Nel contesto della crescente consapevolezza ambientale e sanitaria, il dibattito sull’uso di pesticidi pericolosi come l'endosulfan ha acquisito una rilevanza mondiale. Più di 80 paesi, inclusi membri dell’Unione Europea, Australia, Nuova Zelanda, Brasile, Stati Uniti, e Canada, hanno intrapreso politiche per vietare o limitare l’uso di questa sostanza chimica, citando preoccupazioni per la salute umana e l'ambiente. L'endosulfan è stato classificato come uno dei "Persistent Organic Pollutants" (POP), ovvero composti organici persistenti che si accumulano nell'ambiente e nei tessuti viventi. La sua elevata tossicità e il potenziale di bioaccumulo ne fanno una minaccia seria per gli ecosistemi e la salute degli esseri viventi.
La sua proibizione è stata sancita ufficialmente dalla Convenzione di Stoccolma nel 2011, ma diversi paesi avevano già adottato misure simili. L'Unione Europea ha introdotto il divieto totale nel 2008, seguita dal divieto in Australia nel 2012 e in India nel 2011, dopo una serie di tragedie causate dall’esposizione agricola. Nonostante questi sforzi, alcuni paesi come il Bangladesh continuano a permetterne l'uso, nonostante i numerosi incidenti di avvelenamento, incluso quello che ha coinvolto bambini a Dinajpur nel 2012.
Le politiche di divieto sono state spesso accompagnate da periodi di transizione, durante i quali l’uso dell’endosulfan è stato progressivamente ridotto. Questo approccio graduale è stato pensato per permettere ai produttori agricoli di adattarsi a alternative meno dannose, ma non tutti i paesi hanno preso misure simili, il che ha portato a disparità nell’applicazione delle normative globali.
L'endosulfan è stato trovato in vari prodotti alimentari e nel suolo, e il suo impatto sulla salute umana è preoccupante. L'esposizione umana avviene principalmente attraverso la dieta, l'inquinamento dell'acqua e l'esposizione occupazionale diretta nei campi agricoli. Gli effetti tossici sono molteplici e comprendono danni neurologici, effetti sul sistema nervoso centrale, convulsioni, coma e, nei casi più gravi, la morte. L’esposizione cronica a basse dosi può portare a effetti cumulativi nel tempo, aggravando ulteriormente il rischio per la salute.
Le forme di esposizione comprendono:
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Esposizione dietetica: Quando gli alimenti o l’acqua contengono residui di endosulfan. L’accumulo di questa sostanza nelle piante varia in base al tipo di terreno e alle caratteristiche chimiche del suolo. Ad esempio, le verdure a foglia e i frutti tendono ad accumulare più endosulfan rispetto ai cereali. Gli effetti sono amplificati con l'aumento del tempo di esposizione.
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Esposizione occupazionale: Gli agricoltori che maneggiano pesticidi, specialmente durante l'applicazione sul campo, sono particolarmente vulnerabili. L’uso inadeguato di dispositivi di protezione individuale può aumentare il rischio di avvelenamento acuto o cronico. Negli Stati Uniti, l’Environmental Protection Agency (EPA) ha evidenziato che anche con dispositivi di protezione adeguati, i lavoratori agricoli rimangono a rischio.
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Esposizione accidentale: Numerosi incidenti hanno coinvolto non solo lavoratori agricoli, ma anche residenti e animali che sono stati esposti a endosulfan per via aerea o tramite il contatto con superfici contaminate. Le sostanze chimiche possono anche viaggiare su lunghe distanze, esponendo popolazioni che non sono direttamente coinvolte nell'uso agricolo.
Inoltre, gli effetti tossici di endosulfan non si limitano agli esseri umani. La sostanza è stata trovata in concentrazioni dannose per numerose specie animali, inclusi mammiferi, pesci e insetti. Questi effetti sono particolarmente gravi per gli ecosistemi acquatici e terrestri, dove la sostanza si accumula nel cibo e nelle catene alimentari. Gli effetti più evidenti sono danni neurologici negli animali, alterazioni comportamentali e, in alcuni casi, la morte.
L’endosulfan è anche noto per la sua capacità di persistere nell'ambiente, il che significa che può rimanere attivo per lungo tempo, contaminando suolo, acqua e aria. La sua natura persistente e la sua capacità di accumularsi nei tessuti biologici mettono a rischio non solo le specie esposte direttamente, ma anche quelle a cui viene trasmesso il contaminante attraverso la catena alimentare.
Il caso dell'India è emblematico per comprendere la gravità dell’esposizione da endosulfan. La tragedia di Kasargod, in Kerala, ha evidenziato i devastanti effetti collaterali dell’uso di questo pesticida. In quella regione, molte persone sono morte o sono state gravemente danneggiate dal contatto diretto con il pesticida, che è stato successivamente vietato dalla Corte Suprema del paese nel 2011.
Sebbene il divieto di endosulfan sia una conquista importante per la salute pubblica e l'ambiente, l’adozione di alternative sicure è un processo lungo e complesso. Molti agricoltori e produttori devono ancora affrontare le difficoltà di transizione verso metodi agricoli più sostenibili, e la disponibilità di alternative efficaci e non dannose per l’ambiente è ancora limitata.
In sintesi, il divieto globale di endosulfan è un passo necessario per proteggere la salute umana e l'ambiente, ma richiede un impegno continuo per garantire che le alternative siano adeguatamente sviluppate e accessibili a tutti i paesi, in particolare quelli con economie emergenti. L'esperienza accumulata dai paesi che hanno già proibito l'uso di endosulfan può servire da guida per altri Stati, affinché possano evitare gli errori del passato e promuovere un futuro più sicuro per le generazioni a venire.
Come Analizzare l'Inquinamento da PAH e la Sua Distribuzione Globale: Tecniche Avanzate e Stime delle Emissioni
L'analisi delle sorgenti di inquinamento da idrocarburi policiclici aromatici (PAH) si avvale di tecniche sempre più sofisticate, che consentono di determinare in modo accurato la provenienza di questi composti nei vari ambienti. Tra le metodologie più avanzate c'è l'analisi isotopica specifica per composto (CSIA), che sfrutta la firma isotopica stabile del carbonio (δ13C), espressa come la variazione nel rapporto tra il carbonio 13 (13C) e il carbonio 12 (12C). Questa tecnica si basa sull'ipotesi che le firme isotopiche dei PAH provenienti da diverse fonti siano distintive e facilmente riconoscibili, mantenendo l'integrità della firma del precursore originario, dall'emissione al campione analizzato. L'impiego congiunto di altre tecniche come l'analisi degli isotopi stabili dell'idrogeno (δ2H), soprattutto in combinazione con δ13C, ha mostrato un miglioramento nell'efficienza nel differenziare i PAH derivanti da combustibili fossili da quelli derivanti dalla combustione di biomassa. Inoltre, l'analisi isotopica del radiocarbonio (CSRA) offre un’alternativa al CSIA, permettendo una distinzione chiara tra PAH originati dalla combustione di biomassa e quelli derivanti dai combustibili fossili, grazie alla deplezione del 14C durante la formazione dei combustibili fossili nel corso di milioni di anni.
Queste tecniche, pur possedendo alcune limitazioni intrinseche, risultano particolarmente robuste quando vengono utilizzate in combinazione. Infatti, la combinazione di più metodi consente di compensare le debolezze specifiche di ciascuna tecnica, migliorando così la precisione e la capacità di discriminazione nelle analisi delle sorgenti di PAH. L'analisi delle sorgenti non solo fornisce informazioni cruciali sulla geochimica, sul destino e sul comportamento dei PAH nell'ambiente, ma svolge un ruolo fondamentale anche nelle decisioni politiche e nelle pratiche giudiziarie relative al controllo e alla gestione della contaminazione da PAH.
L'inquinamento da PAH è un fenomeno globale, con emissioni che provengono da una varietà di fonti, dalle industrie alle attività di combustione residenziale. Studi recenti hanno mostrato come le stime delle emissioni siano state realizzate a livello globale, nazionale e regionale, con particolare attenzione alle proiezioni temporali e spaziali delle emissioni atmosferiche. Ad esempio, le stime relative alle emissioni in Cina indicano una distribuzione di circa 530.000 tonnellate di PAH tra i vari compartimenti ambientali, con il suolo che funge da principale "sinks" per oltre il 60% dei PAH. Le stime globali indicano che, nel 2004, le emissioni atmosferiche di PAH fossero pari a 520.000 tonnellate all'anno, con la Cina, l'India e gli Stati Uniti come i principali emettitori.
In Cina, il settore energetico è stato identificato come il principale responsabile delle emissioni di PAH, e sono stati registrati cali significativi nelle emissioni totali, soprattutto nei settori industriali e commerciali. Le emissioni annuali in Europa, invece, sono state dominate dalla combustione residenziale per il riscaldamento, che ha contribuito a più del 60% delle emissioni. Il Regno Unito ha anche visto una significativa riduzione delle sue emissioni di PAH dal 1990, passando da circa 5.500 tonnellate all’anno a meno di 1.000 tonnellate nel 2008.
Un aspetto critico da considerare è la differenza tra le emissioni da fonti puntuali e non puntuali. Le fonti puntuali, come le industrie (impianti di produzione di gas, impianti di cokeria, raffinerie di petrolio, ecc.), sono facilmente identificabili e confinabili, mentre le fonti non puntuali, come la combustione domestica o gli incendi forestali, sono più difficili da tracciare ma ugualmente significative. Le aree di hotspot, in particolare negli ambienti acquatici e terrestri, presentano livelli molto elevati di PAH, spesso provenienti da incidenti come fuoriuscite di petrolio o perdite di materiali tossici.
Infine, le stime globali delle emissioni di PAH mostrano una tendenza a ridursi nel tempo. Tuttavia, nonostante i miglioramenti nelle tecniche di emissione e nelle politiche ambientali, le sfide restano significative, specialmente nelle aree ad alto sviluppo industriale e nelle regioni in via di sviluppo. Gli studi sulle emissioni di PAH sono fondamentali per sviluppare politiche di gestione più efficaci e per monitorare in modo continuo l'evoluzione della contaminazione in diverse aree geografiche.
Quali meccanismi regolano la persistenza e la mobilità dei pesticidi organoclorurati nei suoli contaminati?
In vari contesti geografici, la presenza di pesticidi organoclorurati nei suoli continua a rappresentare una sfida ambientale complessa, non solo per la loro persistenza, ma anche per la loro capacità di migrazione verticale e orizzontale nel profilo del suolo. Il caso del dicofol in Vietnam, dove residui sono stati rilevati fino a 5 metri di profondità in strati di argilla limosa, illustra in modo emblematico la longevità e la mobilità di tali composti anche dopo la cessazione delle attività industriali. In particolare, il DDE, un intermedio del processo produttivo del dicofol, è risultato presente in quantità significative, confermando la difficoltà di confinamento e degradazione naturale di questi residui.
Un aspetto rilevante emerso da diversi studi riguarda il trasporto colloidale, un meccanismo attraverso cui i pesticidi possono essere veicolati da batteri e particelle colloidali organiche nel suolo. Esperimenti condotti con ceppi di Pseudomonas fluorescens hanno dimostrato la capacità di bioaccumulare dicofol con un fattore di bioconcentrazione di 279 in soli 30 minuti. In colonne di suolo, l’utilizzo di batteri “addestrati” ha confermato la possibilità di trasporto del pesticida attraverso strati profondi, anche se la materia organica del suolo mostra un'affinità superiore rispetto ai ceppi batterici per l’adsorbimento. Tuttavia, in siti altamente contaminati, il trasporto mediato da microrganismi può rappresentare un vettore importante, come indicato dallo studio sulla ex fabbrica di dicofol.
L’endrin, altro pesticida organoclorurato, si conferma come sostanza fortemente persistente. In Australia, residui sono stati rinvenuti fino a 1,2 metri di profondità nei suoli cotonieri della valle di Namoi, classificandosi come il terzo residuo più abbondante dopo DDE ed endosulfano solfato. In Argentina, le concentrazioni più elevate sono state rilevate nei terreni agricoli più antichi, con una chiara associazione tra endrin, materia organica e contenuti argillosi, suggerendo un’adsorbimento selettivo su frazioni colloidali organo-minerali. In India, si è osservata una correlazione positiva tra la presenza di endrin, sabbia e contenuto lipidico, mentre si sottolineava l’importanza di una caratterizzazione specifica della materia organica del suolo per comprendere la dinamica dei composti xenobiotici.
I fattori che regolano la persistenza dell’endrin includono volatilizzazione e fotodecomposizione. L'isomerizzazione a delta-chetoendrin, promossa dalla luce solare, può coinvolgere fino al 50% del composto in una settimana estiva. Anche la trasformazione microbica, in condizioni anaerobiche, può produrre il medesimo isomero. In ogni caso, l’elevata stabilità dell’endrin è favorita dalla presenza di sostanza organica e dalle condizioni edafiche locali, con emivite che possono raggiungere i 12 anni.
Il comportamento dell’heptacloro segue dinamiche simili. In Missouri, uno studio storico ha documentato che l’applicazione di quantità anomale di heptacloro ha portato, in otto anni, a una sua quasi totale degradazione, con la formazione del metabolita heptacloro epossido che ha raggiunto il picco nel quinto anno. Tuttavia, in terreni sottoposti a dosi elevate iniziali, la scomparsa è risultata più lenta. Dati provenienti dall’Argentina mostrano la presenza di heptacloro ed epossido non solo nei suoli agricoli, ma anche in aree naturali di altitudine, dove la contaminazione può essere attribuita a fenomeni di "cold trapping" dei POPs, che condizionano la deposizione atmosferica in zone montane.
Il comportamento di heptacloro nei suoli agricoli, con concentrazioni più basse rispetto alle aspettative, può essere spiegato non solo con perdite per volatilizzazione, ma anche con la selezione di una microflora efficace nella degradazione dei pesticidi, favorita dalla pratica agricola continua e dall’uso di fertilizzanti. La coevoluzione tra attività agricola e adattamento microbico rappresenta un fattore chiave nella dinamica di persistenza.
Il lindano, noto per essere la forma γ dell’esaclorocicloesano (γ-HCH), mostra una mobilità superiore rispetto ad altri pesticidi come il DDT. Le sue proprietà di adsorbimento sono fortemente influenzate dalla tessitura del suolo. Studi mostrano che il lindano è maggiormente adsorbito in suoli arg
Come gli inquinanti organici persistenti (OCP) si comportano nell'ambiente e i fattori che influenzano il loro destino
Gli inquinanti organici persistenti (OCP) sono composti chimici che, a causa della loro natura chimica e della loro resistenza alla degradazione biologica, tendono a persistere nell'ambiente per lunghi periodi. Questi inquinanti sono solitamente molto idrofobici e si legano fortemente a particelle sospese e ai sedimenti nelle acque, accumulandosi nei tessuti degli organismi acquatici e attraverso le catene alimentari. L'introduzione di OCP negli ambienti acquatici può avvenire tramite diverse vie, come la deposizione atmosferica, il deflusso da terreni contaminati e l'applicazione diretta di questi composti. La loro presenza e comportamento nell'ambiente dipendono da vari fattori fisico-chimici, tra cui la solubilità, il coefficiente di partizione octanolo-acqua (Kow), e le caratteristiche specifiche dei sedimenti.
Quando gli OCP entrano in contatto con organismi acquatici, è possibile che vengano accumulati non solo attraverso l'acqua ma anche dai particolati sospesi e dalle fonti alimentari contaminate. Questo accumulo può portare a fenomeni di biomagnificazione, ossia un aumento della concentrazione di OCP negli organismi che si trovano ai vertici delle catene alimentari, come nei predatori principali. La bioaccumulazione dipende da una serie di fattori, tra cui la velocità di assorbimento dagli ambienti circostanti, la capacità metabolica dell'organismo di trasformare gli OCP e le velocità di eliminazione tramite escrezione o biotrasformazione. Alcuni organismi, come alcune specie di pesci, hanno sviluppato la capacità di trasformare gli OCP in metaboliti meno tossici, sebbene questi metaboliti possano comunque mantenere una certa persistenza e tossicità nell'ambiente.
La trasformazione ambientale degli OCP è influenzata da vari processi chimici, come l'idrolisi, l'ossidazione e la dealogenazione riduttiva. La fotodegradazione gioca un ruolo importante, in particolare nelle acque superficiali e nell'atmosfera. La reazione di fotolisi diretta e quelle mediate chimicamente (come le reazioni con i radicali idrossili) sono fattori cruciali nel processo di degradazione degli OCP. La capacità di fotodegradazione varia tra i diversi OCP; ad esempio, il DDT è più facilmente fotodegradabile rispetto ad altri composti come l'esaclorobenzene (HCB). Inoltre, l'idrolisi è un altro processo significativo per alcuni OCP, specialmente in condizioni alcaline, come nel caso del solfano, che può essere idrolizzato per formare un metabolita meno persistente e tossico.
Tuttavia, la biodegradazione, sebbene importante, può essere lenta, soprattutto per i composti altamente clorurati. Diversi microrganismi, come batteri, funghi e alghe, sono stati identificati come in grado di degradare parzialmente o completamente gli OCP, ma i processi biologici richiedono tempi lunghi, e spesso i prodotti di degradazione sono altrettanto tossici dei composti originari. In alcuni casi, la degradazione anaerobica può produrre metaboliti come il DDD, che è un altro OCP persistente e problematico.
I fattori che influenzano il trasporto e la trasformazione degli OCP nell'ambiente sono molteplici. La loro interazione con le proprietà fisico-chimiche del suolo, come la pressione di vapore, il pH, la solubilità e la capacità di adsorbire gli OCP, è fondamentale per determinare l'effetto di questi composti sull'ambiente. La presenza di materia organica nel suolo (SOM) gioca un ruolo chiave nell'assorbire e degradare gli OCP, riducendo così la loro bioavailability e minimizzando il loro impatto. Quando gli OCP si disperdono nel suolo, si legano alla materia organica attraverso interazioni idrofobiche, legami covalenti e una parziale diffusione, il che contribuisce a ridurre la loro mobilità e, di conseguenza, il rischio di contaminazione ambientale.
Anche la temperatura del suolo è un fattore importante che può influenzare la destinazione degli OCP. Poiché l'adsorbimento di questi composti è una reazione esotermica, l'aumento della temperatura del suolo generalmente riduce l'efficacia di adsorbimento, aumentando la mobilità degli OCP. Questo effetto può amplificare la contaminazione, poiché gli OCP possono muoversi più facilmente attraverso il suolo e penetrare nelle falde acquifere.
Inoltre, l'acidità o l'alcalinità del suolo influiscono notevolmente sulla capacità di adsorbire e degradare gli OCP. Alcuni studi hanno dimostrato che un pH più elevato (condizioni alcaline) può migliorare l'attività di alcuni enzimi ossidativi nel suolo, accelerando la degradazione degli OCP. Al contrario, un pH più acido può ridurre l'attività enzimatica e impedire una rapida degradazione. Questi effetti sono di grande importanza, poiché una gestione adeguata del pH del suolo potrebbe rivelarsi una strategia per mitigare l'inquinamento da OCP.
Oltre a questi fattori, è essenziale comprendere che l'interazione tra diversi parametri, come la temperatura del suolo, la presenza di microrganismi e la composizione chimica del suolo, può produrre effetti sinergici che modificano la persistente e la mobilità degli OCP. La gestione dell'ambiente naturale, pertanto, deve tenere conto di questi fattori per ridurre l'impatto a lungo termine degli OCP e per favorire processi di bioremediation che possano accelerare la loro degradazione senza compromettere la salute ecologica dei sistemi naturali.
Le Solventi Clorurati: Impatti Ambientali e Salute Pubblica
I solventi clorurati sono composti organici contenenti cloro utilizzati principalmente come solventi industriali. Tra i più comuni si trovano il triclorometano (TCE), il tetracloroetilene o percloroetilene (PCE), il cloroformio, il metilene cloruro e il tricloroetano (TCA). Questi composti sono impiegati in una varietà di settori, tra cui la pulizia di metalli, la fabbricazione di plastica, la produzione di prodotti farmaceutici e nei processi di tintura e stampa. Nonostante la loro ampia applicazione in passato, l'uso di solventi clorurati ha subito una drastica diminuzione a causa dei gravi problemi ambientali e sanitari legati alla loro tossicità, in particolare al loro potenziale cancerogeno.
Il triclorometano (TCE), ad esempio, è un solvente molto efficace e a basso costo, utilizzato principalmente per la rimozione di oli, cere e altre impurità dalle superfici metalliche. È impiegato in molteplici settori, tra cui l’elettronica e l’automobilistico, ed è prodotto tramite clorurazione dell’etilene. Il percloroetilene (PCE), noto anche come tetracloroetilene, è utilizzato prevalentemente nel processo di lavaggio a secco e nella sgrassatura dei metalli. È anche impiegato nella produzione di plastiche e come rivestimento. Entrambi questi solventi sono prodotti attraverso la clorurazione dell’etilene, un processo simile per entrambe le sostanze.
Altri solventi clorurati, come il metilene cloruro, utilizzato per dissolvere oli e grassi, e il cloroformio, che un tempo veniva impiegato come anestetico, sono ora usati principalmente nella produzione di fluocarburi. Questi composti vengono prodotti tramite clorurazione del metano, un’altra importante reazione industriale.
Tuttavia, nonostante i numerosi usi industriali, la preoccupazione per la loro tossicità ha spinto a una graduale riduzione del loro impiego. I solventi clorurati sono noti per le loro gravi conseguenze sulla salute, come danni al sistema nervoso centrale, al fegato e ai reni, e il rischio di sviluppare malattie oncologiche. L’esposizione prolungata a questi composti, che avviene in ambienti industriali, può causare effetti nocivi gravi, in particolare se non vengono rispettate adeguate misure di sicurezza.
Le principali fonti di contaminazione ambientale derivanti dai solventi clorurati sono le emissioni industriali, i siti di smaltimento dei rifiuti e le discariche di sostanze pericolose. In particolare, i solventi clorurati sono frequentemente rilasciati nei terreni e nelle acque sotterranee a causa di perdite accidentali o smaltimenti inadeguati. Questi composti sono caratterizzati da una bassa solubilità in acqua, il che li rende difficili da rimuovere una volta che si infiltrano nel suolo o nelle falde acquifere. Poiché sono più densi dell’acqua, i solventi clorurati si accumulano in profondità nei terreni, creando un problema persistente di contaminazione.
Uno degli aspetti più preoccupanti di queste sostanze è la loro capacità di migrare nel suolo e nell’acqua in forma di liquidi densi non acquosi (DNAPL), che possono formare serbatoi persistenti di contaminazione nel lungo periodo. La migrazione verticale di questi liquidi, a causa della loro densità e della bassa solubilità, rende particolarmente difficile il monitoraggio e la bonifica dei siti contaminati, poiché i DNAPL si spostano lentamente verso gli strati impermeabili più profondi, dove si accumulano. Questo fenomeno ha creato enormi difficoltà nei programmi di risanamento ambientale, poiché la contaminazione da DNAPL può estendersi dal livello della falda acquifera fino alla base degli acquiferi stessi, rappresentando una sfida considerevole.
Alcuni studi hanno documentato l’uso di solventi clorurati in Taiwan, dove negli anni precedenti al 2000 si importavano quantitativi significativi di sostanze come il TCE e il PCE. Anche se le importazioni sono diminuite negli anni successivi grazie a regolamenti più severi e a miglioramenti nel riciclaggio, è emerso che molte industrie, tra cui i produttori di prodotti chimici, le fabbriche di trattamento delle superfici e le aziende farmaceutiche, continuano a essere una fonte importante di contaminazione.
L’impatto sanitario dei solventi clorurati, in particolare il PCE, è ben documentato. Esso è un composto organico volatile che può subire processi di degradazione sotto condizioni anaerobiche, trasformandosi in sostanze meno clorurate come il TCE, il DCE e il cloruro di vinile. Questi composti, pur essendo meno persistenti, sono comunque pericolosi per la salute umana e possono accumularsi nelle falde acquifere, causando contaminazione a lungo termine.
L’importanza di comprendere le dinamiche di contaminazione dei solventi clorurati risiede nella necessità di sviluppare strategie efficaci per la bonifica dei siti contaminati. È fondamentale adottare tecniche di monitoraggio avanzato per rilevare la presenza di DNAPL e valutare la portata della contaminazione, nonché migliorare le tecnologie di trattamento per ridurre i rischi per la salute e per l’ambiente.
Le informazioni fornite suggeriscono che, oltre alla limitazione dell'uso di solventi clorurati, è necessario un impegno costante nella ricerca di soluzioni innovative per il recupero ambientale, il monitoraggio e la gestione della contaminazione in modo sostenibile. Non bisogna trascurare l’importanza di educare i lavoratori e la comunità sui pericoli associati a queste sostanze, promuovendo al contempo l’adozione di pratiche più sicure e responsabili nelle industrie che ancora ne fanno uso.
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