A basse temperature, la capacità termica dei metalli è in gran parte dovuta agli elettroni di conduzione. Tuttavia, non tutti gli elettroni partecipano a questo processo, ma solo quelli situati vicino all’energia di Fermi. L’apporto specifico di questi elettroni alla capacità termica può essere espresso come Cm=γTC_m = \gamma T, dove γ\gamma è una costante che dipende dal metallo considerato. Per esempio, nel rame, γ7×104J mol1K2\gamma \approx 7 \times 10^{ -4} \, \text{J mol}^{ -1} \text{K}^{ -2}. A 10 K, la capacità termica elettronica è quindi circa 7×103J mol1K17 \times 10^{ -3} \, \text{J mol}^{ -1} \text{K}^{ -1}, in netto contrasto con il contributo quasi trascurabile delle vibrazioni reticolari nello stesso intervallo di temperatura.

Lo stoccaggio di energia termica diventa cruciale quando l’energia disponibile è discontinua nel tempo. Esistono tre forme principali di accumulo termico: quello sensibile, quello a calore latente e quello termochimico. Lo stoccaggio sensibile si basa sull’innalzamento della temperatura di un materiale senza transizione di fase, mentre quello a calore latente sfrutta la trasformazione di fase, come la fusione. I materiali comunemente impiegati includono paraffine e leghe metalliche. Nel caso dello stoccaggio termochimico, si ricorre a reazioni chimiche reversibili.

Un sistema di accumulo sensibile tipico è rappresentato dai riscaldatori elettrici domestici a stoccaggio. Questi dispositivi accumulano calore di notte, quando l’energia elettrica è meno costosa, e lo rilasciano durante il giorno. Contengono generalmente blocchi ceramici riscaldati fino a 600°C. Un materiale con elevata capacità termica specifica è necessario perché può immagazzinare più energia a parità di variazione di temperatura. Inoltre, secondo la legge di Stefan-Boltzmann, l’energia irradiata dalla superficie è proporzionale a T4T^4, il che implica che un materiale con minore capacità termica perde energia più rapidamente. L’elevata densità del materiale è anch’essa vantaggiosa, poiché consente di immagazzinare energia in un volume ridotto.

L’espansione termica nei solidi, sebbene generalmente modesta, può causare problemi strutturali significativi. Le rotaie dei treni, ad esempio, richiedono giunti di dilatazione per evitare deformazioni e instabilità durante le variazioni di temperatura. Allo stesso modo, nei ponti vengono inseriti giunti espansivi per gestire tali cambiamenti. L’Invar, una lega di ferro e nichel, è un materiale impiegato in ingegneria di precisione per la sua pressoché nulla espansione termica.

L’espansione termica nasce dall’energia vibrazionale crescente. Quando le vibrazioni sono descritte come moto armonico semplice, l’energia è simmetrica rispetto alla posizione di equilibrio e non si verifica espansione. Tuttavia, in realtà, le vibrazioni sono anarmoniche, come descritto dall’equazione V(x)=cx2gx3fx4V(x) = cx^2 - gx^3 - fx^4, che include termini di anarmonicità. Questo porta a un’espansione media il cui valore cresce con la temperatura. A temperature elevate, l’espansione lineare è proporzionale a TT; a temperature molto basse, l’espansione tende a zero.

La conduttività termica di un solido rappresenta la velocità con cui il calore si propaga attraverso di esso. Nei metalli, così come la conduzione elettrica, anche la conduzione termica è principalmente mediata dagli elettroni. L’aumento della temperatura comporta l’eccitazione di fononi (quanti di vibrazione del reticolo), che interferiscono con il moto degli elettroni, riducendo la loro lunghezza libera media e quindi la conducibilità elettrica. Tuttavia, i fononi stessi contribuiscono alla conduttività termica, e il loro ruolo è predominante nei materiali isolanti.

L’espressione κ=13Cvvλ\kappa = \frac{1}{3} C_v v \lambda des_

Come vengono studiate le strutture dei materiali ad alta pressione e quale ruolo svolgono le tecniche avanzate di diffusione di raggi X?

Lo studio delle strutture materiali a pressioni elevate rappresenta un ambito di grande interesse sia in geologia che in scienza dei materiali. A pressioni superiori a quelle ambientali, i materiali possono subire transizioni di fase e adottare configurazioni di coordinazione atipiche, difficilmente osservabili a temperatura e pressione ordinaria. Un esempio emblematico è la stishovite, una rara forma polimorfa del biossido di silicio (SiO₂), dove il silicio assume una coordinazione ottaedrica anziché tetraedrica, tipica a condizioni di pressione elevate. I geologi utilizzano esperimenti a pressione variabile per simulare le condizioni del mantello terrestre e di altri corpi planetari, mentre i materiali scientist si focalizzano sulla sintesi di nuove fasi o materiali innovativi.

L’ambiente sperimentale principale per lo studio in situ mediante diffrazione a raggi X a pressione variabile è la cella a incudine di diamante (DAC, diamond anvil cell). Questa sfrutta la relazione fondamentale tra pressione, forza e area, dove una forza moderata applicata su una superficie estremamente piccola può generare pressioni superiori a 100 GPa. Il campione, solitamente in forma polverizzata o talvolta cristallina singola, è posizionato in un foro minuscolo (circa 70–150 micron di diametro) ricavato in un “gasket” metallico di acciaio ad alta resistenza, il quale ha il doppio ruolo di contenere il campione e impedire il contatto diretto tra le punte di diamante, evitando la loro rottura. Per mantenere una pressione omogenea e trasmissiva si impiegano fluidi specifici, come una miscela di metanolo, etanolo e acqua in rapporto 16:3:1, oppure olio di silicone; al superamento dei 20 GPa questa miscela cristallizza in vetro, quindi per pressioni ancora più elevate si utilizza elio come fluido trasmissivo. L’intero sistema è mantenuto in un involucro metallico dotato di viti per incrementare la pressione, mentre piastre di berillio forniscono supporto meccanico ai diamanti.

Durante la diffrazione, i raggi X devono attraversare non solo il campione ma anche entrambi i diamanti, richiedendo così l’uso di raggi X ad alta energia. Gli acceleratori di terza generazione, come i sincrotroni, sono capaci di generare questo tipo di radiazione, e alcune linee di fascio dedicate possono anche riscaldare il campione con laser, ampliando le possibilità sperimentali.

Un esempio significativo è rappresentato dall’inserimento di elio nelle porosità della zeolite silicea ZSM-5, studiato tramite diffrazione a polveri ad alta pressione. Questo ha evidenziato una transizione di fase da gruppo spaziale monoclinico P2₁/n a ortorombico Pnma a 9,1 GPa. Oltre 42 GPa si osserva un allargamento dei picchi di diffrazione, segno di stress e deformazioni che causano perdita di cristallinità. La pressione rilasciata riporta i picchi a una maggiore definizione, ma la struttura rimane ortorombica, indicando la formazione di una fase metastabile.

I campioni usati nelle DAC sono troppo piccoli per esperimenti di diffrazione neutronica, che richiedono volumi maggiori. Per questo si impiegano altre celle, come la Paris-Edinburgh, capace di raggiungere pressioni fino a 25 GPa, con incudini di carburo di tungsteno o diamante policristallino e guarnizioni in leghe a basso scattering neutronico.

L’innovazione tecnologica più recente è rappresentata dai laser a elettroni liberi a raggi X (XFEL), che uniscono la brevità d’onda dei raggi X, essenziali per indagare le strutture atomiche, alla potenza di un laser capace di studiare processi rapidissimi. Mentre i sincrotroni di terza generazione possono investigare eventi di circa 10 picosecondi e i laser femtosecondi nel vicino infrarosso e visibile riescono a risolvere processi intorno a 1 picosecondo, la lunghezza d’onda di questi ultimi è troppo grande per esperimenti di diffrazione. Gli XFEL producono impulsi di luce coerente con durata di pochi femtosecondi, permettendo di sondare dinamiche atomiche fino a ora irraggiungibili.

Questi laser sono generati da fasci di elettroni monoenergetici che percorrono un lunghissimo undulatore, una serie di magneti che inducono oscillazioni e la conseguente emissione di radiazione. Attraverso il processo di emissione spontanea autoamplificata (SASE), gli elettroni si organizzano in microfasci che emettono luce in fase, amplificando intensità e coerenza di un fattore superiore a un miliardo. Tale coerenza è fondamentale per molte delle applicazioni sperimentali degli XFEL.

Al mondo sono attualmente operative cinque strutture XFEL, di cui due in Europa, tra cui il più grande, l’European XFEL, che produce fino a 27.000 impulsi al secondo con brillantezza un miliardo di volte superiore alle fonti convenzionali. Questi strumenti consentono esperimenti rivoluzionari che combinano altissima risoluzione spaziale e temporale, fondamentali per lo studio dinamico della materia.

È cruciale comprendere che la manipolazione della pressione e la tecnologia avanzata delle sorgenti di raggi X non solo permettono di osservare nuovi stati della materia, ma aprono la strada alla progettazione di materiali con proprietà inedite, alla simulazione di ambienti planetari e allo studio di processi fisico-chimici fondamentali su scale temporali finora inaccessibili. La sinergia tra pressione estrema, sorgenti di radiazione avanzate e metodi sperimentali sofisticati rappresenta un pilastro indispensabile per la ricerca moderna in fisica, chimica e scienze della Terra.

Come funzionano le aberrazioni e i componenti principali nei microscopi elettronici a scansione

Le aberrazioni ottiche rappresentano un limite fondamentale nella risoluzione e qualità delle immagini ottenute con i microscopi elettronici. Un esempio rilevante è l’aberrazione cromatica (Cc), dovuta al fatto che le lenti piegano le diverse lunghezze d’onda in modo differente: le lunghezze d’onda più lunghe, o equivalenti a energie più basse, vengono deviate in misura minore rispetto a quelle più corte. Nel contesto dei microscopi elettronici, l’emettitore produce un fascio di elettroni con un ampio spettro di energie, quindi di lunghezze d’onda diverse, che non possono essere tutti messi a fuoco simultaneamente. Tale limitazione può essere parzialmente superata mediante l’utilizzo di un monocromatore, che riduce la gamma di energie del fascio.

L’astigmatismo si manifesta quando il fascio elettronico perde la sua forma circolare ideale, fenomeno che può accadere se la colonna del microscopio, che ospita le lenti elettromagnetiche, non è correttamente allineata o regolata. Questa aberrazione può essere corretta durante la messa a fuoco, migliorando la qualità dell’immagine. Nei primi tempi della microscopia elettronica si utilizzava la pellicola fotografica per catturare le immagini, ma oggi si impiegano sensori digitali, i cui pixel influiscono direttamente sulla risoluzione finale dell’immagine. Secondo il criterio di Nyquist, per ottenere una qualità ottimale dell’immagine, occorrono almeno 2,3 pixel per ogni unità di risoluzione desiderata: ad esempio, per risolvere dettagli di 1 micron, l’immagine deve contenere almeno 2,3 pixel per micron.

Il fascio elettronico viene generato da un cannello elettronico posto nella parte superiore della colonna, presente sia nei microscopi elettronici a scansione (SEM) sia in quelli a trasmissione (TEM). I principali tipi di cannelli sono: il filamento di tungsteno, il LaB6 (esaboruro di lantanio) e il Field Emission Gun (FEG), costituito da un singolo cristallo di tungsteno. Nel caso del filamento termico (termionico), come il tungsteno, il filamento viene riscaldato tramite corrente elettrica fino a diventare incandescente, liberando elettroni termici. Il LaB6, un materiale ceramico con un alto punto di fusione, offre una durata superiore rispetto al tungsteno. Il FEG opera a temperature molto più basse, estraendo elettroni mediante un campo elettrostatico molto intenso. Il diametro della sorgente elettronica del tungsteno è di circa 30 micrometri, mentre quello del FEG è nell’ordine di pochi nanometri, fornendo un fascio più stretto, coerente e brillante. Inoltre, la durata tipica del FEG supera notevolmente quella degli altri filamenti, arrivando a circa dodici mesi.

Il filamento è circondato da un cilindro di Wehnelt, che lo avvolge e presenta un piccolo foro da cui escono gli elettroni. Subito sotto si trova un anodo caricato positivamente che attrae gli elettroni negativi, accelerandoli verso la colonna. Solo una piccola frazione degli elettroni attraversa l’anodo, così da produrre un fascio più piccolo e definito.

Il microscopio elettronico a scansione (SEM) utilizza questo fascio elettronico focalizzato per esaminare la superficie di un campione, scandendola secondo uno schema regolare. Gli elettroni emessi dal campione vengono raccolti da due tipi di rilevatori: gli elettroni secondari (SE) e gli elettroni retro-diffusi (BSE). Gli elettroni secondari, con energie basse (circa 2-50 eV), vengono emessi solo dalla superficie o dalle zone immediatamente sottostanti e sono particolarmente utili per rivelare la morfologia superficiale. Il rilevatore SE, detto anche Everhart–Thornley, permette di ottenere immagini dettagliate della topografia. Gli elettroni retro-diffusi, invece, hanno energie maggiori e forniscono informazioni sulle caratteristiche chimiche e fisiche più in profondità nel campione, in quanto il loro numero dipende dalla composizione e densità del materiale.

L’interazione del fascio elettronico con il campione avviene in un volume chiamato "volume d’interazione", la cui profondità varia in funzione della tensione di accelerazione (kV) e della densità del campione. Per aumentare la quantità di elettroni secondari emessi e ridurre la carica superficiale nei campioni non conduttivi, si ricorre spesso a un sottile rivestimento metallico (oro o platino). Ciò evita distorsioni sia dell’immagine che del segnale, causate dall’accumulo di carica.

La qualità finale dell’immagine in SEM è influenzata da molteplici fattori: l’allineamento preciso delle lenti elettromagnetiche, la stabilità e coerenza del fascio elettronico, la risoluzione del sensore digitale, e la preparazione del campione stesso. Comprendere questi elementi permette di interpretare correttamente le immagini e sfruttare appieno le potenzialità del microscopio.

Oltre a quanto descritto, è importante considerare che la risoluzione e la qualità dell’immagine sono anche influenzate da fenomeni come la diffusione inelastica degli elettroni nel campione, che possono degradare il segnale utile, e la contaminazione superficiale durante l’analisi, che può alterare le caratteristiche osservate. La conoscenza approfondita di questi aspetti consente di pianificare strategie di preparazione e analisi che migliorino l’affidabilità dei dati raccolti.