L'amministrazione Reagan si trovò a gestire una crisi senza precedenti quando venne alla luce la vendita segreta di armi all'Iran in cambio della liberazione di ostaggi. La politica del dopoguerra in Iran era estremamente instabile, con fazioni rivali che si contendevano il potere, e l'episodio dell'accordo segreto tra McFarlane e North fu utilizzato come arma politica da un gruppo di opposizione per attaccare il governo guidato da Akbar Hashemi Rafsanjani. L'esposizione pubblica di tali trattative con gli Stati Uniti, definito in Iran “il Grande Satana”, suscitò enorme scalpore. La stampa libanese, tramite il giornale As-Shiraa, rivelò la vicenda, costringendo la Casa Bianca a una reazione immediata.
Inizialmente, l'amministrazione negò l'esistenza della storia. All'interno della cerchia ristretta del potere, emersero divergenze su come rispondere alle inchieste mediatiche e parlamentari. Il presidente Reagan, pur avendo ricevuto da McFarlane il consiglio di porre fine al programma, autorizzò comunque la continuazione delle forniture di armi agli iraniani, motivando le sue azioni con la necessità di contrastare la minaccia sovietica e liberare gli ostaggi americani. Durante una conferenza stampa televisiva, Reagan cercò di presentare il proprio operato come legale e giustificato dalle circostanze, nonostante la crescente sfiducia pubblica.
La copertura del caso venne orchestrata da quattro figure chiave: il Capo di Gabinetto della Casa Bianca Donald Regan, il Procuratore Generale Ed Meese, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Poindexter e il tenente colonnello Oliver North. Regan, Meese e gli altri cercarono di deviare le responsabilità e di proteggere la presidenza dall'impeachment, arrivando anche a distruggere prove incriminanti. Regan, in particolare, tentò di incolpare McFarlane come principale responsabile, un tentativo evidente di salvaguardare Reagan stesso.
La riunione del National Security Planning Group del 10 novembre 1986 segnò un momento cruciale. A parteciparono Reagan, il vicepresidente Bush, Regan, Poindexter, il direttore della CIA Casey, il segretario di Stato Schultz, il segretario della Difesa Weinberger e il procuratore Meese. Si cercò un consenso su una versione unificata degli eventi, con Poindexter che propose di attribuire la colpa iniziale agli israeliani, sostenendo che fossero stati loro a iniziare la vendita di armi senza l’approvazione americana. Questa narrazione avrebbe permesso a Reagan di negare l’autorizzazione fino al suo secondo ordine esecutivo nel gennaio 1986. Schultz fu l'unico a opporsi a questa strategia, rifiutando di avallare una dichiarazione che sostenesse la vendita delle armi.
Nel tentativo di contenere i danni, Poindexter mentì ai leader del Congresso, mentre Schultz consigliò al presidente di assumersi personalmente la responsabilità del programma, presentandolo come un gesto di buona volontà per la liberazione degli ostaggi e la stabilità regionale. Tuttavia, Reagan preferì insistere sulla versione che escludeva ogni scambio diretto di armi per ostaggi e minimizzava la quantità di armamenti consegnati, sostenendo che l'obiettivo fosse spostare l'Iran lontano dall'influenza sovietica. Questa versione non convinse quasi nessuno negli Stati Uniti, dove il 80% della popolazione non credette alle sue parole.
Alla conferenza stampa del 19 novembre 1986, Reagan confermò la sua posizione difensiva, ammettendo dissidi all'interno dell'amministrazione ma mantenendo dichiarazioni inesatte sui dettagli delle forniture. Il dato più grave fu la negazione del coinvolgimento di altre nazioni, nonostante il Capo di Gabinetto Regan avesse già riconosciuto pubblicamente il ruolo di Israele. La gestione dell'incidente da parte dell’amministrazione fu motivata non solo da ragioni di correttezza istituzionale ma anche da una volontà di preservare le reputazioni individuali e la continuità del potere, temendo l’ombra di un possibile impeachment. Come ammise lo stesso Regan, il termine “impeachment” era quasi un tabù interno, un “mostro” da affrontare solo in segreto, prefigurando per molti il rischio di un secondo Watergate.
Oltre alla mera narrazione dei fatti, è fondamentale comprendere la complessità delle dinamiche di potere che si intrecciarono in questa vicenda. Non si trattò soltanto di un’azione politica o militare, ma di un intreccio di interessi internazionali, rivalità interne e strategie di comunicazione studiate per manipolare l’opinione pubblica e difendere il sistema di governo dagli attacchi esterni e interni. La copertura non fu semplicemente un tentativo di occultare un errore o un illecito, ma un'operazione deliberata di controllo politico che coinvolse il vertice delle istituzioni statunitensi. Comprendere questa realtà è essenziale per valutare la natura e le conseguenze dello scandalo Iran-Contra, così come per riflettere sulle implicazioni che casi simili possono avere sulla fiducia nella democrazia e nei meccanismi di responsabilità politica.
Come si manifesta lo scandalo nella presidenza americana e quale ruolo gioca la strategia della mistificazione?
La presidenza americana, per la sua natura monocratica, si presta a un'analisi dello scandalo differente rispetto a istituzioni collettive come il Congresso o i tribunali federali. Questi ultimi, pur non essendo estranei agli scandali, sono percepiti come organismi in cui le colpe tendono a essere ricondotte a cause sistemiche o a “mele marce” isolate, come nel caso degli scandali legati a lobby come quella di Abramoff negli anni Novanta. La presidenza, invece, viene quasi sempre vista come un’entità incarnata da una singola persona, e ciò rende lo scandalo più personale, più legato alla moralità o immoralità del presidente stesso piuttosto che a un difetto strutturale del sistema politico.
Il caso Watergate ne è l’esempio paradigmatico: esso è stato interpretato prevalentemente come una manifestazione della corruzione interiore di Richard Nixon, piuttosto che come il frutto di un ambiente politico corrotto in generale. La narrazione dominante suggerisce che “il sistema ha funzionato” perché ha neutralizzato i tentativi di insabbiare lo scandalo da parte del presidente. Tuttavia, meno esplorata è la risposta strategica dei presidenti di fronte a accuse di scandalo, ovvero se questi si siano mostrati cooperativi o abbiano invece utilizzato ogni mezzo per ostacolare le indagini, inclusa la tattica della mistificazione o della distrazione.
Questa strategia di dissimulazione, che alcuni presidenti moderni – da Nixon a Reagan, da Clinton a Trump – hanno adottato in varia misura, consiste nel deviare l’attenzione pubblica o addirittura manipolare la narrazione per evitare danni irreparabili alla propria immagine o a quella della loro amministrazione. La scelta di impiegare la mistificazione dipende da molteplici fattori, tra cui la personalità del presidente, la situazione politica, e la natura stessa dello scandalo.
Per comprendere cosa costituisca uno scandalo, si può fare riferimento alla definizione di John B. Thompson, che identifica cinque elementi chiave: la violazione di valori o norme morali, la presenza di segretezza o occultamento, la disapprovazione da parte di osservatori esterni, la denuncia pubblica di tale disapprovazione e il potenziale danno reputazionale per i responsabili. È importante notare come la presenza di una volontà intenzionale di trasgredire costituisca un criterio fondamentale per distinguere uno scandalo da un semplice errore o da un atto sfortunato. La transgressione deve essere attuata da chi detiene potere al momento del fatto: scandali derivanti da azioni di ex amministrazioni fuori dal potere perdono infatti la loro pertinenza politica immediata.
Eventi negativi o insoddisfazione verso la leadership non bastano a qualificare uno scandalo. La reazione popolare al mancato mantenimento di promesse elettorali, per esempio, non implica necessariamente una trasgressione morale o legale. Il caso di George H.W. Bush che ha infranto la promessa “Niente nuove tasse” è emblematico: pur provocando delusione, non rappresenta uno scandalo in senso tecnico perché non si fonda su intenzioni fraudolente o immoralità comprovate.
La soglia di ciò che è considerato scandalo si sta però evolvendo, soprattutto nel contesto di dichiarazioni pubbliche false. Menzogne utilizzate per nascondere trasgressioni morali o legali, come quelle di Clinton riguardo Monica Lewinsky, possono diventare lo scandalo stesso. D’altra parte, la menzogna fine a se stessa, senza uno scopo di occultamento, non raggiunge tale livello. In questo senso, la menzogna strumentale diventa un elemento chiave nella dinamica degli scandali politici.
Per una comprensione approfondita, è cruciale riconoscere la natura duale dello scandalo presidenziale: esso è un fenomeno personale e politico insieme, che riflette tanto l’individuo quanto il sistema in cui opera. Inoltre, la risposta del presidente a uno scandalo, e in particolare la scelta di utilizzare la mistificazione, ha conseguenze profonde sulla fiducia pubblica e sul funzionamento della democrazia.
È altresì fondamentale considerare che la percezione dello scandalo è mediata dai media, dal sistema giudiziario e dal Congresso, e che la loro interazione con la presidenza può influenzare profondamente la traiettoria degli eventi. La gestione della comunicazione e della narrazione pubblica diventa quindi parte integrante della strategia politica presidenziale.
In definitiva, la comprensione dello scandalo presidenziale richiede un’analisi che vada oltre il mero episodio e consideri le implicazioni di potere, moralità e comunicazione politica. La distinzione tra azione individuale e sistema, la valutazione dell’intenzionalità e la natura della risposta presidenziale sono tutti elementi chiave per una visione critica e sfumata della politica americana.
Quali sono le implicazioni democratiche dell’uso presidenziale del "backfire"?
Il fallimento nella gestione della pandemia negli Stati Uniti non può essere attribuito semplicemente alla mancanza di preparazione o all’inefficacia della risposta dell’amministrazione. Tuttavia, se Donald Trump verrà percepito come il principale responsabile di tale inefficienza – percezione che, secondo alcuni sondaggi d’opinione, si stava consolidando già nel 2020 – le sue possibilità di rielezione ne avrebbero potuto risentire notevolmente, soprattutto in un contesto economico incerto. In questo scenario, la strategia di deviare l’attenzione pubblica su altri attori – come la Cina o l’OMS – si configura come una tattica deliberata di "backfire", una contro-narrazione utilizzata per arginare gli effetti dannosi di uno scandalo.
Il "backfire" presidenziale rappresenta una forma sofisticata e inquietante di manipolazione politica: è l’utilizzo calcolato di una menzogna sistemica per deviare l’opinione pubblica da una colpa reale, attraverso la costruzione di uno scandalo alternativo. È, in sostanza, una tattica di distrazione basata sull’inganno, e nella sua esecuzione si cela un abuso profondo del potere conferito dall’ufficio presidenziale. Anche qualora la contro-narrazione evidenziasse effettivamente azioni discutibili da parte di altri, la sua strumentalizzazione a fini autoassolutori invalida ogni pretesa di legittimità morale.
Questa forma di potere non era immaginata dai Padri Fondatori. Anzi, si pone in netto contrasto con i principi fondamentali del costituzionalismo americano: la limitazione del potere e la responsabilità di chi lo detiene. I "backfires" offrono invece un potenziale illimitato di manipolazione, con una responsabilità pressoché nulla. L’efficacia di tali strategie, tuttavia, non dipende esclusivamente dalla volontà del presidente. Sono le condizioni strutturali – la polarizzazione del Congresso, la frammentazione dell’opinione pubblica, il ruolo dei media – a renderne possibile il successo. Trump non ha inventato questi meccanismi; li ha semplicemente riconosciuti e sfruttati con estrema efficacia.
Il secondo mandato di Trump, se ottenuto, avrebbe potuto costituire un vero e proprio esperimento politico per misurare le dinamiche dei "backfires" in un contesto di potere prolungato. La loro proliferazione, già evidente durante il primo mandato, avrebbe avuto effetti corrosivi non solo sulla trasparenza istituzionale, ma anche sulla partecipazione democratica stessa. La cittadinanza, sempre più spettatrice piuttosto che attore della vita politica, si è trovata a osservare da bordo campo quella che è ormai divenuta una parata cinica di scandali, indignazioni selettive e rivalità tribali. Il pubblico viene catturato, intrattenuto, polarizzato; ma sempre più raramente coinvolto in processi autentici di deliberazione e compromesso.
I "backfires" presidenziali hanno il potere di cambiare la traiettoria politica e mediatica di uno scandalo, creando un "firebreak" narrativo – un’interruzione strategica nella linea di fuoco delle accuse – che genera dubbi, confonde le responsabilità e protegge il colpevole. È proprio in quella pausa narrativa che si insinua il dubbio: il sospetto che lo scandalo originario sia stato esagerato, frainteso o addirittura inventato. Quando questo spazio viene riempito da una contro-narrazione, anche priva di fondamento solido, il risultato è un’erosione della verità pubblica. L’effetto è duplice: la verità viene oscurata e la legittimità istituzionale viene corrosa.
Nel caso del cosiddetto "scandalo Biden", ad esempio, nonostante l’assenza di prove concrete a sostegno delle accuse lanciate da Trump contro l’ex vicepresidente e suo figlio, il semplice atto di lanciare l’accusa ha generato danni politici. La figura di Biden ne è uscita offuscata proprio nel momento cruciale della campagna elettorale, in cui la percezione pubblica assume un ruolo decisivo. L’abuso del potere presidenziale si manifesta quindi non solo nell’uso della menzogna, ma nella sua capacità di produrre effetti tangibili, di compromettere carriere e orientare decisioni elettorali.
Il fatto che Trump non sia stato condannato nei due procedimenti di impeachment non elimina la rilevanza del suo utilizzo dei "backfires". Al contrario, le sue strategie hanno contribuito direttamente al fallimento di quei procedimenti. Se da un lato il Senato a maggioranza repubblicana ha svolto un ruolo determinante, dall’altro è indubbio che la capacità di alterare la narrazione pubblica abbia fornito uno scudo potente contro le sanzioni politiche e legali.
La storia dei presidenti americani insegna che, davanti allo scandalo, le risposte tipiche sono due: ostacolare le indagini ("stonewalling") o collaborare apertamente. Ma ciò che emerge da questi casi recenti è una terza via: il ricorso al "backfire". Una via che richiede condizioni favorevoli – un’opinione pubblica frammentata, un sistema mediatico sensazionalista, un’opposizione delegittimata – e un presidente disposto a sfruttarle. Non tutti lo farebbero; molti, forse, no. Ma ciò che importa è che ora la possibilità esiste, ed è stata collaudata con successo.
Per comprendere appieno il significato di questi fenomeni, è necessario guardare oltre la figura di Trump e riconoscere i meccanismi sistemici che lo hanno reso possibile. Concentrarsi solo sull’uomo significa ignorare le strutture di potere che consentono a chiunque, con abbastanza audacia e cinismo, di piegare la democrazia alla propria volontà. È quindi essenziale interrogarsi su come rafforzare le garanzie istituzionali, elevare il livello del dibattito pubblico, e soprattutto, rinnovare la cultura politica in senso deliberativo e partecipativo.
Importante è ricordare che la diffusione della tattica del "backfire" non rappresenta semplicemente una degenerazione del comportamento presidenziale, ma un rischio strutturale per la democrazia. Quando il potere può essere esercitato senza controllo, e la verità può essere riscritta da chi la detiene, allora il patto sociale che regge un sistema democratico inizia a sgretolarsi. La credibilità delle istituzioni, l’equilibrio tra i poteri, la fiducia pubblica: tutto ciò viene messo a repentaglio ogni volta che un leader decide che la menzogna, se utile, è giustificabile.
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