Il populismo, un fenomeno che sta segnando la politica di molti paesi, non è un movimento che si limita a una sola regione o a un contesto politico specifico. È emerso come una delle forze politiche più visibili e influenti in numerosi angoli del mondo, suscitando speranze vaghe e timori concreti nelle società europee, come sottolineato da Muller (2016). Il suo interrogativo sul fatto che viviamo o meno nell'“era del populismo” si fonda sulla constatazione che ogni politico, in particolar modo in democrazie orientate ai sondaggi, cerca di fare appello alla "gente", cercando di raccontare storie che possano essere comprese dalla maggior parte dei cittadini. Tuttavia, questa visione è errata. Non tutti i politici populisti si preoccupano dei bisogni di tutti, ma solo di specifici gruppi sociali. Un esempio lampante è Donald Trump, che, pur essendo un elitista economico e culturale, ha avviato un movimento populista negli Stati Uniti, escludendo deliberatamente i bisogni, i desideri e i diritti di molte categorie di americani, come i recenti immigrati, chi cerca asilo o cittadinanza, i liberali, i pluralisti, i pro-scienza, gli ambientalisti e altri ancora. Allo stesso modo, in Regno Unito, Boris Johnson ha rappresentato il movimento pro-Brexit, ignorando la quasi uguale quantità di persone contrarie all'uscita dall'Unione Europea.
Il populismo, quindi, non è sinonimo di democrazia popolare; al contrario, è un fenomeno che agisce per canalizzare l’insoddisfazione di specifici settori della società, spesso distorcendo la comprensione e la protezione dei diritti umani. Come affermato da Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, i leader populisti si dichiarano portavoce del popolo, ma, di fatto, trattano i diritti umani come un ostacolo alla loro visione della volontà della maggioranza. Invece di tutelare i diritti di tutti i cittadini, essi promuovono valori che favoriscono un numero limitato di persone disilluse dallo status quo, che si sentono escluse dai cambiamenti tecnologici e dai benefici dell'economia globale.
Nonostante ciò, il populismo non è confinato in una sola area del mondo. Secondo Carlos de la Torre (2018), non è più una caratteristica esclusiva di America Latina, Asia, Africa o Medio Oriente. Né si trova ai margini delle democrazie consolidate. Al contrario, i populisti sono ora al potere in paesi come gli Stati Uniti, e in diverse nazioni europee, tra cui Italia, Polonia, Grecia e Ungheria. Ma cosa significa davvero parlare di "era del populismo"? L’emergere di movimenti populisti a livello globale potrebbe sembrare un'opportunità per un rinnovamento democratico, ma la realtà, come dimostrato da vari studiosi, è ben diversa. Il populismo non è affatto sinonimo di "democrazia popolare". La sua ascesa porta con sé il rischio di un deterioramento della democrazia stessa e di un autoritarismo competitivo, come evidenziato da de la Torre.
Nel contesto internazionale, il gruppo delle 20 principali economie mondiali (G20), che include le maggiori potenze finanziarie e i governatori delle banche centrali, ha assistito a un'inversione preoccupante, passando da un predominio delle democrazie consolidate a una crescente affermazione delle democrazie populiste. Le forze populiste, che si presentano come difensori del "popolo comune" contro le élite corrotte, guadagnano terreno dal 2008, in seguito alla crisi finanziaria globale. I partiti populisti ora rappresentano il più grande blocco di economie nel G20, controllando circa il 41% del prodotto interno lordo globale, mentre le democrazie tradizionali rappresentano solo il 32%, una contrazione significativa rispetto all'83% del 2007.
Il populismo è, inoltre, strettamente legato al nazionalismo. Un esempio emblematico è stato il discorso di Emmanuel Macron, presidente francese, durante le celebrazioni per la fine della Prima Guerra Mondiale, dove ha messo in guardia contro i pericoli del nazionalismo. Il suo monito era diretto ai leader mondiali, tra cui Donald Trump, il cui slogan "America First" rappresenta una forma di populismo che rischia di annullare i valori morali fondamentali delle nazioni. Macron ha ricordato che il patriottismo è il contrario del nazionalismo, quest'ultimo essendo una tradizione pericolosa che tradisce i valori di una nazione.
Le elezioni di Trump nel 2016, quindi, sono emblematiche di come il populismo possa emergere in contesti molto diversi. Trump incarna un esempio classico di leader populista, il cui stile di governance, incentrato su un appello emotivo e una retorica semplificata, è in contrasto con i principi della democrazia liberale. Come osservato da Norris e Inglehart, Trump ha utilizzato una retorica populista per legittimare un governo autoritario, promuovendo valori che minacciano le normali dinamiche democratiche degli Stati Uniti. Il suo approccio non è nuovo nella storia degli Stati Uniti, ma mai prima d'ora un leader populista era riuscito a radunare una tale forza sociale attorno alla sua figura.
In Italia, Polonia, Ungheria e Grecia, fenomeni simili si sono verificati, con leader che utilizzano il populismo come strumento per mobilitare il consenso, sfruttando le paure e le frustrazioni di segmenti della popolazione. La politica di chiusura e nazionalismo che caratterizza molti di questi movimenti non è solo una reazione a problemi economici o sociali, ma una strategia per costruire una narrativa che accentua la divisione tra il "popolo" e le élite. Le loro politiche, spesso incentrate sull’immigrazione e sull’identità nazionale, mirano a galvanizzare una base elettorale che si sente minacciata da cambiamenti globali e da dinamiche interne di inclusività e pluralismo.
In questo contesto, diventa essenziale capire non solo la natura del populismo, ma anche le sue implicazioni per il futuro della democrazia. L'ascesa del populismo non implica necessariamente la fine della democrazia, ma il rischio che essa venga erosa dalle sue pratiche autoritarie e dalla distorsione dei principi democratici fondamentali. È quindi fondamentale che i cittadini rimangano vigili e critici rispetto alla retorica populista, riconoscendo i segnali di allarme e mantenendo saldi i valori della democrazia liberale.
La democrazia è in declino? Analisi della regressione globale dei diritti civili e politici
Il 2018 ha segnato il tredicesimo anno consecutivo di declino della libertà nel mondo, secondo i dati di Freedom House. Se la fine della Guerra Fredda aveva aperto la strada a un'ondata di democratizzazione nel tardo XX secolo, molte delle nazioni che ne sono emerse indipendenti non sono riuscite a consolidare nel tempo le proprie istituzioni democratiche. I cambiamenti economici e sociali legati alla globalizzazione hanno profondamente scosso la fiducia nei sistemi politici anche delle democrazie storiche, contribuendo a un deterioramento sistemico che continua a espandersi. Le forze autoritarie non solo persistono, ma affinano i propri strumenti per erodere i diritti politici e le libertà civili, e il danno accumulato in oltre un decennio non sarà facilmente reversibile.
Nel rapporto annuale Freedom in the World 2019, diversi Paesi sono stati declassati nella loro valutazione di libertà. L'Ungheria, già oggetto di analisi critiche, ha subito un peggioramento per via degli attacchi sistematici del partito Fidesz del Primo Ministro Orbán contro le istituzioni democratiche. La Serbia è passata da "Libera" a "Parzialmente libera" a causa di gravi irregolarità elettorali, campagne di discredito contro i giornalisti indipendenti condotte dai media filogovernativi, e un accentramento del potere esecutivo da parte del presidente Vučić, in violazione del ruolo costituzionale della sua carica.
In Nicaragua, la transizione da "Parzialmente libero" a "Non libero" è stata determinata da una repressione brutale del dissenso, culminata in arresti arbitrari, intimidazioni contro leader religiosi e uso della violenza da parte di forze statali e gruppi armati alleati. In Uganda, il governo di Yoweri Museveni ha intensificato la sorveglianza elettronica e imposto tasse repressive sull’uso dei social media, limitando così gravemente la libertà di espressione.
La regressione non è limitata ai Paesi del Sud del mondo. In Romania, un tentativo di modifica costituzionale nel 2018 per vietare i matrimoni tra persone dello stesso sesso, promosso da organizzazioni religiose, ha fallito solo per la bassa affluenza alle urne, segno però di un clima politico in cui la negazione dei diritti LGBTQ+ è ancora parte del dibattito pubblico. In Cecenia, regione della Federazione Russa, si sono verificate torture, arresti arbitrari e uccisioni di persone LGBTQ+ da parte della polizia, in una repressione sostenuta da retoriche religiose e da un’autorità locale che agisce nell'impunità.
Anche in Arabia Saudita, dove le donne hanno ottenuto il diritto di guidare, la resistenza sociale e la violenza verbale e fisica da parte di uomini contrari all’estensione dei diritti fondamentali dimostrano come le riforme formali non garantiscano una reale emancipazione.
La guerra in Yemen rappresenta una delle più gravi catastrofi umanitarie contemporanee. Dal 2015, oltre 10.000 morti, due milioni di sfollati, bombardamenti aerei quotidiani, carestia, epidemie e scarsità d’acqua potabile descrivono un Paese collassato, teatro di un conflitto alimentato da una coalizione saudita sostenuta dagli Stati Uniti e dai ribelli Houthi sostenuti dall’Iran. La guerra, definita da Bruce Riedel come “la peggiore catastrofe umanitaria del mondo”, minaccia di trasformarsi nella più grande carestia delle ultime decadi.
In Venezuela, la crisi politica ed economica ha superato i limiti del collasso istituzionale. Le forze di sicurezza commettono omicidi ing
Qual è il vero potere delle Grandi Imprese nell’economia e nella politica degli Stati Uniti?
Negli Stati Uniti, l’economia si configura come un’enorme rete composta da oltre 161 milioni di posti di lavoro, dei quali il 93% si concentra nel settore salariato non agricolo. La distribuzione del lavoro rivela una varietà di aree trainanti: dai servizi professionali e aziendali (20,9 milioni di lavoratori) alla sanità e assistenza sociale (19,9 milioni), passando per il settore dell’ospitalità e svago, il commercio al dettaglio, la manifattura e le attività finanziarie. Una fetta minore ma significativa è rappresentata dai lavoratori autonomi e dal settore agricolo.
Eppure, dietro a questa distribuzione apparentemente bilanciata si cela una frattura profonda nella percezione pubblica verso le grandi imprese. Secondo un sondaggio Gallup del 2016, solo il 6% degli americani ha dichiarato di avere “molta fiducia” nelle grandi imprese, mentre un ulteriore 12% afferma di avere “abbastanza fiducia”. In confronto, il piccolo imprenditore raccoglie un consenso molto più ampio: il 30% degli intervistati dichiara di avere “molta fiducia” nelle piccole imprese, e il 38% “abbastanza fiducia”. Questa discrepanza indica un atteggiamento ambivalente, se non apertamente ostile, verso i colossi aziendali, percepiti come distanti, impersonali e dominanti.
Questa diffidenza non è infondata. Le piccole imprese, pur contribuendo al 44% dell’attività economica statunitense — pari a 5,9 trilioni di dollari nel 2014 — restano frammentate e poco rappresentate nei processi decisionali politici. Al contrario, le grandi imprese, ben più concentrate e interconnesse, esercitano un’influenza profonda e pervasiva sulle politiche pubbliche. Le aziende presenti nella classifica Fortune 500, ad esempio, rappresentano da sole due terzi del PIL statunitense, con ricavi pari a 13,7 trilioni di dollari e 28,7 milioni di dipendenti in tutto il mondo.
Nomi come Wal-Mart, ExxonMobil, Apple, Amazon, Microsoft, JPMorgan Chase, e Bank of America non sono semplici marchi: sono centri di potere economico globale. Essi incarnano ciò che è comunemente definito come “Big Business”, ma anche “Big Tech”, “Big Data”, “Big Pharma” e “Big Banks” — settori che non solo generano profitti immensi, ma spesso operano in sinergia strategica, rafforzando reciprocamente la loro capacità di incidere sul potere politico. Questo legame è ben evidente nella teoria dell’élite di potere, secondo la quale esiste una connessione simbiotica tra le élite economiche, politiche e, in certi casi, quelle appartenenti a reti più opache e informali.
Il caso dell’industria dei combustibili fossili offre un esempio lampante della capacità delle grandi imprese di resistere al cambiamento strutturale per proteggere i propri interessi. Nonostante i progressi scientifici che rendono tecnicamente possibile lo sviluppo di fonti di energia alternative, il mondo resta ancora legato ai combustibili fossili, in larga parte per via dell’influenza politica esercitata dalle cosiddette “Big Oil” — un termine che indica i sei maggiori colossi petroliferi mondiali: ExxonMobil, Royal Dutch Shell, BP, Chevron, ConocoPhillips, e Total. Queste imprese riescono a bloccare riforme significative sulle politiche energetiche, sostenendo una narrativa che minimizza o nega del tutto la realtà del cambiamento climatico antropogenico.
La loro influenza si manifesta non solo nel finanziamento diretto ai politici, ma anche nella costruzione di una retorica pubblica che bolla come “fake news” qualunque informazione contraria agli interessi dell’industria fossile. Questo meccanismo ha favorito il diffondersi, in alcune aree degli Stati Uniti, di movimenti negazionisti del cambiamento climatico, spesso appoggiati da legislatori che ripetono slogan dettati dagli uffici comunicazione delle grandi imprese energetiche.
Accanto al petrolio, altri settori controversi — come l’industria del tabacco e quella delle armi da fuoco — condividono una struttura di potere simile. Si tratta di industrie altamente redditizie, ma anche estremamente pericolose per la salute pubblica e la sicurezza. Eppure, la loro capacità di persuasione politica le rende quasi intoccabili. Riescono a mantenere normative blande e ottenere sostegni legislativi, anche quando l’opinione pubblica è chiaramente contraria.
Importante è comprendere che questa dinamica non è il frutto di una cospirazione isolata, ma il risultato di un sistema in cui l’accumulazione di capitale si traduce automaticamente in influenza politica. Le grandi imprese non si limitano a operare nel mercato: esse lo modellano, lo regolano e lo difendono attraverso una rete di potere che va ben oltre l’economia di scala.
Anche il linguaggio politico ne risente: il concetto di “alternative facts” — fatti alternativi — ha trovato spazio nel dibattito pubblico come strumento per neutralizzare la verità scientifica o storica quando questa entra in conflitto con gli interessi delle grandi imprese. Si assiste così a una graduale erosione della razionalità democratica, sostituita da una narrazione costruita strategicamente da chi detiene il potere economico.
Ciò che va compreso è che la disparità di potere tra Big Business e piccoli attori economici non è semplicemente una questione di dimensioni aziendali o capacità produttive, ma una questione di accesso al potere istituzionale. Le grandi imprese non solo dominano il mercato, ma ridefiniscono le regole del gioco stesso. L’opinione pubblica, le istituzioni democratiche e perfino la scienza diventano variabili manipolabili in una strategia di autoconservazione del potere corporativo. Per comprendere davvero il funzionamento dell’economia moderna, non basta analizzare le cifre del PIL o l’occupazione: bisogna guardare ai meccanismi di influenza, ai flussi di capitale, alle
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