che tornassi così in fretta, Chris. In effetti non so se mi aspettavo che tornassi affatto."

"Così in fretta? Quanto sono stato via per te?"

"Da martedì mattina a giovedì pomeriggio. Due giorni e mezzo."

Lo scruta, notando la barba ispida e la camicia sbiadita dal sole.

"Per te è stato più lungo, vero?"

"Settimane e settimane. Non sono sicuro di quanto tempo, sono stato in otto o nove posti diversi e nell'ultimo ci sono rimasto un bel po'. Erano dei villaggi, contadini, alcune tribù slave primitive che vivevano vicino alla baia. Ero il loro dio, ma mi sono annoiato."

"Ti sei sempre annoiato così facilmente," dice lei, ridendo, e prende le sue mani nelle sue, tirandolo verso di sé. Sfiora le sue labbra sulle sue, un bacio fugace, come sempre il loro primo saluto, e poi si baciano più appassionatamente, i corpi stretti, le lingue che si cercano. Lui sente un battito forte nel petto, la solita pulsazione inestinguibile. Quando si staccano, lui si allontana un passo, un po' stordito, e dice:

"Mi sei mancata, Elizabeth. Non sapevo quanto mi saresti mancata finché non mi sono trovato in un altro posto, consapevole che forse non ti avrei più ritrovata."

"Ti sei preoccupato davvero di questo?"

"Molto."

"Non ho mai dubitato che ci saremmo ritrovati, in un modo o nell'altro. L'infinito è un posto così grande, amore. Saresti tornato da me, o da qualcuno molto simile a me. E qualcuno molto simile a te sarebbe arrivato da me, se tu non fossi tornato. Quanti Chris Cameron pensi ci siano, in viaggio tra mondi, proprio ora? Mille? Un trilione di trilioni?"

Si gira verso il mobiletto e, senza interrompere il flusso delle sue parole, aggiunge:

"Vuoi un po' di vino?" E comincia a versare da una bottiglia di vino rosso mezza vuota.

"Dimmi dove sei stato," dice.

Lui si avvicina dietro di lei, appoggia le mani sulle sue spalle e le scivola lungo la seta della sua camicetta fino alla vita, tenendola lì, baciandole la nuca.

"Sei stato in un mondo dove c’era una guerra atomica qui, e in uno dove ci sono ancora predoni indiani a Livermore, e in uno dove c’erano robot fantastici e elicotteri futuristici, e in uno dove Johnson era Presidente prima di Kennedy e Kennedy è vivo ed è Presidente ora, e in uno dove… oh, ti dirò tutto dopo. Ho bisogno di un po' di tempo per rilassarmi prima."

Lei lo lascia andare e bacia il lobo dell'orecchio, prende un bicchiere da lui e brindano insieme, bevendo il vino velocemente.

"È così bello essere tornato a casa," dice dolcemente. "È bello essere stato dove sono stato, ma è bello essere di nuovo qui."

Lei riempie di nuovo il suo bicchiere. Il rituale domestico familiare: il vino rosso è la loro bevanda speciale, un vino rosso economico da bottiglie da gallone. Un sacramento, più caro a lui delle offerte bruciate dei suoi ultimi sudditi.

"Vieni," dice. "Andiamo dentro."

Il letto ha lenzuola fresche, fresche e invitanti. Ci sono tre libri spessi sul comodino: lei si era preparata per una lettura impegnata durante la sua assenza. Fiori freschi anche qui, il profumo ovunque. I vestiti cadono, le mani si toccano, lei tocca la sua barba ridendo della ruvidità e lui bacia il punto fresco e liscio lungo l'interno della sua coscia, accarezzandola con la guancia come se fosse carta vetrata, e poi lei lo tira a sé e i loro corpi si uniscono, lui entra in lei.

Tutto succede rapidamente, troppo velocemente; lui è stato a lungo lontano da lei, se non lei da lui, e ora la sua presenza lo eccita, c’è qualcosa di strano nel suo corpo, nei suoi movimenti, e questo lo spinge verso l’estasi. Un leggero rimorso lo attraversa, ma non di più: presto si rifarà, entrambi lo sanno. Si abbandonano a un abbraccio sonnolento, nessuno dei due parla, e alla fine si sciolgono in una nuova passione tenera, e questa volta tutto è come dovrebbe essere. Poi si addormentano.

Un tramonto spettacolare ricopre la città quando lui apre gli occhi. Si alzano, si fanno una doccia insieme, ridendo e giocando.

"Perché non andiamo dall’altra parte della baia per una cena elegante stasera?" suggerisce. "Trianon, Blue Fox. Ernie's, qualsiasi posto. Decidi tu. Ho voglia di festeggiare."

"Anch'io, Chris."

"È bello essere di nuovo a casa."

"È bello averti qui," gli dice. Cerca la sua borsa. "Quanto pensi che resterai? Non che voglia accelerare le cose, ma..."

"Lo sai che non intendo restare?"

"Certo che lo so."

"Sì, lo sapevi."

Non avevano mai messo in discussione il fatto che uno di loro partisse. Entrambi cercavano di rispondere ai bisogni dell'altro; si erano sempre considerati pari, liberi di fare ciò che volevano.

"Non so quanto resterò. Probabilmente non per molto. Tornare così presto è stato davvero un incidente, lo sai. Avevo programmato di andare avanti e avanti, mondo dopo mondo, e non avevo programmato il mio prossimo salto, almeno non consapevolmente. Ho semplicemente saltato. E l'ultimo salto mi ha depositato sulla mia stessa porta di casa, in qualche modo, quindi sono entrato e tu eri lì ad accogliermi."

Lei gli stringe la mano tra le sue. Quasi tristemente, dice:

"Non sei a casa, Chris."

"Che?"

Sente il suono della porta di casa che si apre. Passi nel corridoio.

"Non sei a casa," ripete lei.

La confusione lo prende. Ripensa a tutto quello che è successo tra loro quella sera.

"Elizabeth?" chiama una voce profonda dalla sala.

"Qui dentro, amore. Ho compagnia."

"Ah? Chi?" Un uomo entra nella stanza, si ferma, sorride. È rasato e indossa gli stessi vestiti che Cameron aveva indossato martedì; per il resto potrebbero essere gemelli.

"Hei, ciao!" dice calorosamente, tendendo la mano.

Elizabeth dice: "Viene da un posto che deve essere molto simile a questo. È qui dalle cinque, e stavamo per uscire a cena. Ti sei divertito?"

"Molto," risponde l'altro Cameron. "Te lo racconterò dopo. Vai, non voglio fermarti."

"Potresti venire a cena con noi," suggerisce Cameron senza speranza.

"Va bene, ho appena mangiato. Petto di piccione passeggero—non sono estinti dappertutto. Peccato che non abbia potuto portarne un po' a casa per il congelatore. Ma voi andate e divertitevi. Ci vediamo dopo. Spero, entrambi."

Cameron si alza poco prima dell'alba, in una straordinaria calma nebbiosa. I Cameron sono stati estremamente ospitali, ma lui deve andare. Scrive una nota di ringraziamento e la infila sotto la porta della loro camera da letto. "Rivediamoci un giorno, da qualche parte. In qualche modo." Volevano che rimanesse da loro per una settimana o due, ma no, si sente come un intruso lì, e comunque l'universo lo sta aspettando. Deve andare. Il viaggio, non l’arrivo, è ciò che conta, altrimenti cosa c’è, se non i viaggi? Partire è inaspettatamente doloroso, ma sa che quell’umore passerà. Chiude gli occhi. Rompe i suoi